martedì 25 giugno 2013

La Luce Azzurra dei Grimm, Ovvero, Aladino in Europa Traduzione Mia

'era una volta un soldato che per molti anni aveva combattuto al servizio del Re, ma, quando la guerra terminò, fu congedato senza ricevere un soldo. Il soldato sapeva fare solo la guerra e non aveva idea di come avrebbe potuto guadagnarsi da vivere. Tutto assorto in questi tristi pensieri, camminò senza meta fino a sera, quando giunse in un bosco. Vi entrò e, al calar delle tenebre, scorse una lucina. S'incamminò in direzione della luce e giunse ad una casetta dove viveva una vecchia strega.



Olga Kondarova


Il soldato la pregò di dargli un giaciglio per la notte e un tozzo di pane per levargli la fame, e la vecchia gli disse:
"Chi darebbe mai qualcosa ad un vagabondo? Ma io ho un cuore compassionevole e ti ospiterò, a patto che domani tu vanghi il mio giardino".
Il soldato promise. Il giorno dopo, vangò di buona lena il giardino della strega fino a sera. E la strega gli disse:
"Se domani spaccherai la mia provvista di legna per l'inverno in tanti piccoli ciocchi, ti ospiterò e ti darò di che sfamarti anche questa notte".
Così, il giorno dopo, il soldato spaccò la legna fino a sera.
"Hai lavorato sodo - disse la vecchia - e ti ospiterò anche stanotte, a patto che domani tu mi renda un ultimo servigio, una faccenda che ti costerà ben poca fatica: dietro la casa, c'è un pozzo secco. Tempo fa, vi ho lasciato cadere la mia candela. Fa una luce di un bell'azzurro e non si consuma mai, e tu dovrai riprenderla per me".
L'indomani, la strega lo condusse al pozzo, e lo calò in una cesta. Una volta sul fondo, il soldato trovò la luce azzurra e tirò la corda perché la vecchia lo tirasse su. La strega lo tirò su, ma quando egli fu così vicino all'orlo che poteva quasi toccarlo, gli gridò: "Svelto, passami la mia luce azzurra!", ma il soldato, diffidente, ribattè: "Non prima d'aver rimesso tutti e due i piedi in terra!".
"Dammela!", gridò nuovamente la strega, incollerita. E, di nuovo, lui si rifiutò.
Allora, la strega montò su tutte le furie, lasciò cadere la corda e se ne andò, e il soldato ripiombò in fondo al pozzo.



Olga Kondarova


Cadde nel fango, senza ferirsi. La luce azzurra continuava a splendere, ma lui era molto infelice poiché sapeva che lo aspettava una morte certa. Si ricordò che, in tasca, serbava la sua pipa, che era ancòra piena, e pensò: 'Sarà il tuo ultimo piacere!'
La tirò fuori, l'accese alla luce azzurra e si mise a fumare. Quando il fumo si sparse nel pozzo, gli comparve d'un tratto davanti un piccolo gnomo nero, che, dopo essersi inchinato rispettosamente, gli chiese:
"Padrone, cosa comandi?".
Il soldato rispose:
"Cosa? Quali comandi?".
Lo gnomo disse:
"Devo eseguire ogni tuo ordine".
"Bene, allora, per incominciare, aiutami a uscire da questo pozzo!"
L'omino nero lo prese per mano e lo condusse per un passaggio segreto fino ad una caverna dove la vecchia strega aveva nascosto i suoi tesori. Il soldato si riempì le tasche d'oro e di diamanti, e, infine, riemerse alla luce del giorno, ma non dimenticò di portare con sé la luce azzurra.
Quindi, il soldato ordinò allo gnomo di portare la strega davanti ad un giudice perché venisse giustiziata, ed ecco la vecchia trascinata via che sbuffava e soffiava come un gatto idrofobo.
Poi l'omino gli disse:
"Se avrai bisogno dei miei servigi, non dovrai far altro che accendere la pipa alla luce azzurra". E sparì.
Il soldato si recò in città, prese alloggio nella migliore locanda, si fece confezionare magnifici abiti, e arredò sfarzosamente la sua camera. Quando tutto fu pronto, il soldato evocò l'omino nero e disse:
"Ho servito fedelmente il Re per anni, e lui mi ha cacciato lasciandomi morire di fame. Adesso, voglio la mia vendetta. Questa notte, quando la sua unica figlia sarà profondamente addormentata, rapiscila e portala qui da me: mi farà da serva".
Lo gnomo rispose:
"E' un incarico facile per me, ma che creerebbe gravi problemi a te se venissi scoperto".
Tuttavia, quando suonò la mezzanotte, andò a rapire la Principessa addormentata dal suo letto, e la portò nella camera del soldato, e la fanciulla dovette obbedire ai suoi ordini e sbrigare le faccende di una serva: "Spazza e lava la stanza da cima a fondo!", le gridò il soldato. E la Principessa obbedì, ma aveva gli occhi socchiusi, come se dormisse. "Lustra i miei stivali!", urlò il soldato, gettandoli a terra, e la Principessa li raccolse e li lucidò finché brillarono.


Olga Kondarova


Al primo canto del gallo, l'omino nero la riportò a Palazzo e la coricò nel suo letto. Quando la Principessa si alzò, disse al padre:
"Questa notte ho fatto uno strano sogno: mi è parso di essere sollevata e portata via alla velocità del vento. Mi ritrovai nella camera di un soldato che mi ha costretto a sbrigare ogni sorta di faccende come fossi stata la sua serva. So che è solo un sogno, ma sono stanca morta e ho tutte le ossa rotte".
Ma il Re disse:
"Ascoltami: fa' un forellino nella tasca e riempila di piselli: chissà, il sogno potrebbe anche essere vero, e, in questo caso, i piselli, cadendo lungo la strada, ci indicheranno la via".
La fanciulla seguì il consiglio paterno, ma l'omino nero aveva udito, non visto, le parole del Re e, quando si fece sera e il soldato gli ordinò di andare a prendere di nuovo la Principessa, egli disseminò di piselli tutte le strade della città, così lo stratagemma ideato dal Re non sortì alcun effetto e la Principessa dovette lavorare come una serva fino al canto del gallo.
L'indomani, quando le guardie percorsero le strade in cerca della scia di piselli, scoprirono che tutta la città ne era piena, e che la gente gridava:"Stanotte, son piovuti piselli!"
Allora, il Re si convinse che quello della Principessa non era affatto un sogno, e, furioso ed umiliato, le disse:
"Stanotte, coricati con le pantofole ai piedi, e, se dovesse tornare il tuo rapitore, nascondi una pantofolina nella stanza in cui è solito portarti".
Per la terza volta, il soldato ordinò allo gnomo di portargli la Principessa.
L'omino nero disse: "Obbedisco, ma ti consiglio di fuggire da qui non appena l'avrò riportata a Palazzo, domattina!"
Ma il soldato non se ne dette per inteso.
La Principessa nascose una delle sue pantofoline sotto il letto, e, la mattina seguente, quando fu sana e salva a Palazzo, il Re ordinò che venisse frugata ogni casa, stanza e locanda della città, e le guardie trovarono la pantofola sotto il letto del soldato, che fu catturato e gettato in prigione. Così, coperto di catene, guardava fuori dalla finestrella della sua cella, rammaricandosi d'aver dimenticato la luce azzurra nella sua stanza. Ad un tratto, vide passare uno dei suoi antichi camerati, lo chiamò e in cambio di un ducato - tutto ciò che aveva in tasca - quello si recò nella sua stanza e gli portò la luce azzurra. Il soldato accese la sua pipa alla luce azzurra e subito comparve il piccolo gnomo nero.
"Non aver paura! - gli disse - Va' tranquillamente dovunque ti condurranno, ma tieni sempre con te la luce azzurra".
Il giorno dopo, il soldato fu processato e condannato a morte. Quando lo condussero sulla strada per la forca, implorò un'ultima grazia dal Re.
"Quale?" domandò il Re.
"Un ultimo tiro dalla mia pipa."
"Anche tre, se ti va - rispose il Re - ma non sperare che ti risparmi la vita!".
Allora, il soldato tirò fuori la sua pipa e l'accese alla luce azzurra, ed ecco comparire l'omino nero, con un randello in mano.
"Padrone, cosa comandi?"
"Uccidi il giudice che mi ha condannato e il Re che mi ha trattato così crudelmente e tutta la Corte, ma risparmia la Principessa perché è innocente dei torti di suo padre, e l'ho già fatta soffrire abbastanza", disse il soldato.
E lo gnomo cominciò a menar colpi a destra e a manca e la gente cadeva come birilli, tanto che il Re si gettò ai piedi del soldato implorando che gli risparmiasse la vita, e gli consegnò il Regno e sua figlia in sposa.



Olga Kondarova


Grimm n.116, "Das blaue Licht"
Classificazione: AaTh 562 [The Spirit in the Blue Light]
Traduzione: Mab's Copyright.
Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

giovedì 20 giugno 2013

Il Compleanno dell'Infanta ( Versione Integrale), O.Wilde - Seconda Parte

osì continuarono a volargli intorno, sfiorandogli appena la guancia con le ali, e chiacchierando fra loro, e il piccolo Nano ne fu così contento che non poté fare a meno di mostrar loro la bella rosa bianca, e dir loro che l'Infanta stessa gliel'aveva data perché lo amava.
Gli Uccelli non capirono una parola di quello che diceva, ma non fece differenza, perché inclinarono lateralmente il capo e assunsero un'espressione saggia, il che equivale a capire le cose, ed è molto più facile.
Anche le Lucertole provarono un'enorme simpatia per lui, e quando il Nano si stancò di correre qua e là e si buttò sull'erba a riposare, giocarono e si trastullarono correndogli sopra, e cercarono di divertirlo meglio che potevano. "Non tutti possono essere belli come le lucertole!" esclamavano, "Sarebbe chiedere troppo. E per quanto sembri assurdo, dopotutto lui non è mica così brutto, sempre se si chiudono gli occhi, naturalmente, e se non lo si guarda." Le Lucertole erano estremamente filosofe per natura, e spesso se ne stavano sedute a riflettere per ore e ore, quando non c'era altro da fare, o quando pioveva troppo per uscire.
I Fiori, tuttavia, si seccarono estremamente per il loro contegno, e per il contegno degli Uccelli. "Serve solo a mostrare" dissero"che effetto involgarente ha questo incessante correre e svolazzar qua e là. Le persone educate stanno sempre esattamente allo stesso posto, come noi. Nessuno ci ha mai visto saltabeccare per i vialetti, o galoppare come matti per l'erba all'inseguimento delle libellule. Quando vogliamo cambiare aria, mandiamo a chiamare il giardiniere, e lui ci porta in un'altra aiuola. Questo è dignitoso e decoroso. Ma gli Uccelli e le lucertole non hanno il senso del riposo, anzi, gli Uccelli non hanno nemmeno un indirizzo fisso. Sono semplici vagabondi come gli zingari, e andrebbero trattati nello stesso modo preciso." Così alzarono il naso in aria, e assunsero un atteggiamento molto altezzoso, e furono felici e contenti quando dopo qualche tempo videro il piccolo Nano rialzarsi goffamente dall'erba, e attraversare il terrazzo avviandosi verso il palazzo.
" Certo dovrebbero rinchiuderlo per il resto della vita" dissero " Guarda che gobba e che gambe storte" e si misero a ridacchiare.
Ma il piccolo Nano non seppe niente di tutto ciò. Uccelli e lucertole gli piacevano immensamente, e considerava i fiori le cose più meravigliose di tutto il mondo, con la sola eccezione, naturalmente, dell'Infanta; però lei gli aveva dato quella bella rosa bianca, e lo amava, e questo faceva una grande differenza. Come avrebbe voluto essere rientrato con lei! Lei se lo sarebbe messo alla destra, e gli avrebbe sorriso, e lui non si sarebbe mai staccato dal suo fianco, ma sarebbe stato il suo compagno di giochi, e le avrebbe insegnato ogni sorta di piccole cose incantevoli. Perché malgrado non fosse mai stato in un palazzo prima di allora, lui conosceva molte cose meravigliose. Sapeva fare piccole gabbie di giunchi perché le cicale vi cantassero, e trasformare il bambù dalle lunghe giunture nella zampogna cara all'udito di Pan. Conosceva il grido di ogni uccello, e sapeva chiamare gli storni dalla cima dell'albero, o l'airone dallo stagno. Conosceva la pista di ogni animale, e sapeva seguire la lepre dalle impronte delicate, e l'orso dalle foglie calpestate. Tutte le danze selvagge conosceva, l'autunno la folle danza in vesti rosse, la danza leggera in sandali azzurri al tempo del grano, la danza con bianche ghirlande da neve l'inverno, e la danza dei germogli, per i frutteti, la primavera. Sapeva dove facevano il nido i colombacci, e una volta che gli uccellatori avevano imprigionato i genitori, lui aveva allevato i piccoli, e aveva costruito per loro una colombaia nella spaccatura di un olmo cimato. Erano docilissimi, e venivano a prendere il cibo dalle sue mani ogni mattina. Le sarebbero piaciuti, come le sarebbero piaciuti i conigli che scorrazzavano tra le lunghe felci, e le ghiandaie con le loro penne d'acciaio e i becchi neri, e i porcospini che sapevano avvoltolarsi in palle pungenti, e le grandi sagge tartarughe che strisciavano lentamente qua e là, scuotendo il capo e mangiucchiando le foglie giovani. Sì, certo, doveva venire a giocare con lui nella foresta. Lui le avrebbe ceduto il suo lettuccio, e avrebbe vegliato fuori dalla finestra fino all'alba, perché la mandria selvaggia, cornuta, non le nuocesse, né i lupi sparuti strisciassero troppo vicini alla capanna. E all'alba avrebbe bussato alle imposte per destarla, e sarebbero usciti e avrebbero danzato insieme tutto il giorno. Veramente non c'era la minima solitudine nella foresta. A volte passava un Vescovo a cavallo della sua mula bianca, leggendo un libro dipinto. A volte passavano i falconieri, nei loro berretti verdi di velluto, e nei loro giustacuori di pelle di daino conciata, e con al polso i falchi incappucciati. Al tempo della vendemmia venivano i vignaioli, con mani e piedi purpurei, incoronati di edera lucente e recanti otri stillanti vino; e i carbonai sedevano intorno ai loro grossi bracieri la notte, guardando i ciocchi asciutti carbonizzarsi lentamente nel fuoco, e arrostendo castagne nelle ceneri, e i ladroni uscivano dalle caverne e facevano festa con loro. Una volta aveva visto persino una bella processione dipanarsi per la lunga strada polverosa di Toledo. I monaci andavano avanti cantando dolcemente, e recando stendardi coloriti e croci d'oro, e poi, in corazze argentee, con archibugi e picche, venivano i soldati, e in mezzo a loro avanzavano tre uomini scalzi, in strani abiti gialli su cui erano dipinte figure meravigliose, e con delle candele accese in mano. Certo, c'era moltissimo da guardare nella foresta, e quando lei fosse stata stanca le avrebbe trovato una soffice sponda di muschio, o l'avrebbe portata in braccio, perché era molto forte, anche se sapeva di non essere alto. Le avrebbe fatto una collana di bacche di rossa brionia, che sarebbero state altrettanto graziose delle bacche bianche che lei portava sull'abito, e quando se ne fosse stancata, avrebbe potuto gettarle via, e lui gliene avrebbe trovate altre. Le avrebbe portato cupole di ghiande e anemoni inzuppati di rugiada, e piccole lucciole che fossero stelle nel pallido oro della sua chioma.



King J. M


Ma lei dov'era? Lo chiese alla rosa bianca, e questa non gli rispose. L'intero palazzo sembrava dormire, e anche là dove le imposte non erano state chiuse, pesanti tende erano state tirate sulle finestre per non far entrare il riverbero. Girò dappertutto alla ricerca di un punto da cui guadagnare un ingresso, e da ultimo l'occhio gli cadde su di una porticina privata che era rimasta aperta. Vi scivolò dentro, e si trovò un una splendida sala, assai più splendida, temette, della foresta, con tante più dorature dappertutto, e perfino con il pavimento fatto di grandi pietre colorate, disposte in una sorta di disegno geometrico. Ma la piccola Infanta non era lì, c'erano solo alcune meravigliose statue bianche che lo guardavano dall'alto dei loro piedistalli di diaspro, con occhi tristi e inespressivi e bocche atteggiate in strani sorrisi.
In fondo alla sala pendeva una tenda di velluto nero riccamente trapunta, sparsa di soli e di stelle, il motivo preferito dal Re, e con ricami sul colore che egli amava di più. Che si nascondesse lì dietro? Avrebbe tentato, in ogni modo.
Così attraversò furtivamente la sala, e scostò la tenda.
No; c'era soltanto un'altra stanza, anche se gli parve una stanza ancora più leggiadra di quella che aveva appena lasciato. Sulle pareti era appeso un arazzo verde dalle molte figure, a punto d'ago e rappresentante una caccia, opera di certi artisti fiamminghi che avevano impiegato più di sette anni nella sua composizione. Era stata una volta la camera di Jean le Fou, come lo chiamavano, quel Re folle talmente innamorato della caccia, che aveva tentato spesso nel suo delirio di montare i grandi cavalli impennati, e di abbattere il cervo sul quale grandi segugi erano in atto di balzare, dando fiato al suo corno da caccia, e pugnalando con la daga i pallidi cervi in fuga. Ora fungeva da camera del consiglio, e sul tavolo al centro erano posate le rosse cartelle dei ministri, su cui erano impressi i tulipani d'oro di Spagna, e le armi e gli emblemi della Casa d'Asburgo. Il piccolo Nano si guardò meravigliato tutt'intorno, ed ebbe quasi paura di proseguire. Gli strani cavalieri muti che galoppavano così veloci attraverso le lunghe radure senza fare il minimo rumore gli sembravano simili a quei terribili fantasmi di cui aveva sentito parlare i carbonai: i Comprachos, che cacciano solo di notte, e se incontrano un uomo, lo trasformano in cerva e lo inseguono. Ma pensò alla leggiadra Infanta, e riprese coraggio. Voleva trovarla da sola, e dirle che anche lui la amava. Forse lei si trovava nella stanza attigua.

 Brivtin V.

Attraversò di corsa i soffici tappeti moreschi, e aprì la porta. No! Non era neanche lì. La stanza era del tutto vuota.
Era una stanza del trono, usata per ricevere gli ambasciatori stranieri, quando il Re, cosa che ultimamente non era accaduta spesso, acconsentiva a conceder loro una udienza privata; la stessa stanza in cui, molti anni prima, messi erano apparsi dall'Inghilterra per organizzare il matrimonio della loro Regina, allora una dei sovrani cattolici dell'Europa, col figlio primogenito dell'Imperatore. Le tappezzerie erano di cuoio dorato di Cordova, e dal soffitto bianco e nero pendeva un pesante candeliere dorato con bracci per trecento lumi di cera. Sotto un gran baldacchino di stoffa d'oro, sulla quale erano ricamati in perline i leoni e le torri di Castiglia, si ergeva il trono stesso, coperto da un ricco palio di velluto nero tempestato di tulipani d'argento ed elaboratamente frangiato di argento e perle. Sul secondo gradino del trono era posato il piccolo inginocchiatoio dell'Infanta, con il suo cuscino di stoffa di trama d'argento, e sotto quello, ed esternamente alla copertura del baldacchino, era il seggio del Nunzio Papale, che solo aveva il diritto di sedersi alla presenza del Re in occasione di qualsiasi cerimonia pubblica, e il cui cappello cardinalizio, con le sue intricate nappe scarlatte, era posato su di un tabouret purpureo lì davanti. Alla parete di fronte al trono era appeso un ritratto a grandezza naturale di Carlo V in tenuta da caccia, con un grande mastino al fianco, e un quadro con Filippo II in atto di ricevere l'omaggio dei Paesi Bassi occupava il centro dell'altra parete. Tra le finestre era un armadietto di nero ebano, intarsiato di piastre d'avorio, sul quale erano state incise le figure della Danza della Morte di Holbein: per mano, dicevano alcuni, di quello stesso maestro famoso.
Ma al piccolo Nano non importava nulla di tutta questa magnificenza. Non avrebbe dato via la sua rosa per tutte le perle del baldacchino, né un solo bianco petalo della sua rosa per lo stesso trono.
Quel che voleva era vedere l'Infanta prima che scendesse al padiglione, e chiederle di venire via con lui appena terminata la sua danza. Qui nel palazzo, l'aria era stantia e pesante, ma nella foresta il vento soffiava libero, e la luce del sole con leggiadre mani d'oro scostava le tremule foglie. C'erano anche fiori nella foresta, non così splendidi, forse, come i fiori del giardino, ma in compenso dall'odore più dolce; giacinti allo spuntar della primavera che invadevano di porpora ondeggiante le fresche vallette e i poggi erbosi; gialle primule che si annidavano a piccoli gruppi intorno alle radici contorte delle querce; colorite celidonie, e azzurre veroniche, e iris lillà e oro. C'erano grigi amenti sui noccioli, e le digitali erano curve sotto il peso delle loro maculate cellule visitate dalle api. Il noce aveva le sue spire di bianche stelle, e il biancospino le sue pallide lune di bellezza. Sì; certo ella sarebbe venuta, se solo avesse potuto trovarla! Lei sarebbe venuta con lui nella bella foresta, e tutto il giorno egli avrebbe danzato per il suo piacere. Un sorriso gli accese gli occhi al pensiero, e passò nella stanza adiacente. Di tutte le stanze questa era la più allegra e la più bella. Le pareti erano coperte di un fiorito damasco rosa di Lucca, a motivi di uccelli e punteggiato di delicati germogli d'argento; i mobili erano d'argento massiccio, con festoni di elaborate ghirlande, e dondolanti amorini; davanti ai due ampi camini erano grandi schermi ricamati di pappagalli e pavoni, e il pavimento, che era di onice verdemare, sembrava estendersi in lontananza. Né egli era solo. In piedi sotto l'ombra della soglia, all'estremità opposta della stanza, vide una figurina che lo guardava.Il cuore gli tremò, un grido di gioia gli proruppe dalle labbra; uscì fuori nella luce del sole. Contemporaneamente, la figurina venne avanti anche lei, e lui la vide con chiarezza.
L'Infanta! Era un mostro, il mostro più grottesco che avesse mai contemplato. Non di forme proporzionate come le altre persone, ma gobbo, e storto di membra, con una gran testona pendula e una criniera di capelli neri. Il piccolo Nano si accigliò, e si accigliò anche il mostro. Rise, e quello rise con lui, e si mise le mani sui fianchi, proprio come anche lui stava facendo. Eseguì un inchino di derisione, e quello gli restituì una profonda riverenza. Gli andò incontro, e quello venne incontro a lui, imitando ogni suo passo, e fermandosi quando lui si fermava. Gridò divertito, e corse avanti, e tese la mano, e la mano del mostro rapidamente seguì la sua. Cercò di premere, ma qualcosa di liscio e duro lo fermò. Il volto del mostro era ora vicino al suo, e sembrava pieno di terrore. Si tolse i capelli dagli occhi. Quello lo imitò. Lo colpì, e quello gli restituì colpo su colpo. Lo detestò, e quello gli fece delle smorfie orribili. Si ritirò, e quello si ritrasse.
Che cosa era? Pensò per un momento, e guardò intorno a sé il resto della stanza. Era strano, ma ogni cosa sembrava avere il suo doppio in questo invisibile muro di acqua limpida. Sì, ogni quadro si ripeteva lì dentro, come ogni sofà. Il Fauno dormiente che giaceva nell'alcova accanto alla soglia aveva un fratello gemello che sonnecchiava, e la Venere argentea che si ergeva al sole tendeva le braccia  a una Venere non meno bella di lei.
Era l'Eco? L'aveva invocata una volta nella valle, e lei gli aveva risposto, parola per parola. Sapeva prendersi gioco dell'occhio, come si prendeva gioco della voce? Sapeva creare un mondo mimico identico al mondo reale? Potevano le ombre delle cose avere colore e vita e movimento? Poteva essere questo...?
Trasalì, e togliendosi dal petto la bella rosa bianca, si voltò e la baciò. Il mostro aveva una sua rosa, la stessa, petalo per petalo! La baciava con analoghi baci, e se la stringeva al petto con gesti orrendi.
Quando la verità si fece strada in lui, emise un folle grido di disperazione, e cadde a terra singhiozzando. Così lui era sfigurato e gobbo, orribile a vedersi e grottesco. Lui stesso era il mostro, ed era di lui che tutti i bambini avevano riso, e la piccola Principessa che aveva creduto innamorata di lui: anche lei si era soltanto presa gioco della sua bruttezza, e aveva riso delle sue membra contorte. Perché non lo avevano lasciato nella foresta, dove non c'era specchio a dirgli quanto era orrendo? Perché suo padre non lo aveva ucciso, piuttosto che venderlo alla sua vergogna? Le lacrime roventi gli scorsero lungo le guance, e fece a pezzi la rosa bianca. Il mostro disteso fece lo stesso, e sparpagliò i petali delicati in aria. Si contorse in terra, e quando lo guardò, quello lo guardava a sua volta con un volto teso per il dolore. Si allontanò strisciando per non vederlo, e si coprì gli occhi con le mani. Si trascinò, come una cosa ferita, nell'ombra, e vi giacque gemendo.
E in quel momento l'Infanta in persona entrò con i suoi compagni dalla portafinestra aperta, e alla vista del brutto Nanerottolo lungo disteso in terra in atto di percuotere il pavimento con le mani serrate, nel modo più esagerato e fantastico, tutti quanti esplosero in grida di liete risate, e si fermarono intorno a lui e lo guardarono.
" Quando danzava era buffo" disse l'Infanta; "ma quando recita è più buffo ancora. Veramente è bravo quasi quanto i fantocci, solo che è meno naturale, ovviamente." E agitò il suo grande ventaglio e applaudì.
Ma il piccolo Nano non alzò mai gli occhi, e i suoi singhiozzi si fecero sempre più sommessi, e d'un tratto emise un curioso gemito, e si compresse il fianco. E poi ricadde, e rimase competamente immobile.
" Fantastico" disse l'Infanta, dopo una pausa; "ma ora devi danzare per me."
" Sì" gridarono tutti i bambini, "devi alzarti e danzare, perchè sei bravo come le scimmie di Berberia, e molto più ridicolo."
Ma il piccolo Nano non rispose.
E l'Infanta battè il piede a terra, e chiamò suo zio, che passeggiava in terrazza  con il Ciambellano, leggendo certi dispacci appena arrivati dal Messico, dove il Santo Uffizio era stato insediato da poco. " Il mio buffo Nanetto fa il broncio" gridò, "dovete svegliarlo e dirgli di danzare per me."
I due scambiarono un sorriso ed entrarono con noncuranza, e Don Pedro si chinò, e schiaffeggiò il Nano sulla guancia con il suo guanto ricamato. " Devi danzare" disse, " petit mostre. Devi danzare. L'Infanta di Spagna e delle Indie vuole essere divertita."


Gordeev D.

Ma il piccolo Nano non si mosse.
" Bisognerebbe mandare a chiamare un maestro di frusta" disse Don Pedro in tono stanco, e se ne tornò in terrazza. Ma il Ciambellano assunse un'aria grave, e s'inginocchiò accanto al piccolo Nano, e gli posò la mano sul cuore. E dopo qualche momento scrollò le spalle, e si alzò, e avendo eseguito un profondo inchino all'Infanta, disse:
" Mi bella Princesa, il tuo brutto Nanerottolo non danzerà più. Peccato, perchè è talmente brutto che avrebbe potuto far sorridere il Re."
" Ma perché non danzerà più?" chiese l'Infanta, ridendo.
" Perché gli si è spezzato il cuore" rispose il Ciambellano.
E l'Infanta si accigliò, e le sue delicate labbra a petalo di rosa si curvarono in un cruccio adorabile. "In futuro fate sì che quelli che vengono a giocare con me non abbiano cuore" esclamò, e corse fuori in giardino.

O. Wilde
traduzione di Masolino d'Amico
A. Mondadori-collana"I Meridiani"

mercoledì 19 giugno 2013

La Partenza della Fata del Colombéra


A Pérloz, ormai, la fata del Colombéra li aveva tutti ostili: sicché decise di abbandonare il rifugio del monte, per cercare un paese dove vivere in pace con il suo orchetto.
Addensò in cielo le nubi, e scatenò un temporale. Quando le acque del torrente di Réchanté furono gonfie, vi si sedette sopra con il figlio, lasciandosi trasportare dai flutti, giù giù fino al Lys, e poi verso la Dora. A Pont-Saint-Martin i contadini, assiepati sulle rive, attendevano , con il terrore negli occhi, l'onda devastatrice della piena. Bella ed altera, la fata del Colombéra li guardava, come dall'alto di un trono; guardava il ponte ormai prossimo, a valle.
 "Lo abbatterà, sarà la sua vendetta ", dicevano i paesani.
Ad un tratto una voce si levò dal fragore del torrente:
"Piega il capo, bellezza ! Lasciaci il nostro ponte". La fata sorrise alla lode. L'ira le cadde dal cuore: e concesse la grazia. Reclinò la testa, e passò sotto l'arcata, lasciando intatto il ponte. Giunta alla Dora, incominciò a cantare. Il canto si perse lontano, nel mormorio dei flutti che ormai scorrevano placidi nel piano.


Rossetti D.G.


di J.J. Christillin, "Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys", Aoste.

La Fata del Colombéra e il Changeling in Italia

a Fata viveva sola con suo figlio, nella grotta sul Monte Colombéra. L'orchetto era gobbo e sbilenco, e il suo volto era pieno di rughe, come una mela vizza a primavera.
La madre, stanca di vederselo davanti così brutto, mise gli occhi su un bimbo del paese, biondo e grassoccio che era uno splendore... Lo rapì, per tenerlo con sé e abbandonò sotto un castagno, su un mucchio di foglie, il nanetto sgraziato.
Lo trovarono, di lì a qualche po', due ragazza che passavano nel bosco; videro che si reggeva a stento sulle gambe malferme e, prese da pietà, lo portarono a casa, gli diedero da mangiare e cercarono di sapere chi fosse.
Ma l'orchetto non rispondeva a nessuna domanda, non c'era verso di fargli aprir bocca.
" Parlerà, parlerà - disse l'anziana comare - Cercate in tutte le case quanti gusci d'uovo vi sia dato trovare; allineateli tutt'intorno alla pietra del focolare, e sedete il gobbetto su uno sgabello, davanti al camino acceso".
Fecero come la vecchia aveva detto. Ed ecco che l'orchetto, scuotendosi dal suo torpore, gridò nel dialetto di Perloz:

" Nella mia vita vidi i campi arati
tre volte già sostituire i pineti;
già tre volte rinacquero gli abeti
sopra le verdi distese dei prati:
ma non conosco questo strano gioco
di metter tanti gusci intorno a un fuoco".

L'intero paese assisteva alla scena, ed a quelle parole trasecolarono tutti.



Lynch P J


"Possibile che sia vecchio come dice? Che abbia visto davvero tante cose?", si domandavano l'un l'altro, sbalorditi.
"Le ha viste, le ha viste! - disse la vecchia comare - Non può essere che il figlio della Fata."
"Com'è che l'ha perso nel bosco?"
"Non l'ha perso, ora è chiaro come stanno le cose: l'ha lasciato di proposito, scambiandolo col bambino che ha rubato."
Quel bambino, i genitori l'avevano cercato a lungo, disperati, aiutati dalla gente del paese; ma non s'era trovata alcuna traccia e, per finire, s'era pensato fosse caduto in un burrone.
"Ma allora, se nostro figlio ora sta con la Fata, come potremo portarglielo via?" domandò la madre.
"Il modo c'è, ascoltatemi bene - decretò la comare - Prendete l'orchetto, e salite con lui alle grotte. Quando sarete arrivati vicino, bastonate il gobbetto di santa ragione, perchè strilli forte e lo senta la Fata. Uno di voi tenga d'occhio l'entrata delle caverne, per vedere da quale esce fuori, e, appena lei correrà a difendere il figlio, entri dentro a riprendersi il bambino."
"Ma uscirà?"
"Uscirà, uscirà - assicurò la vecchia - Ama suo figlio persino lo stregone."
Accadde proprio come aveva detto. Sotto i colpi, l'orchetto incominciò a piangere e a gridare, e la madre si precipitò in suo aiuto, non sapendo resistere al richiamo.
Così il bimbo rapito tornò a casa.

J.J. Christillin, "Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys", Aoste, 1970

Vedi gli appunti e le note ne "La Distillazione dei Gusci d'Uovo", raccolta da Yeats.

Pelle di Porco, una Pelle d'Asino Russa

n gran principe aveva una moglie bellissima, e l'amava alla follia. La principessa morì, gli rimase un'unica figlia, che era il ritratto della madre. Disse il gran principe:
" Figlia mia cara, io ti sposerò".
Lei andò al cimitero, sulla tomba della madre, e si mise a piangere penosamente. E la madre le disse:
" Fatti comprare un vestito tutto trapunto di stelle".
Il padre le comprò un vestito così e s'innamorò ancor più di lei.
La figlia tornò dalla madre. La madre le disse:
" Fatti comprare un vestito con la luna chiara sul dorso e un bel sole sul petto".
Il padre glielo comprò e s'innamorò ancora di più.
La figlia andò di nuovo al cimitero e si mise a piangere penosamente:
" Mamma! Papà è sempre più innamorato di me".
" Allora, bambina - disse la madre - fatti confezionare un sacco di pelle di porco."
Anche stavolta il padre la accontentò; appena il sacco di pelle di porco fu pronto, la figlia lo indossò. Il padre le sputò addosso e la cacciò di casa, senza darle né domestiche, né pane per il viaggio. Lei si fece il segno della croce sugi occhi e uscì dal portone.
" Me ne andrò - disse - libera per il mondo!"
Cammina un giorno, cammina due, cammina tre - e giunse in un paese straniero.
A un tratto il cielo si coprì di nubi, scoppiò un temporale. Dove ripararsi dalla pioggia? La principessina vide un'enorme quercia: vi si arrampicò e si sedette fra i suoi fitti rami. In quel momento passò di lì lo zarevic, che stava andando a caccia; quando furono nei pressi della quercia, i suoi cani le si slanciarono contro, abbaiando furiosamente.
Lo zarevic s'incuriosì: come mai i cani abbaiavano così alla quercia?
Mandò il suo servo a vedere; il servo tornò e disse:
" Ah, vostra altezza! Sulla quercia c'è una bestia... no, non una bestia, ma un mostro mostruoso, un portento portentoso!".
Lo zarevic si avvicinò alla quercia e domandò:
" Che strana creatura sei? Parli oppure no?".
La principessina rispose:
" Io sono Pelle di Porco!"
Lo zarevic non andò più a caccia, ma fece salire Pelle di Porco sulla sua carrozza e disse:
" Porterò da mio padre e da mia madre questo mostro mostruoso, questo portento portentoso!"
Il padre e la madre si meravigliarono e la fecero condurre in una stanza a parte.
Poco tempo dopo, lo zar diede un ballo; tutti i cortigiani vennero a divertirsi. Pelle di Porco domandò alla domestica dello zar:
" Posso stare sulla porta a guardare il ballo?"
" Che dici, Pelle di Porco!"
Lei uscì in aperta campagna, indossò un abito splendido, tutto trapunto di stelle! Fischiò e gridò e le portarono una carrozza; salì e andò al ballo.
Arrivò e si mise a ballare. Tutti si meravigliarono: da dove veniva quella fanciulla così bella?
Danzò, danzò e sparì; si rimise addosso il sacco di pelle di porco e corse in camera sua. Lo zarevic andò da lei e le domandò:
" Non eri tu, Pelle di Porco, quella fanciulla così bella?"
Lei rispose:
"Cosa posso valere, con il mio sacco? Sono solo rimasta sulla porta".
Lo zar diede un altro ballo. Pelle di Porco chiese il permesso di andare a vedere.
" Che dici!"
Uscì in aperta campagna, fischiò e gridò, non con il fischio dell'usignolo, ma con la sua voce di fanciulla - apparve una carrozza; si tolse il suo sacco di pelle di porco, indossò un vestito con una luna chiara sul dorso e un bel sole sul petto! Giunse al ballo e si mise a ballare. Tutti la fissavano con tanto d'occhi. Danzò e di nuovo sparì.
" E ora cosa possiamo fare? - disse lo zarevic - Come scoprire chi è quella bella fanciulla?"
Gli venne un'idea: cosparse di pece il primo gradino, perché la sua scarpa rimanesse incollata. Al terzo ballo la principessa apparve ancora più bella, ma quando fece per uscire dal palazzo, la sua scarpetta restò appiccicata alla pece. Lo zarevic la prese e andò a cercare per tutto il regno la proprietaria di quella scarpetta. Percorse il paese in lungo e in largo: nessuna riusciva a infilarci il piede. Tornò a casa, andò da Pelle di Porco e disse:
" Fammi vedere i piedi!"
Lei glieli mostrò; lui le provò la scarpetta: era proprio della sua misura. Lo zarevic tagliò il sacco di pelle di porco e glielo tolse di dosso; poi prese la principessina per la bianca mano, la condusse dal padre e dalla madre e chiese il loro consenso alle nozze. Lo zar e la zarina li benedissero. E così si sposarono; lo zarevic cominciò a chiedere a sua moglie:
" Perché portavi quel sacco di pelle di porco?"
" Perché somigliavo alla mia mamma morta - disse - e mio padre voleva sposarmi."


Mayer M.



Afanas'ev n.290 E. Bazzarelli, E.Guercetti, E.Klein per la BUR.
Nella nota al testo, si sottolinea la presenza di tre tipi:

La Bella e la Bestia, ma a parti invertite;
L'Incesto, ovvero il motivo: Il Re che Voleva Sposare sua Figlia ;
Cenerentola.

Non concordo affatto sul primo tipo fiabesco. Non c'entra nulla.
Il secondo, mi pare ovvio.
Che "Pelle d'Asino", nella sua seconda parte, sia quasi identica al tipo Cenerentola è acclarato e comprovato dalle versioni e varianti in Italia e nel mondo.
Un dettaglio la distanzia sideralmente dalla Cenerentola classica. Questa variante riportata da Afanas'ev, pur stringata e modesta, offre una sventagliata di suggerimenti, per chi ascolta con gli occhi.
Qui, come nelle versioni arabe, ad esempio, o indiane, la fuga è inutile. La principessa provoca il disgusto paterno e la conseguente "cacciata" indossando le pelli di animali impuri, il porco o il topo.
Come nelle più antiche Cenerentole, non v'è traccia della buona Fata Madrina. L'Aiutante Magico, nella prima parte, è la madre defunta, la stessa madre che, con le sue richieste d'amore postumo al marito, ha apparentemente provocato la disgrazia della figlia. Sembra un controsenso assoluto. Ripensiamo a Cenerentola. La madre defunta la aiuta, nonostante Cenerentola, lusingata dalla futura matrigna, l'abbia uccisa. Quindi, o, il passaggio dell'uccisione o, comunque, della morte, e l'istigazione indiretta all'incesto sono un percorso obbligatorio e necessario, o è l'Antenata, in senso lato, che aiuta l'Eroina. Ipotesi che possono coesistere.
Il soggiorno nella foresta, più precisamente nel cavo di un albero. Questa è la differenza con Cenerentola.  Propp ricorda che un albero cavo è la sepoltura più antica di cui si abbia traccia, insieme con l'imbozzolamento del cadavere in pelli di animali.Motivo che ritornerà in altre fiabe, ad esempio in quella dei Cigni.
In questa versione, nella seconda parte, dopo la permanenza nella foresta, la principessa è l'Aiutante Magico di se stessa. E' la Padrona, che esce sul ballatoio, sulla roccia, nell'aja dell'izba (come la Baba) e chiama a sé con un fischio misterioso, non d'usignolo ma di fanciulla, gli animali suoi servitori.
Il sole, la luna e le stelle che sfolgorano sugli abiti sono una costante.
E ricorre spesso lo squarciamento dell'involucro di pelle, della guaina, del bozzolo, da parte dello zarevic. Non fatevi idee strane. Questa è una ri-nascita dopo la Morte Temporanea. La principessa, con i capelli lunghissimi che la ricoprono come un manto, segno indiscusso di regalità, emerge dalla sua placenta artificiale, adulta e pronta ad essere incoronata. Il matrimonio è solo una conseguenza. O lo era.

Mab's Copyright


lunedì 17 giugno 2013

Testa-di-Rospo. Una Principessa Stregata di Luigi Capuana

’era una volta un Re e una Regina. La Regina partorì e fece una bambina più bella del sole. Insuperbita di questa figliolina così bella, spesso diceva:
" Neppur le Fate potrebbero farne un’altra come questa".
Ma una mattina, va per levarla di culla e la trova contraffatta, con una testa di rospo.
Oh Dio, che orrore! Benché fosse figlia unica e le volesse un gran bene, quella testa di rospo le facea schifo, e non volle più allattarla. Il Re, angustiato, disse a un servitore:
" Prendila e portala giù; mettila fra i cagnolini figliati dalla cagna. Però se morisse, sarebbe meglio per lei!"
Non morì.
La cagna, tre, quattro volte il giorno tralasciava di dar latte ai cagnolini, e porgeva le poppe a Testa-di-rospo. La leccava, la ripuliva, la scalducciava tenendosela accosto, e non permetteva che alcuno stendesse la mano a toccarla.
Quando il Re e la Regina scendevano giù per vedere, la cagna ringhiava, mostrava i denti; e un giorno che la Regina fece atto di voler riprendere la figliuola, le saltò addosso e le morse mani e gambe. Testa-di-rospo nel canile prosperava. Quando crebbe, non volle più lasciarlo. Durante la giornata abitava su nelle stanze reali; pranzava a tavola col Re, colla Regina, con tutta la corte, e prima di toccar le pietanze, metteva da parte i meglio bocconi; poi ne riempiva il grembiule e scendeva giù, nel canile.
" Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi! "
La notte dormiva lì, con mamma cagna. Non c’era mai stato verso di indurla a dormire nel suo letto.
La Regina, sentendole ripetere ogni giorno: - " Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!" cominciò a odiarla terribilmente, come se non fosse stata sua figliuola.
E una volta disse al Re:
" Maestà, no, costei non è la nostra figliuola. Ce la scambiarono quand’era in culla. Che ne facciamo di questo mostro? Io direi di farla ammazzare".
Il Re non ebbe animo di commettere questa crudeltà:
" Mostro o non mostro, è una creatura di Dio".
Talché la Regina giurò di disfarsene in segreto.
E che pensò? Pensò di dar ad intendere al Re che era nuovamente gravida e, quando fu l’ora, gli fece presentare una bambina nata di fresco, che lei aveva fatto comprare a peso d’oro in un altro paese.
Il Re fu molto contento; e alla bambina mise nome Gigliolina; perché era bianca come un giglio.
Allora la Regina gli disse:
" Ora che abbiamo quest’altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io direi di farla ammazzare". Per amore di quest’altra figliuola, il Re, benché a malincuore acconsentì.
Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti.
E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori.
" Perché non vieni fuori?"
" Perché mi farete ammazzare".
" E chi ti ha detto questo? "
" Me l’ha detto mamma cagna".
La Regina, maliziosa, voleva indurla colle buone:
" Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata".
" Sorellina non me n’è nata, A peso d’oro fu comprata. Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma".
" Che significa? - domandò il Re.
" O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia".
Ma il Re disse:
" Chi tocca Testa-di-rospo l’ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima".
La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una Strega:
" Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev’essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette".
" Fra un anno li avrete".
In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo.
La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare:
" Quello lì lo voglio io!"
E Testa-di-rospo glielo dava.
Passato l’anno, la Regina tornò alla Strega.
" Maestà, i vestiti sono pronti; ma badate di non scambiarli. Per non sbagliare in questo incantato ci ho messo un diamante di più".
" Ho capito".
Chiamò le due figliuole e disse:
" Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di-rospo". Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n’era uno di più, comincia a strillare:
" Quello lì lo voglio io!"
La Regina non permise che lo toccasse.
Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi:
" Quello lì lo voglio io! Quello lì lo voglio io!"
Accorse il Re e disse:
"Non ti persuadi che quello è un po’ più grande? Provalo, e vedrai".
E stava per infilarglielo.
" No, Maestà - disse Testa-di-rospo
Vestito bello, 
fatto da poco, 
Vestito nuovo 
fatto di fuoco, 
Mamma cagna, 
mamma cagna, 
Siete voi la vera mamma".
" Che significa? - domandò il Re.
" O che gli date retta. Testa-di-rospo parla da bestia".
Ma il Re disse:
- Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima".
La Regina, arrabbiata per quest’altro smacco, non sapeva più che inventare.
E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie.
La Regina disse al Re: " Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà".
Il Re, per contentarla, rispose:
" Sia pure".
Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov’esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse:
" È mai possibile che l’altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo? "
" Nel canile. L’altra abita nel canile".
Il Reuccio, stupito, scese giù insieme col Re e con la Regina, e trovò Testa-di-rospo nel canile:
"Reuccio, entrate voi solo; c’è posto soltanto per uno".
Il Reuccio entrò, e Testa-di-rospo chiuse lo sportello.
Mamma cagna si accovacciò lì dietro, ringhiando.
Aspetta un’ora, aspetta due, il Reuccio non compariva.
La Regina, sopra tutti, era impaziente pel ritardo:
" Chi sa che brutto scherzo Testa-di-rospo stava per farle!"
Il brutto scherzo fu che il Reuccio, uscito dal canile, disse al Re:
" Maestà, vi chieggo la mano di Testa-di-rospo".
La Regina non rinveniva dallo sbalordimento:
" Ma che cosa avete fatto tante ore lì dentro?"
" Ho visitato tutto il palazzo. Di fronte al palazzo di Testa-di-rospo, il palazzo reale sembrerebbe una stalla."
Il Re e la Regina si guardarono, meravigliati.
" Reuccio, dite davvero?"
" Dico davvero".
La Regina dovette inghiottire quest’altra pillola amara, e che pensò? Pensò di accertarsi coi suoi occhi di quello che il Reuccio aveva detto:
" Testa-di-rospo, vorrei vedere il tuo palazzo".
" Maestà, quel canile lo chiamate palazzo?"
" Testa-di-rospo, una notte vorrei dormire con te".
" Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona".
La Regina andò a trovare mamma cagna:
" Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo".
" Bau! Bau!"
" Che cosa dice?"
" Dice di sì".
" Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo".
" Bau! Bau! "
" Che cosa dice?"
" Dice di sì".
La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due.
" Ed è questo il tuo gran palazzo? "
" Questo: non ve lo dicevo?"
La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le avea dato ad intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il corpo un brulichio e un brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava a corsa le scale e scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento. Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano addosso e se la rodevano viva viva.
In un momento, Re, ministri, dame di corte, gente di palazzo, tutti si videro assaliti da quelle bestiole affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti urlavano:
" Accidempoli alla Regina che volle entrare nel canile!"
Il Re corse subito da Testa-di-rospo:
" Figliuola mia, dàcci aiuto!"
" Mamma cagna, dategli aiuto!"
Mamma cagna si mise a girellare per le stanze:
" Bau, bau! Bau, bau! "
E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei.
La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette:
" Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te".
" Maestà, in un giaciglio!"
" Per una volta, potrò provare".
Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo.
Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata. Avea davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del palazzo reale, in confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in fondo, sopra un letto lavorato d’oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche più della spuma.
E non aveva più quella schifosa testa di rospo; ma era così bella, che, al paragone, la Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera.
Accecata dal furore, la Regina pensò:
' Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani'.
Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il naso.
Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera. Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche.
Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui.
Si svegliano i ministri, le dame di corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere:
" Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!"
Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo.
" Figliuola mia, dàcci aiuto!"
" Mamma cagna, dategli aiuto!
Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere.
" Figliuola mia, dàcci aiuto!"
Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre:
" Bau, bau! No, no!"
Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo. Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare:
" Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!"
Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse:
" Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai?"
La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le Fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo.
" Ora son proprio pentita, e domando perdono alla Fata!"
Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa testa di rospo, e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era. La Reginotta splendeva come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno.
Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.

Da: "C'era una Volta... Fiabe", L. Capuana

La Piccola Ludi, o la Principessa con la Testa di Pecora, Svezia

'erano una volta un re e una regina; vivevano insieme da molti anni, ma nonostante lo desiderassero intensamente, non avevano figli, e ne erano addolorati.
Un giorno, il re partì per la guerra e, durante la sua assenza, la regina mise al mondo due gemelle. La piccola che per prima venne al mondo era normale dalla vita in giù, ma simile a una pecora nella parte superiore del corpo. Inoltre sapeva parlare dal momento della nascita.
L'altra invece era bellissima. La prima venne chiamata Ludi e alla seconda fu dato un nome che non ricordo.
Quando il re tornò dalla guerra, la piccola Ludi gli corse incontro. Gli spiegò che era la prima delle due gemelle, che la sorella era molto più bella e però non sapeva parlare e adesso dormiva nella sua culla. Chiese al re di amarla tanto come la sorellina e il re, nascondendo la sua ripugnanza e accarezzandola sulla testolina riccia, glielo promise.
Un giorno la bambinaia aprì la finestra della stanza delle principessine, perché fuori c'era un bellissimo sole, e appoggiò la seconda delle due, nel suo cesto, sul davanzale.
Di colpo, si abbattè sul castello una tromba d'aria e portò via la testa della piccola principessa, che venne sostituita con una testa di cane. Il re e la regina, non sopportando quella disgrazia, morirono di dolore e vergogna.
La piccola Ludi disse alla sorella:
" Ti porterò giù in riva al mare, saliremo su una barca e ce ne andremo in un altro paese!"
E una bella sera d'estate attraversarono il  mare giungendo in un regno lontano. Attraccarono in un'insenatura tra le rocce. Disse ancora Ludi alla sorellina:
" Tu rimarrai nella barca e io andrò al castello a chiedere se posso restare qui. Ti porterò da mangiare, ma devi promettermi di non muoverti e di non farti vedere da nessuno".
Così la piccola Ludi andò al castello e ottenne dal re di rimanere dove aveva attraccato. Di notte dormiva per terra, su un cuscino, nella stanza del re e della regina, ma ogni giorno correva in riva al mare a portare cibo e abiti alla sorella.
Passò un anno e di nuovo fu primavera. La notte del giovedi grasso la piccola Ludi non riusciva a dormire e correva in giro per la stanza.
" Cosa stai rincorrendo?- disse la regina - Se non stai ferma, ti caccio via."
Ludi si rannicchiò sul suo cuscino e rimase lì ferma e in silenzio, ma con gli occhi spalancati perché proprio non riusciva a prendere sonno. Dopo un po' vide la regina alzarsi senza far rumore, nel timore di svegliare il re, e infilarsi un astuccio sotto il braccio. Preso un attizzatoio la regina lo unse con il grasso contenuto in una scatoletta, poi aprì il vetro del lucernario, si mise a cavallo dell'attizzatoio e disse:
" Su, ma non giù!"
E si alzò in volo.
La piccola Ludi acchiappò svelta un attizzatoio, lo unse con lo stesso grasso della scatoletta, vi si mise a cavalcioni e disse anche lei:
" Su, ma non giù!"
E si lanciò dal tetto all'inseguimento della regina.
Volarono e volarono, l'una alle spalle dell'altra, e via via si unì a loro un gruppetto di vecchie megere a cavallo di scope. Si fermavano sui campanili delle chiese a grattare il metallo delle campane per strofinarlo sui loro destrieri e poi via nello spazio, più rapide di prima. Arrivarono a un'alta montagna, in cima alla quale sorgeva un edificio color rosso. Qui scesero di sella, legarono le scope agli anelli del muro, ma la piccola Ludi si tenne a distanza a guardare.
All'interno della casa c'era una grande tavola apparecchiata e le donne si misero a sedere e a mangiare.
Finita la cena sparecchiarono e la regina appoggiò il suo astuccio al centro della tavola e aprì il coperchio. Dentro c'era una testolina che la piccola Ludi non ebbe difficoltà a riconoscere perché era quella di sua sorella. Poi le donne si misero in cerchio a ballare intorno al tavolo e dopo aver ballato uscirono, salirono in groppa alle loro scope mentre la regina inforcava il suo attizzatoio, e gridarono tutte insieme:
" Giù, ma non su!"
Partirono seguite dalla piccola Ludi. Arrivate sopra la reggia, la regina rientrò nella sua stanza attraverso il lucernario e la piccola Ludi si infilò, non vista, dietro di lei. Ognuna tornò al suo posto, una nel letto accanto al re, l'altra sul cuscino per terra.
Un giorno che la piccola Ludi era rimasta sola, tirò fuori dall'astuccio la testa della sorellina e corse alla spiaggia. Diede un colpo alla testa di cane che la sorella aveva sul collo e la fece cadere. Al suo posto mise la bella testa che le apparteneva e ripose nell'astuccio quella di cane.
" Però devi stare attenta che nessuno ti veda!" raccomandò alla sorellina.
E ritornò di corsa al castello.
L'anno seguente, la notte del giovedi grasso, la piccola Ludi era sveglia e spiava la regina per vedere se avrebbe fatto lo stesso viaggio dell'altra volta. E infatti, nel cuore della notte, la regina si alzò e preparò tutto come l'anno prima; poi spiccò il volo dal lucernario. La piccola Ludi fece le stesse cose e seguì la regina nello spazio volando dal tetto. Giunte che furono alla montana la piccola Ludi si fermò un po' lontano, e intanto le megere danzavano nella casa rossa; si avvicinò mentre consumavano il pasto per vedere adesso cosa sarebbe successo. Mangiato e bevuto che ebbe, la regina appoggiò l'astuccio sul tavolo. E quale mai fu la sua sorpresa nello scorgere la testa di cane al posto della bella testa di bambina! Le vecchie s'infuriarono.  Si lanciarono sulla regina e le aprirono il petto, le tolsero il cuore, che mangiarono a brani, e al suo posto infilarono un cuore di paglia. Poi, come l'anno precedente, tornarono là da dove erano venute.
Da quel giorno, ogni volta che vedeva il re, la piccola Ludi era solita dire sottovoce ma in modo che il re potesse udirla:
" C'è una regina con il cuore di paglia".
Una volta, incuriosito, il re le chiese cosa intendesse dire e la piccola Ludi rispose che era la regina sua sposa ad avere un cuore di paglia. Poi, temendo il peggio, se la filò via.
Insospettito, il re volle rendersi conto di come stavano le cose e chiamò i medici che aprirono il petto alla regina e scoprirono che in effetti aveva un cuore fatto di paglia.
" Come mai hai un cuore di paglia, invece che un cuore come tutti? " chiese il re alla regina, mentre costei aveva ancora il petto dolorante dove era stato aperto e ricucito.
La regina fu costretta a confessare la verità e il re allibito interrogò la piccola Ludi: lei come lo aveva saputo? Ludi raccontò delle cavalcate del giovedi grasso in compagnia delle altre streghe e di come queste avessero ammirato la testa della bambina nell'astuccio della regina e come poi, deluse la seconda volta perché la testa di bambina era stata sostituita con una testa di cane, l'avessero punita con un cuore di paglia. Il re si infuriò, rendendosi conto soltanto adesso di chi fosse in realtà la sua sposa, e ordinò di innalzare un rogo in mezzo alla piazza e di bruciarla alla presenza di tutti.
Intanto, la piccola Ludi portò nel castello la sorella e la presentò al re, che se ne innamorò subito e volle sposarla. Ma Ludi si oppose.


Bauer J.


"Potrai sposare la mia sorellina - gli disse - se io mi sposerò con il principe tuo fratello in una comune cerimonia di nozze."
Il fratello del re non avrebbe voluto sposare la piccola Ludi con la testa di pecora, ma fu costretto a obbedire agli ordini del re.
Giunse il giorno del matrimonio e il re e la sua bella sposa furono i primi a dire di sì. Poi fu il turno della piccola Ludi e del fratello del re. Il prete aveva appena incominciato a pronunciare la formula benedetta che il pelo sparì dal volto della sposa e via via che il prete leggeva essa diventava man mano più bella, fino a superare in bellezza la sua stessa sorella.
Il re fu quasi sul punto di pentirsi di non aver scelto Ludi per moglie, ma era felice comunque della sua regina buona e gentile e ognuno fu contento della propria scelta. Vissero tutti e quattro d'amore e d'accordo, tanto che non potevano stare un solo minuto l'uno senza l'altro e pare anche che, quando fu il tempo, morirono tutti e quattro assieme per restare insieme anche nell'aldilà.


Dalla nota:" Variante di Den vackra och den fula tvillingsystern (La bella e la brutta sorella gemella); è molto vicina alla favola norvegese Lurvehatten (Cappello di pelo)... Nella forma attuale deriva anche da una tradizione orale del Norrland che racconta di trollesse che si riuniscono in una casa rossa, sulla sommità di una montagna."

Fiabe Popolari Svedesi
Scelta, traduzione e note di Annuska Palme Sanavio.

Ne esistono versioni simili in Francia e in Germania.
In fondo, il tema è simile a quello di "Enrichetto dal Ciuffo", anche se la sorte delle due gemelle prenderà una strada diversa. Non potevo, dopo aver ricordato le fughe notturne delle Principesse Danzanti e adombrato un commercio con Esseri sotterranei, non potevo non riportare questa fiaba, con la fuga notturna della regina (simile alle tante fughe più popolane della nostra tradizione - vedi "La Moglie Strega"), il sabba, la congrega delle streghe o trollesse e quel fantastico "cuore di paglia".
La principessa-pecora è una predestinata. Nasce così, e, come la collega de "Le Mie Tre Belle Corone" o quella de "Il Pappagallo", ha il dono della vista, sa cosa fare, sa cosa dire e sa quando deve parlare o tacere.

sabato 15 giugno 2013

Erzsébet Bathory, la "Contessa Dracula" Ungherese - Seconda Parte

E' poco credibile che il marito-soldato, il marito perennemente impegnato a combattere i Turchi, non sapesse nulla circa le tendenze di Erzsébet.
Si racconta che il conte Ferencz Nadasdy, nei suoi anni giovanili, durante il suo soggiorno a Vienna da mediocre studente, si conquistò la fama di buon spadaccino e di violento: pare che appartenesse ad una congregazione studentesca segreta nota per i suoi eccessi. Si dice anche che uno dei suoi bucolici piaceri fosse quello di spalmare di miele ragazze nude e di esporle all'assalto di sciami di api  (piacere che, almeno in un'occasione, condivise anche con la giovane sposa); né si tratteneva dal malmenare i suoi servi fino alla tortura. Si ha traccia della complicità esistente fra i due coniugi: per punire la pigrizia di una serva, colpa vera o presunta, ordinarono che le venissero inserite fra le dita dei piedi striscioline di carta imbevute d'olio, pezzetti di carta a cui fu poi dato fuoco. Mi sembra altamente improbabile, quindi, che il Conte non avesse riconosciuto nella giovane moglie la sua stessa indole crudele e violenta, né che potesse ignorare ciò che accadeva nella sua tenuta.





A meno che non sia valida la mia ipotesi: gran parte della classe a cui la coppia apparteneva per nascita era dedita alle stesse crudeltà, nell'indifferenza dei propri pari e la rabbiosa rassegnazione delle vittime. Poi, la Contessa si perse in una personale, incontrollabile ossessione, che una coincidenza di eventi e di interessi economici e politici rese unica, pericolosa e, quindi,  perseguibile.

Figlia di due cugini di primo grado, nata in una famiglia incestuosa e afflitta da numerosi casi di epilessia e schizofrenia, sembra che, già da bambina, ella soffrisse di improvvise crisi nervose, accompagnate da violenti mal di testa, seguite da lunghi momenti di “assenza”, crisi che non cessarono mai (pare che soltanto le sue furie sanguinarie le placassero). A sintomi e tare reali, credibile preannuncio di una futura patologia (o perversione, a seconda di come si voglia o vollero leggerla), nel momento del Giudizio, si preferì calcare la mano sulle scandalose “trasgressioni morali” della giovane Contessa, come la sua abitudine di indossare spesso abiti maschili, o la segreta, illegittima gravidanza precoce. Né, all'epoca, potevano essere prese in considerazione come causa scatenante della follia in una bambina di singolare intelligenza e sensibilità le efferatezze a cui aveva assistito, destino che condivideva con la maggior parte delle sue pari. Ai tempi della sua infanzia, il Principe di Transilvania, suo cugino, ordinò che venissero tagliati naso ad orecchie ad una cinquantina di contadini accusati di aver capeggiato una rivolta, e la bambina fu testimone del supplizio. Uno zingaro, accusato di aver venduto la propria figlia ai Turchi, fu cucito vivo nel ventre squarciato di un cavallo, e Erzsébet vide anche questo.

Il marito lontano in guerra, padrona assoluta della propria e di molte altre vite, Erzsébet si concentrò ossessivamente sulla propria bellezza, sugli studi alchemici (probabilmente, anche con l'intento di preservarla dall'insidia del Tempo), e, si dice, sulla Magia Nera. Come ogni brava assassina seriale di nobile nascita, ebbe le sue anime ner: servi, complici, istigatori. Uno era un essere deforme, Ficzko. Un'altra era Dorotea Szentes, soprannominata “Dolore”, una donna che le viveva accanto da tempo, sospettata di essere stata la sua iniziatrice alla Magia Nera, e sadica almeno quanto lei.
Il crescendo di pratiche cruente, comunque, pur nella sua costante ferocia, fu graduale. I primi tempi - l'odiata suocera ancòra vivente - la giovane Contessa si limitò a creare un laboratorio alchemico personale, in cui passava lunghe ore occupandosi prevalentemente di erboristeria. Parrebbe evidente che già cercasse le pozioni miracolose capaci di preservare nel tempo la sua grande bellezza. Furono ritrovati - e, in seguito, consultati e tenuti in gran conto dagli studiosi ufficiali -  studi accurati, meticolose catalogazioni, osservazioni e sperimentazioni condotte con grande perizia e indiscutibile talento, sulle proprietà di ciascun vegetale.
Parallelamente, la cura ossessiva del proprio aspetto si estendeva a tutta la sua persona, dalla toilette quotidiana all'abbigliamento. All'inizio, la sua violenza si sfogò in feroci punizioni inflitte alle cameriere personali e alla servitù per ogni lieve negligenza. Oltre al sistematico impiego della fustigazione, ad esempio, marchiava una serva con il medesimo ferro bollente con cui non aveva stirato alla perfezione un abito, e, frequentemente, ordinava che l'una o l'altra venisse denudata ed esposta, oltre che al freddo di una neve perenne, al ludibrio della soldataglia che bivaccava nei suoi cortili, cerimonia che si trasformò in un ineludibile rito in tutte le sue future atrocità. La sua violenza sadica si manifestò sempre e soltanto nei confronti di altre donne, unendo alla devastazione fisica l'umiliazione e l'annichilimento.
Tutte le sue cameriere recavano sul viso o sul corpo i segni della sua collera. 
Una volta, ordinò che la bocca di una delle ragazze, rèa di essersi lasciata sfuggire un lamento durante una punizione, venisse cucita con il fil di ferro. Poi, le sue punizioni si trasformarono in lunghe torture nelle segrete della tenuta, torture, che, da un certo momento in avanti, si conclusero immancabilmente con la morte della vittima: ragazze uccise perché non parlassero, o perché straziate da rituali sadici (mutilazioni dei genitali) portati alle estreme conseguenze.

Per anni, la Contessa si era dedicata con slancio ad una vorticosa vita mondana; forse, i suoi trionfi in società, la morte dell'odiatissima, dispotica, ignorante suocera e la nascita di quattro figli, compreso l'agognato erede, dopo dieci anni di frustrante infecondità, avevano rallentato la sua corsa sfrenata verso l'omicidio seriale. Non fu una madre ostile o indifferente, anzi, pare amasse sinceramente tutti i suoi figli, dimostrandosi sempre attenta ed affettuosa. Anche se, stranamente, nella ricostruzione processuale, i suoi primi assassinii vengono fatti risalire proprio all'anno di nascita della sua primogenita (legittima).  
Intanto, mentre i suoi studi si spostavano sempre più dall'erboristeria all'alchimia e alla magia nera, la sua tenuta divenne gradualmente il regno di maghi, alchimisti, streghe, astrologi, fattucchiere. Una donna superiore in tutto alle sue contemporanee, affascinante, intelligente e colta si lasciava totalmente irretire da imbroglioni e saltimbanchi. 

Il punto di non ritorno venne sbrigativamente fatto coincidere con una leggenda domestica. Si racconta che, un giorno, percosse violentemente con una spazzola una sua cameriera, rèa di averle pettinato la splendida chioma con eccessiva forza: alcune gocce di sangue caddero dal viso della poveretta sul suo braccio. Ebbene, proprio in quel punto, nei giorni e nelle settimane seguenti, la Contessa notò, o se ne convinse, che la sua pelle era diventata straordinariamente fresca, bianca ed elastica. Le tornarono in mente antiche leggende sulle miracolose proprietà taumaturgiche del sangue di una vergine, e, ovviamente, si consultò con la sua corte di maghi e streghe che confermarono le vecchie superstizioni. Da quel momento, la sua furia omicida e il suo sadismo trovarono una valvola di sfogo, un apparente scopo superiore, ovvero, la ricerca dell'eterna giovinezza. E non ebbe più freni.

Nel 1601, intanto, suo marito si era ammalato gravemente, e, tre anni più tardi, morì, nominandola tutrice dell'unico figlio maschio: adesso, Erzsébet è l'unica signora e padrona di uno sterminato dominio e di enormi ricchezze (è la maggiore creditrice della Casa Reale, continuamente rinsanguata dal denaro dei Bathory). Secondo l'uso, ha conservato il proprio cognome, in quanto la sua famiglia è più antica e potente (e ricca) di quella del marito. E' già un'indisturbata assassina da anni. Soltanto il Tempo con le sue devastanti conseguenze, e il proprio smisurato delirio di onnipotenza sfuggono inesorabilmente al suo controllo.

(continua)

Mab's Copyright

venerdì 14 giugno 2013

Il "Pifferaio Magico" degli Spiriti Maligni, in Val d'Aosta

Il Dente del Gigante

( J.-S.Favre, “La légende de la Dente du Géant”)




anti tanti anni fa la valle d'Aosta era infestata da spiriti malvagi di ogni specie, che causavano continui disastri. Tendevano agguati ai viandanti, schiacciandoli sotto enormi massi che rotolavano lungo i fianchi dei monti, o toglievano loro la terra sotto i piedi, per farli precipitare in un burrone; stracolmavano laghi e torrenti, dando poi stura d'improvviso alle acque, che travolgevano messi rigogliose, mutando fertili terre in forre desolate, erano capaci persino di scalzare una becca, per seppellire sotto il suo crollo un paese. La gente viveva in continuo terrore, perché ogni giorno quelli esseri maligni inventavano qualcosa di nuovo, per dare sfogo al loro istinto perverso. Un giorno qualcuno portò la notizia che in un paese lontano viveva un mago sapiente capace di imporsi con le sue arti magiche alle forze del male. Andarono dunque a chiamarlo, perché liberasse la valla dagli spiriti che continuavano ad imperversare, senza che alcuno potesse ostacolarli in qualche modo. E tanto lo supplicarono che infine, impietosito, accondiscese a seguirli.
Quando fu a Pont-Saint-Martin, dove ha inizio la valle, il mago si fermò e, tratto fuori il suo libro di magia, vi lesse incomprensibili parole. Gli spiriti cattivi dei dintorni subito gli si fecero attorno, docili al suo comando, mentre dalla valle del Lys, attratti dall'irresistibile richiamo, i geni dei monti scendevano a frotte, uscendo come un nugolo di corvi da boschi e da radure, sbucando dagli anfratti rocciosi e abbandonando le gore tenebrose dei torrenti.
Il mago impose a tutti di seguirlo, e riprese il cammino, di tanto in tanto pronunciando le sue formule fatate.
Le potenze maligne sbucarono a caterve dalla valle di Champorcher e da quella di Ayas, e a Montjovet si unì alla schiera, con spaventoso clangore, l'orda malvagia che affluiva dalla vallata del Marmore.
Quando giunse ad Aosta, il mago attese che dalla Coumba Frèida scendesse la nuvola nera che vi si andava formando; poi riprese il cammino verso l'alta valle, tra il tumultuoso volo degli spiriti, che, man mano gonfiandosi, aveva finito con l'oscurare il cielo.
Ubbidendo al richiamo, i geni del male scesero da Cogne, Valsavarenche e Rhémes; lo stuolo della Valgrisenche si congiunse alla schiera, che s'ingrossò ancora a La Salle e La Thuile.
A Courmayeur, dopo aver chiamato i dispettosi folletti dell'Allèe Blanche e della val Ferret, il mago convogliò la turba tumultuante verso la gigantesca prigione che l'attendeva, nel deserto di ghiacci del Monte Bianco. Ad uno ad uno gli spiriti vi entrarono, piegandosi ad un'invincibile forza: e dietro l'ultimo si richiuse, per sempre, la porta di roccia.
Da allora, l'ardita torre del Dente del Gigante regge all'urto dei geni cattivi, che disperatamente, invano, tentano di uscire, spezzando l'incantesimo del mago.

Da "Le più belle fiabe popolari italiane”, a cura di Cecilia Gatto Trocchi, Newton Compton.




Il bello di essere ammaliati dalle tradizioni popolari, dal folklore, dalla mitologia, dalle leggende e dalle fiabe è il continuo fluire di collegamenti, più o meno misteriosi, influssi, impulsi, istinti, immagini, che se, da una parte, ti conducono un po' per conto loro, dall'altra, offrono uno stimolo incessante a tentar di dipanare relazioni sotterranee, insospettabili intrecci, fino a leggere con occhi diversi non solo la storia, suscettibile da sempre a pencolare pericolosamente tra mito e leggenda, ma addirittura la cronaca recente.


Mab



Le "Signore" Spodestate

Vivane, Anguane, Salvane, le Beate Donnette, la Monachina dell'Acqua siciliana... ci avviciniamo. Eredi delle ninfe silvestri, eredi delle Ondine, a loro volta, antiche ancelle-figlie di divinità spodestate. Ultime testimonianze di “tempi più gloriosi”, prima della definitiva trasformazione in Fate. Le fate buone e le fate cattive. Non esistono nelle fiabe autentiche le Fate Buone. Questi esseri sospesi tra cielo, terra e le acque dei fiumi e dei laghi non rientrano in alcuna categoria morale umana. Seguono impulsi apparentemente incoerenti e capricciosi, incomprensibili passi di una incomprensibile natura. A volte, agiscono unicamente per il loro piacere. Fortunato il mortale che lo suscita. La Fata del Colombéra potrebbe essere il manifesto di questo snaturamento. Potrebbe essere la Dame sans Merci che incanta Zanut. O l'ondina che ruba il bel cacciatore alla giovane moglie. Capelli d'oro lunghissimi, ravviati con un pettine d'oro, come in un rito, sulle rive di un fiume, su di uno scoglio, sulla soglia di una grotta.Tessono su telai d'oro. L'oro, il simbolo del soprannaturale, dell'Altrove, della Morte come Regno lontano nel Rito di passaggio, “il Reame al di là del Mare”, “l'Ultimo dei Regni”, ecc. Unicorni, leoni, cinghiali, linci le scortano e abitano le loro dimore così come abitavano il Palazzo di Circe, figlia del Sole, o della ninfa Calipso... Le “Padrone degli Animali”, a volte streghe dagli occhi rossi nella izba che ruota sulle zampe di gallina, a volte incantatrici sensuali.


Collier J.

La Fata del Colombéra, distaccata, radiosa e aristocratica, assisa sull'onda di piena, con il suo piccolo Calibano, è ciò che resta di una divinità minore locale, un tempo invocata e temuta, blandita, adesso, con un complimento impulsivo e irriverente. E lei, con la stessa grazia remota e indifferente con cui avrebbe travolto un intero paese, china il capo e concede la sua benevolenza.
La regina Vittoria, dopo anni di volontaria segregazione, in seguito alla morte dell'amatissimo consorte, pressata dal Primo Ministro, si decise, rabbiosa e timorosa, ad affrontare la folla, i sudditi che pretendevano la sua attenzione. Ad un tratto, una voce maschile si levò su tutte “E' ancòra in gamba la vecchia ragazza!”, e lei immortalò quell'irriverente, affettuoso complimento e non si negò più al suo popolo.

 Mab's Copyright

Zanut e la Dama Senza Pietà, Friuli Venezia-Giulia

'era una volta un ragazzo sempre in cerca di avventure galanti. Si chiamava Zanut e viveva con la madre vedova in una bella casetta sulle colline. Un giorno, andando a caccia, vide una dama bellissima che si pettinava i capelli con un pettine d'oro, in riva ad un torrente. Bagnava il pettine nell'acqua e si lisciava i capelli che le arrivavano fino ai piedi. Cantava una canzone misteriosa:

"Godi l'amore, giovane 
Canta e balla in allegria 
Dopo l'avemaria 
Balleremo e canteremo noi" 

Zanut rimase affascinato. Non fece caso ai conigli selvatici che ballavano silenziosi in cerchio incontro alla "salvana".




Flint W.R.


Perché quello era un segno che la Dama era un essere magico, una fata, una "salvana" delle acque.
"Vieni! - disse la Dama al ragazzo con voce melodiosa - Vieni!"
Zanut seguì la Fata in un palazzo che sembrava d'aria, pieno di bestie strane, liocorni e lupi bianchi, cani neri e volpi argentate. Zanut si innamorò della Dama perdutamente. Ma quando andava al torrente per gli appuntamenti, la Dama chiedeva sempre regali, oppure diceva:
"Portami il piccolo angelo di pietra che sta sull'acquasantiera della chiesetta sul monte". Zanut obbediva.
La madre era molto preoccupata perché vedeva il figlio magro, agitato, stanco. Una volta zitta zitta lo seguì. E vide la Fata sul torrente, i conigli selvatici che danzavano, il pettine d'oro e capì che suo figlio era stregato, in balia delle forze del male. Ma che poteva fare? Piangendo, tornò a casa.
Zanut disse alla Dama: "Signora, ti voglio sposare". "Va bene - disse lei - ma devi portarmi il cuore di tua madre per i miei animali. Loro mangiano solo pietanze delicate."
Zanut rabbrividì e pianse. Non volle andare più al torrente. Ma dopo tre giorni, la notte, sentì la canzone della Dama che lo chiamava:

"Godi l'amore, giovane 
Canta e balla in allegria 
Dopo l'avemaria 
Balleremo e canteremo noi."

Il ragazzo non seppe resistere. Prese un coltello, andò dalla madre addormentata e le prese il cuore. Uscì di corsa nella notte verso il torrente. Correva, correva sui sassi e cadde per terra. Il cuore della madre sobbalzò e disse: "Figlio mio, ti sei fatto male?" Zanut capì qual era il vero bene e pianse.

Da: "Fiabe del Friuli Venezia-Giulia", di Cecilia Gatto Trocchi. (Fonte orale).

La Fata del Monte Colombéra

'era una volta a Réchanté una fata che viveva, con il suo orchetto gobbo, in una delle grotte del vallone.
La fata era splendente di bellezza, ed aveva i capelli d'oro fino.
Un contadino della vallata perdutamente se ne innamorò: non faceva che pensare a lei, e della moglie non gl'importava più.
La fata, lusingata, gl'insegnò il sentiero che portava al suo antro, e lì l'attendeva ogni sera, per trascorrere la notte con lui.
A lungo pianse la sposa abbandonata, nel grande letto vuoto; poi prese a vagare nel buio lungo il torrente di Réchanté, chiamando il marito infedele.
Il lamentoso grido giunse fino alla grotta, e la fata se ne infastidì. Sciolse il nastro d'oro con cui raccoglieva i capelli, e lo diede all'amante.
"Porta questa cintura in regalo a tua moglie, per consolarla d'averla lasciata: appena se la sarà legata alla vita, tutti i tristi pensieri svaniranno."
L'uomo, tornato a casa, diede alla sposa il nastro della fata. "Legalo alla vita", le raccomandò.
Ma lei, ben sapendo da chi lo aveva avuto, chiese consiglio a un'anziana comare.
"Prova prima a passarlo intorno a un tronco ", consigliò saggiamente la vecchia.
La donna legò il nastro d'oro intorno a un annoso castagno, e, sull'istante, l'albero si mise a tremar dalle radici, come scosso da un vento furioso; le foglie s'accartocciarono, staccandosi morte dai rami, ed ampie crepe nerastre spaccarono la scorza.
Soltanto allora il contadino capì quale fosse l'intento dell'amante.
"Buon Dio! - esclamò inorridito - Quella strega voleva farmi uccidere mia moglie!".
L'abbracciò forte, per farsi perdonare, e non l'abbandonò mai più.



Higham B.


di J.J. Christillin, "Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys", Aoste, 1970


"La Fata del Monte Colombéra" è, in unico post, anche QUI , nella sezione Dietro Questa Porta del Forum.


La Topolina, fiaba Svedese

'era una volta un re che aveva tre figli. I due più grandi, belli e cresciuti, erano forti e robusti per la loro giovane età e non si intimidivano di fronte a nessuno. Il piccolo invece era gentile e delicato. Docile di natura, non sapeva difendersi dalle prepotenze degli altri due.
Una volta capito che avrebbe sempre avuto la peggio, si rifugiò accanto al fuoco a rimestare la cenere. Per questo i fratelli lo avevano soprannominato Vulcanello.
Con il passare del tempo, i tre principi divennero tre baldi giovani. Un giorno il re li convocò e disse loro:
“ Avete raggiunto l'età in cui conviene prender moglie. Mettetevi dunque in viaggio e tentate la fortuna. Eccovi una mela d'oro a testa, che dovrete offrire alla vostra futura sposa”. E diede a ognuno di loro una bella mela dorata. I due fratelli maggiori pretesero dal re anche un corredo degno della loro missione e ottennero cavallo, sella e un seguito adeguato. Ma il piccolo rimase a piedi, tanto gli altri ritenevano che non sarebbe stato in grado di trovarsi una fidanzata. I due principi partirono a cavallo in direzioni opposte, ognuno in testa a un drappello di soldati e notabili, fieri del loro equipaggio, percorrendo larghe strade che li menarono ad altri regni. Qui giunti, chiesero la mano della figlia del re e la loro richiesta venne soddisfatta, così lasciarono ognuno la propria mela d'oro in pegno alla fidanzata.
Le cose andarono in modo assai diverso per Vulcanello. Camminò e camminò per strade secondarie, senza incontrare nessuno, né vedere nulla di rilevante, e più andava avanti più si sentiva avvilito. Di fidanzate non c'era neanche l'ombra.
Dopo giorni di cammino giunse a un bosco e qui la strada si trasformò in un sentiero tortuoso, che si snodava nel folto degli alberi. Il principe non sapeva che direzione prendere. Mentre vagava senza meta, non poteva fare a meno di pensare all'ingiustizia che lo voleva solo e sperduto nella foresta, mentre ben altro destino doveva arridere ai fratelli che erano partiti con tutti gli onori e sicuramente, a quel punto, erano vezzeggiati dalle fidanzate in qualche sontuoso castello. Mentre procedeva in preda a questi tristi pensieri, tirò fuori la mela dorata e cominciò a giocarci, facendola roteare con il piede. Ma questa non sempre aspettava di essere colpita e presto cominciò a muoversi per conto suo, come spinta da una forza magica. Rincorrendola, Vulcanello giunse alla fine del sentiero e qui la mela sparì in un fitto cespuglio.
Il principe s'infilò a quattro zampe sotto il cespuglio, alla ricerca del frutto prezioso, ma come spesso succede al mondo quel che si trova non è quel che si cerca e invece della mela trovò una porticina che conduceva sottoterra.
Quando aprì la porta, si trovò in una capanna di fango. Tutto era liscio e ordinato come come nella più lussuosa delle dimore. Le pareti erano ricoperte di preziose tappezzerie, il soffitto si reggeva su travi bianche e sui banchi erano stese bellissime stoffe tessute a mano. Un fuoco ardeva nel camino e la tavola era apparecchiata. Ma non c'era presenza umana.
Il principe non badò alla tavola imbandita e si diede da fare per trovare la sua mela d'oro che sembrava scomparsa.

Spirin G.

Il principe si fece cupo in volto: come poteva rientrare a casa senza né mela, né sposa? In quello stesso istante si accorse della presenza di una topolina così aggraziata, che non aveva mai visto l'uguale. Saltò sul tavolo, proprio dirimpetto al principe, e lo salutò:
“ Benvenuto, bell'amico! Perché sei così triste?”
E cantò:
"Vuoi mangiare, mangia! 
Vuoi bere, bevi! 
Vuoi sedere, siedi!"

“ No – rispose Vulcanello – non ho né fame né sete. Ho ben altre preoccupazioni, credimi.”
“ Quali preoccupazioni?” chiese la topolina.
“ Ho di che rattristarmi. Mio padre mi ha dato una mela d'oro e mi ha chiesto di andare in cerca di una fidanzata. Ho perso la mela e non ho trovato la fidanzata, così quando tornerò a casa mi toccherà essere umiliato da lui e dai miei fratelli.”
“ Tutto qui?- fece la topolina – C'è senz'altro un rimedio e se vuoi prendermi come fidanzata ti aiuterò io.”
Il principe rimase un attimo perplesso, ma alla fine decise di accettare quella bizzarra proposta. Non aveva altra scelta. La topolina filò via di corsa e ritornò un istante dopo con la mela in bocca. Vulcanello si rasserenò in volto e dimentico di ogni mestizia si mise a tavola e mangiò e bevve di gusto mentre la topolina si dava da fare a servirlo. Gli sembrava di non essere mai stato così felice in vita sua. Giunta la sera, gli venne preparata una coltre di seta imbottita di piume. Vi si distese e si addormentò beato, più felice di quanto non fosse mai stato alla corte di suo padre.
La mattina seguente Vulcanello doveva fare ritorno a casa. Si accomiatò dalla topolina, ringraziò per l'ospitalità e promise di restarle sempre fedele. Poi riprese il viottolo che lo portava alla grande strada, proprio quando i due fratelli maggiori stavano rientrando a cavallo. Ma questi erano così fieri e pieni di sé, che fecero finta di non vederlo. Quando i tre principi giunsero a casa, il re li fece chiamare e domandò com'era andato il viaggio. I due maggiori non la smettevano di vantarsi ed elogiare la bellezza e le ricchezze delle fidanzate.
“ E tu, Vulcanello?- chiese il re – Come te la sei cavata? Hai anche tu una fidanzata?”
“ Certo che ce l'ho – disse il principe – ma non può stare all'altezza delle fidanzate dei miei fratelli.” Subito i fratelli maggiori lo derisero. “Vulcanello – dissero – ha una fidanzata che cova sotto la cenere!” Il principe non osava rispondere, ma sperava che un giorno la fortuna l'avrebbe aiutato a contrapporre l'orgoglio al disprezzo dei fratelli.
Trascorse del tempo e in tutto il regno si parlava soltanto dei due principi e delle loro nobili fidanzate. Ma nessuno menzionava Vulcanello, né alludeva alla sua futura sposa.
Un bel giorno il re convocò i tre figli e disse: “ Vorrei sapere se l'abilità delle vostre fidanzate nelle faccende femminili è pari alla loro bellezza e ricchezza; perciò vorrei che le andaste a trovare e chiedeste a ciascuna di fare un dolce che mi porterete, perché io possa giudicare qual è il migliore”.
I principi si apprestarono al viaggio, i due maggiori a cavallo e con un ricco seguito e il minore, come sempre, a piedi, ma felice di sfuggire per un po' ai motteggi e dileggi. Mentre i due andavano ciascuno per la propria strada, riccamente bardati, il piccolo cominciò il suo viaggio solitario nel bosco. Camminava e camminava e il desiderio di rivedere la sua topolina si faceva sempre più cocente. Capiva allo stesso tempo com'era assurdo pretendere che lei fosse capace di impastare e sfornare un dolce, e al pensiero di essere nuovamente umiliato dai fratelli agli occhi del padre stava per arrendersi e tornare indietro. Ma riuscì a farsi coraggio e proseguì.
Giunto alla piccola dimora sotterranea, la topolina gli andò incontro salutandolo affettuosamente:  "Benvenuto, mio diletto! Perché sei così triste?
Vuoi mangiare, mangia! 
Vuoi bere, bevi! 
Vuoi sedere, siedi!" 

Rispose il principe:” Non ho né fame, né sete. Ho ben altre preoccupazioni, credimi”.
“ Quali preoccupazioni?” chiese la topolina.
“ Mio padre vuole che io gli porti un dolce fatto dalle mani della mia fidanzata. Quando tornerò a mani vuote, dovrò subire di nuovo lo scherno dei miei fratelli.”
“ E' tutto qui?- disse la topolina – Lascia fare a me. Basta che tu mi sia fedele e ti verrò in aiuto.”
Il principe giurò di mantenere fede alla parola data.
Senza porre indugio, la topolina uscì fuori, salì in cima a una roccia e gridò:
“ Venite a me, topolini fedeli! Che ognuno porti in bocca un chicco di grano!”
Aveva appena pronunciato queste parole che il luogo fu invaso da una moltitudine di topolini che correvano ciascuno con il suo chicco in bocca e lo depositavano in una macina, da cui presto uscì una farina bianca come la neve. Poi la topolina accese un fuoco sotto la piastra rocciosa e fu tutto un impastare, spianare, lievitare, cuocere finché la pasta informe non diventò un dolce gonfio, liscio e dal profumo appetitoso.
Ora Vulcanello si sentiva pienamente soddisfatto e di tutto cuore ringraziò la topolina; poi sedette a tavola e mangiò e bevve di gusto, mentre la topolina si dava da fare per servirlo. Infine, calata la notte, si distese sulla coltre di seta imbottita di piume e cadde in un sonno profondo, popolato da sogni lieti. La mattina dopo si accomiatò dalla topolina ringraziandola di tutto e promettendole di non lasciarla mai. Percorse un'altra volta il sentiero nella foresta e incrociò il corteo dei fratelli a cavallo che, sulla strada principale, stava tornando al castello del padre. Ed erano tanto pieni di sé che finsero di non vederlo.
Giunti a casa, il re li fece chiamare per informarsi sull'esito del viaggio. I fratelli più grandi mostrarono subito il dolce fatto dalle loro fidanzate, che era bello e chiaro e ottenne subito l'approvazione di tutti.
“ E tu, Vulcanello?- chiese il re – Come t'è andata? Hai portato un dolce fatto dalle mani della tua fidanzata?”
“ Certamente che ce l'ho – rispose il principe – ma non posso competere con i miei fratelli.”
Subito i fratelli presero a farsi gioco di lui. Ma il principe non si lasciò intimidire e poggiò sul tavolo il dolce fatto dalla sua topolina. Il re e i suoi figli più grandi e tutti i gentiluomini sgranarono tanto d'occhi, perché nessuno aveva mai visto un dolce di pasta più fine e colore più dorato.
Così il re lo giudicò il migliore, ad onta dei fratelli di Vulcanello, che tanto si erano vantati.
A corte non si fece che parlare di Vulcanello e della sua fidanzata. Il principe non disse nulla e manifestò solo la gioia di essere in pace con i suoi fratelli.
Passò un altro po' di tempo e il re convocò nuovamente i figli.
“ Finora – disse – ho constatato la bravura in cucina delle vostre fidanzate. Ora vorrei verificare la loro abilità al telaio. Portatemi dunque una stoffa tessuta da loro.”
I fratelli più grandi si misero in viaggio con il loro seguito, al suono delle fanfare e il piccolo s'incamminò come sempre con il suo sacco in spalla. All'idea del futuro incontro con la topolina aveva il cuore il cuore gonfio di gioia, ma allo stesso tempo lo consumava l'ansia per come la topolina se la sarebbe cavata con un lavoro di tessitura.
Era incerto se proseguire, ma dopo aver riflettuto decise di non arrendesi. Giunto alla capanna d fango, la topolina gli venne incontro felice e gli disse:
“Benvenuto, amato mio! Perché sei così triste?
Vuoi mangiare? Mangia! 
Vuoi bere? Bevi! 
Vuoi sedere? Siedi!” 
 Rispose il principe:” Non ho né fame né sete. Ho altre preoccupazioni, credimi”.
“ Quali preoccupazioni?”chiese la topolina.
“ Ascoltami. Mio padre vuole che gli porti una stoffa tessuta dalla mia fidanzata. Immagino già come i miei fratelli mi prenderanno di mira, svergognandomi davanti a tutti.”
“ Niente affatto – disse la topolina – C'è rimedio a tutto e il problema può essere facilmente risolto con il mio aiuto. Questo, a patto che tu mi giuri fedeltà.”
“ Te l'ho giurata e te la giuro di nuovo” fece il principe e allora la topolina corse fuori, salì in cima a una roccia e gridò: “ A me, topolini! E che ciascuno porti in bocca un filo di seta!” Aveva appena finito di parlare che da tutte le parti sbucarono sciami di topolini che, dirigendosi in un unico punto, depositavano il filo di seta che portavano in bocca. Poi prepararono in ordine i fusi e un piccolissimo telaio e fu tutto un filare, ordire, ronzare e sbattere.
E la fidanzata del principe sedette di persona al telaio introducendo con le sue manine la spola, passandola avanti e indietro, muovendo i pettini e battendo i piedi con incredibile alacrità, e non si diede pace finché non ebbe filato un tessuto più bianco della neve e più sottile di una ragnatela. Vulcanello si rasserenò e riconoscente ringraziò la fidanzata. Poi sedette al tavolo e mentre la topolina correva su e giù a servirlo mangiò e bevve di gusto; e quando fu notte, si distese sulla coltre di seta imbottita di piume e dormì profondamente fino al sorgere del sole.
Il principe si accomiatò dalla fidanzata ringraziandola di ogni cosa, giurandole eterna fedeltà, e riprese il lungo cammino del ritorno. Come già era avvenuto in precedenti occasioni, Vulcanello sbucò dal sentiero del bosco sulla strada principale proprio quando in sella ai loro cavalli stavano rientrando a casa i fratelli maggiori. Anche questa volta finsero di non vederlo.
Alla reggia, il re chiese di vedere le stoffe tessute dalle fidanzate dei suoi figli e i due maggiori distesero ciascuno il proprio tessuto, bianco e sottile e i cortigiani non poterono che elogiare quel pregevole lavoro.
“ E tu, Vulcanello? Che hai combinato? Mi hai portato un tessuto della tua fidanzata?” chiese il re.
“ Sì – disse il principe – ma non so se la mia cara è all'altezza delle fidanzate dei miei fratelli.”
E senza preoccuparsi degli sberleffi dei due maggiori porse al padre una noce. Il re la aprì e all'interno c'era una nocciola che racchiudeva un nocciolo di ciliegia dal quale sgorgarono metri e metri di un tessuto bianchissimo e così fino che ricoprì tutta la sala del trono.
Furono tutti d'accordo nel dichiarare che un tessuto così bello non si era mai visto e i fratelli, invidiosi, si rivalsero dicendo che se la fidanzata di Vulcanello cucinava e tesseva così bene, doveva certamente essere pessima in altre cose.
Passò altro tempo. A corte non si parlava che di Vulcanello e della sua fidanzata, e il principe era salito nella stima di tutti. Da lui non si riusciva a sapere altro, tranne che era felice di essere in pace con i fratelli.
Un giorno il re chiamò i tre figli e disse: “Adesso che so che le vostre fidanzate sanno impastare e tessere, dobbiamo pensare alle nozze. Desidero dunque che andiate a prendere le vostre promesse e le accompagniate qui, perché io possa giudicare chi è la più bella”.
I due fratelli maggiori furono molto soddisfatti di questa decisione e si prepararono a partire con gli abiti di nozze, gli stendardi e un seguito adeguato. Ma il più giovane dei principi non aveva né cavallo né seguito, e dovette avviarsi solo attraverso la foresta. Cammin facendo provava una pungente nostalgia della sua diletta, ma il suo cuore era anche pesante di angoscia al pensiero di cosa avrebbe detto la famiglia nel vedere la sposa. I due fratelli sarebbero tornati a casa con belle principesse di sangue reale, mentre lui poteva solo presentarsi con una topolina. Non sapeva se proseguire o tornarsene a casa, ma andando avanti e riflettendo finì col trovarsi di fronte all'uscio della capanna di fango.
Quando ne varcò la soglia, la topolina gli si avviò incontro felice come sempre e disse:
“ Benvenuto, mio diletto! Perché sei così triste?
Vuoi mangiare? Mangia! 
Vuoi bere? Bevi! 
Vuoi sedere? Siedi!” 
 “ No – disse Vulcanello – non ho né fame, né sete. Ho altre preoccupazioni, credimi.”
“ Quali preoccupazioni?” chiese la topolina. “ Mio padre ha predisposto ogni cosa per il matrimonio di noi figli e desidera che portiamo a casa le nostre promesse spose. Ma cosa succederà quando i miei parenti vedranno che sono fidanzata con una topolina?”
“ Non devi angustiarti perché tutto si sistemerà; se è questo che ti preoccupa, basta che tu mi sia fedele.”
Le parole della topolina ebbero il potere di rasserenare il principe che, dopo averle promesso ancora eterna fedeltà, mangiò, bevve e rise di gusto.
Venuta la notte, si distese sulla coltre di seta imbottita di piume e dormì e sognò, e nel sonno non aveva ragione di provare invidia per i fratelli.
Quando spuntò il sole, il principe disse che doveva tornare a casa e chiese alla fidanzata se era pronta. “ Sì – disse la topolina – devo solo indossare il mio abito di nozze.”
A queste parole, Vulcanello non riuscì quasi a trattenere le risa, ma la topolina corse fuori, salì sulla roccia e gridò:
"Venite a me, topolini e che ciascuno porti in bocca una pelle di topo”.
Subito, una folla di topolini circondò la roccia e tutti avevano una pelle di topo in bocca e con queste pelli vestirono la promessa sposa, sovrapponendo pelle a pelle, finché la topolina divenne così grande e grossa che riusciva a malapena a muoversi. Poi, da chissà dove, tirarono fuori un cucchiaio d'argento, al manico legarono dodici scarafaggi e in testa quattordici pulci, sui lati sei topoline per affiancare la sposa.
Quando quello strano tipo di carrozza fu pronto, fecero accomodare la topolina che era gonfia di pelli e gli scarafaggi cominciarono a correre e le pulci a saltare, e attraversarono a tutta velocità montagne e valli.
Vulcanello camminava svelto accanto, attento che tutto filasse per il meglio, ma non sembrava per nulla contento di quel corteo di nozze.
Più si avvicinavano al castello del re e più il principe temeva di incontrare i fratelli e le loro promesse spose; avrebbe preferito morire piuttosto che farsi vedere con quel corteo e tuttavia andava avanti.
Arrivarono a un fiume che scorreva verso nord, attraversato da un ponticello. Il corteo di nozze si fermò e la topolina corse in mezzo al ponte e ordinò a Vulcanello:
“ Sfodera la spada e taglia il manico del cucchiaio!” Il principe pensò che era una richiesta bizzarra, ma essendo ormai rassegnato al peggio, sfoderò la spada e fece quel che gli era stato chiesto.
Ed ecco che avvenne qualcosa di straordinario. Aveva appena reciso il cucchiaio che improvvisamente dall'altra parte del fiume comparve una carrozza più bella e sontuosa di qualsiasi carrozza che avesse il re. Risplendeva di oro e di argento, era tirata da dodici cavalli, e quattordici paggi nelle più belle uniformi la precedevano a cavallo. Era appena apparsa la carrozza, che la topolina disse a Vulcanello:
“ Adesso tagliami la testa con la spada!”
In un primo momento Vulcanello si rifiutò di di farlo perché, malgrado si trattasse di una topolina, voleva molto bene alla sua promessa sposa, ma l'ordine gli fu ripetuto con tanta insistenza che non ebbe scelta. Nel momento in cui le tagliò la testa, la topolina cadde in acqua con tutto il suo seguito, ma nello stesso istante salì a riva una principessa bella come la più radiosa giornata d'estate, vestita di seta e broccato. Sulla testa aveva una corona d'oro e in mano teneva la mela dorata. Intorno a lei c'erano sei graziose damigelle d'onore.
Vulcanello rimase a lungo a bocca aperta non credendo a ciò che vedeva e non sapeva se sognava o se era sveglio. Tornò in sé quando la bella principessa si fece avanti e l'abbracciò, ringraziandolo per averla salvata: era la sua fidanzata, la topolina, trasformata in animale da una cattiva matrigna. Adesso sì che il principe era fiero di presentare la promessa sposa a corte! La prese per mano e la condusse alla carrozza, ve la fece sedere lui stesso restando in piedi sul predellino e partirono a tutta velocità. Con la carrozza che brillava d'oro e pietre preziose come una meteora.


Bunce K.

Nel frattempo, i due fratelli maggiori erano arrivati a corte per presentare le loro fidanzate. Aspettavano Vulcanello, convinti che nessuno potesse star loro a pari. I cortigiani non facevano che elogiarli per la scelta delle due belle fidanzate di sangue reale, ma quale non fu la meraviglia di tutti quando si aprirono i cancelli e avanzò la carrozza dorata della fidanzata di Vulcanello affiancata da paggi e damigelle e guidata da focosi cavalli! Dalla carrozza scese la principessa con la corona d'oro e la mela in mano, con Vulcanello che, fiero, le dava il braccio. Ora i principi persero ogni arroganza e voltarono la faccia, accecati dallo scintillio di tanto oro.
Vulcanello avanzò nella sala, si avvicinò al trono e salutò il padre con deferenza e tutti ammirarono la sua virilità e pacatezza. Non c'era dubbio che la sua fidanzata vincesse in grazia e bellezza le altre principesse, così come il sole batte in splendore tutte le altre costellazioni. I due fratelli avevano avuto una bella lezione e da quel giorno non osarono più vantarsi, né deridere nessuno a corte e, tanto meno, il fratello minore.
Le nozze vennero celebrate con giubilo e solennità e il re fece sedere la sposa di Vulcanello sul banco più alto per dimostrarle quanto grande fosse il rispetto che le portava. Dopo un'intera settimana trascorsa in feste e giochi, il giovane principe si accomiatò dai parenti e partì diretto al regno della sua sposa che per lungo tempo aveva subito un malefico incantesimo. Lì venne eletto re e governò a lungo con giustizia, e non vi fu mai re più saggio, né regina più bella.


Dalla nota al testo:
"Esistono una cinquantina di annotazioni di questa fiaba...
All'est tratta di una principessa ranocchia; al nord, come in Svezia, di una principessa topo; all'ovest di una principessa gatto. La versione più antica proviene dall'Oriente, dalle Mille e una Notte."

Annuska Palme Sanavio


Vulcanello parente dell'infantile Ceneraccio russo, ma anche pavido, umiliato, un tantinello ipocrita: cova rancore sotto la cenere (cenere che richiama l'insopportabile sopportazione delle migliaia di Cenerentole), ma "è felice di essere in pace con i suoi fratelli".

"Vulcanello avanzò nella sala, si avvicinò al trono e salutò il padre con deferenza e tutti ammirarono la sua virilità e pacatezza". Il matrimonio con la principessa stregata gli ha donato quelle qualità "virili" che gli mancavano. Come sempre, si perde di vista il punto, si scambia la conseguenza per l'energia rigeneratrice del viaggio. Poi, le chiamano fiabe iniziatiche.
Tuttavia, questo Cenerentolo mi  piace perché, a differenza dei confratelli fiabeschi che reprimono disgusto e disperazione per la sposa animale, o, nel migliore dei casi, nutrono una mesta gratitudine, si innamora di lei prima dello scioglimento del sortilegio, prova nostalgia per "la sua topolina", è felice e sereno solo nella sua capanna, e le giura fedeltà senza meditare il suicidio.

Mab