sabato 28 febbraio 2015

"La Verdea" , La Novellaja Fiorentina, Novella Terza, V.Imbriani

'era una volta un legnajolo di corte, e aveva tre figliole. Queste eran ragazze. Dunque il Re gli comanda di andare a fare un lavoro fori via, ma di molto; per cinque o sei anni. Quest'omo non poteva dire: - "Non ci vado!" - A voler mangiare!... Ma gli rincresceva d'andarsene lontano, in un paese, per affare di quattro o sei anni di lavoro. Torna a casa dalle figliole tutto inconsolabile, afflitto; e gli dice:
"Ragazze, Sua Maestà m'ha ordinato questo lavoro. Bisogna ch'io vada via, ch'io vi abbandoni. Ma voglio una grazia da voi."
"Qual'è, babbo, - dice - la grazia?"
"Che voi vi contentiate ch'io vi muri l'uscio."
Dice: - "Oh come questo è, noi siamo contentissime!"
E così quest'omo fa murare la porta. Gli mette tutto tutto tutto quello necessario; gli lascia quattrini; e gli dice:
"Prendete questo bel paniere grande, e la fune del pozzo. E quando passa questi omini che vendon la roba, calategnene, e comprate quel che volete e così mangerete. E addio!"
"Addio!"
Le bacia: potete credere, gua', che pianti! E gli fa finire di murare la porta, perchè ne avea lasciato un pochino per passare; e si mette in viaggio.
Lasciamo che Sua Maestà stava dalla parte di dietro del palazzo, affacciato alla finestra. Ed appunto rimaneva di faccia alle finestre di queste ragazze; e le erano tutte e tre alla finestra sulle ventitrè, facevano per prendere un po' d'aria. Gli vien voltato l'occhio per caso e vede queste tre belle ragazze; che l'eran proprio di latte e sangue, belle! Non istà a dire: - "Che c'è stato?". La mattina si veste da poerone con un paniere di fila d'oro, e va girando: "I' ho le belle fila d'oro! I' ho le belle fila! I' ho le belle fi'!"
E le ragazze dice:"Si chiama quest'omo? Intanto che si sta chiuse si farà un bel lavoro, via."
Lo chiamano; e lui:"Comandino, cosa vogliono, signore?"
"Quanto le fate le fila d'oro?"
Gli dice il prezzo e loro gli calano i quattrini. Cari l'erano: il prezzo proprio non lo so, ma potrei anche dire immaginandolo. Dirò uno zecchino.
"Ma badino - dice il Re - le pesan di molto."
"Eh! - dice loro - siamo in tre! Diamine, che in tre non s'abbiano a potere?"
E che ti fa, lui? S'attacca alla fune, al paniere; e su. Loro credon che le sian le fila d'oro che pesano e invece gli era il Re proprio. Loro, quando vedono che gli era un omo, loro non raccapezzano, no: lo volevan buttar di sotto. Ma lui disse: "Ferme! sono il Re! - e s'afferrò alla finestra - Avendo saputo che voi èrate sole, son venuto a farvi compagnia."
Queste ragazze, potete comprendere, vergognate in quel momento, perchè poere; e dissero:
"Maestà, perdonate: noi siamo poere ragazze. Non vi si pol ricevere com'è il vostro merito. Ci vorrebbe altro!"
"Ah! - dice - Niente, niente! Io non ricerco la ricchezza. Io vengo da voi perchè di certo so che siete tanto bone ragazze. Ed io vengo per passare un'ora con voi. Quanto mi rincresce - dice - che non ci sia vostro padre! perchè io do tre festini: e m'incresce, perchè voi poerine non possiate venire."
Le fanciulle gli fanno i complimenti:
"Troppo garbato, Maestà, troppo garbato."
"Ma - dice - quando ci sarà vostro padre, io ne darò degli altri ed allora vo' ci verrete."
Si trattenne un altro poco, un'altra mezz'ora, dirò; e poi gli dice:
"Addio, addio a domani."
Si rimette nello stesso panierino, e loro lo ricalano con la stessa fune, come gli è salito. Lui va al palazzo e le ragazze rimangon lì chiacchierando di questa cosa. Dice la minore:"Che credete che questa sera vo' non abbiate a calarmi?" - a calar giù ancora lei.
"A fare icchè - dice le sorelle - ti s'ha a calare?"
"Voi mi dovete calare e non ricercare quel ch'io farò." - Dunque insisteva.
Loro di no; e lei sempre:"Voi mi calerete, vo' m'avete a calare."
S'erano stancate: dicevan di no e lei la diceva sì. "Vuoi calare? e tu cala!" - e con la fune la calarono.
Questa ragazza l'avea preso un paniere grande. Va all'usciolino secreto di Sua Maestà. Sta in orecchi; non sente nessuno. Lesta lei principia a salire e entra nella cucina. E siccome [3] tutte le guardie erano a guardare, sapete bene, là dove s'appartiene, qua non ci pensavan neppure. Che ti fa? La prende tutte le meglio robe, tutto arrosto, potete immaginare cosa ci sarà stato! e mette tutto nel paniere la meglio roba. E poi l'altra roba, quello che era rimasto lì per Sua Maestà, tutto cenere e acqua, la gnene sciupò tutta. E poi la va via, e va in cantina: prende i meglio vini, le meglio bottiglie, tutte le qualità che lei poteva prendere. E poi dà l'andare a tutte le botti, bottiglie e tutto quel che rimase; e vien via. Corre verso casa.
"Tiratemi su! tiratemi su!", alle sorelle.
Eccoti le sorelle la tiran su: e videro un paniere di roba, pieno d'ogni grazia di dio. Gli domandano:"In che maniera?"
E lei:"Zitto! ve lo dirò. Serrate le finestre e ve lo dirò!"
Serrano e gli dice:"Io sono stata così da Sua Maestà. Ho fatto questo e questo. Ho preso tutta la meglio roba; e poi ho spento con cenere la roba da mangiare ch'era rimasta. E poi ho dato l'andare alle botti."
Dice le sorelle:"O cos'hai tu fatto!"
"Pensiamo a mangiare - dice - e non pensiamo ad altro."
Venghiamo a Sua Maestà che di certo dopo aver ballato, ordina che gli sia messo in tavola: in tutti i festini ci è il suo buffè. Vanno i cuochi in cucina e trovan questo spettacolo. Rimangon più morti che vivi, addolorati molto, perchè non sapevan loro quel che dovevano andare a dire a Sua Maestà. Sua Maestà insisteva: - "Mettete in tavola!"
Allora un di quelli disse:"Maestà, abbiate la bontà di venir con noi, e vedere la disgrazia che n'è seguita."
"Ah bricconi! - dice - Traditori! Uno di voi gli è che m'ha fatto questo spregio!" Loro gli si buttano ai piedi piangendo:
"Maestà, noi siamo innocenti!"
"Ah! - dice - alzatevi. Almeno andate in cantina a prendere qualcosa da bere."
E va da' signori e dice:"Signori, ci è questo e questo. Si contenteranno di rinfrescarsi. Ormai la disgrazia qui c'è: qualche astro maligno, qualche fata che mi vol male assoluto."
Gli òmini di corte vanno alla cantina e trovano il lago, più di mezz'omo. Urlano! "Maestà, abbiate bontà di venire con noi, perchè..."
Va giù e vede tutto un lago, tutto buttato. Torna in su e dice a' signori:
"Signori, abbiano bontà. Veggon bene, non ho neppure da dar loro a rinfrescarsi. Questi birbanti chi sono?". E piangeva per la vergogna.
"Ma domani sera, signori, metterò le guardie doppie. Così non seguirà. Perchè il primo che io posso scoprire, il pezzo più grosso dev'essere un chicco di rena. Questo ladro, questo birbante..."
I signori si licenziarono a corpo voto e Sua Maestà si mette a piangere; e pianse tutta la notte dicendo sempre:"Sconta [4] delle mie bambine, che mi voglion tanto bene, con questi traditori che mi voglion tanto male."
Venghiamo alle ragazze. "Oh! - dice - tra poco c'è da aspettarselo, Sua Maestà; c'è da vederlo, gua', chè ce lo promesse. Non facciamo vistosità che s'è fatta questa cosa."
E così, dopo un quarto d'ora, Sua Maestà:"Ho le belle fila d'oro! [5]"
"Eccolo!" - dice. Gli calan la fune, e lui vien su; afflitto, con gli occhi rossi. "Maestà, cos'avete oggi?", gli dicono.
"Ah le mie bambine, ora vi conterò quel ch'i' ho, - dice. - Vi ricordate voi ieri che io dissi, che io dava tre festini?"
"Sissignore."
"Abbiate da sapere che ieri sera all'ora che io doveva far mettere in tavola, i miei vanno in cucina e trovano tutta la roba con cenere e acqua, tutto straziato, ma uno strazio impossibile a dirlo. Loro rimasero più morti che vivi, questi miei servitori. Io insisteva che mettessero in tavola. Allora si buttarono ai piedi e dissero: Maestà, venite a vedere il caso brutto che è seguito. Ed io gli dissi: Ah, traditori, bricconi, uno di voi siete. Loro si gittarono ai piedi e conobbi bene la sua innocenza. Ma qui un astro maligno c'è, o una fata; o un traditore c'è. Ma se io lo scopro dev'essere più grosso un chicco di rena della sua persona! dev'essere spezzato più fine che un chicco di rena."
"Ma come si fa a fare queste cose? - gli rispondono le ragazze - Mentre che il Re è tanto il bon signore. Come si fa a fargli questi strazii di buttargli la roba?"
"Oh, ma stasera ci sono le guardie doppie, oh!". Egli fa come a dire, gli pare d'averla tra le mani questa persona. Si trattiene un altro poco, poi se ne va: "Addio, addio, a domani."
Quando gli è verso le ventitrè, dice la sorella minore:
"Che credete voi che non abbiate a calarmi stasera?"
Dice le sorelle:"Oh questa sera poi, non ti si calerà davvero. Avresti aver sentito! Gli ha detto, s'egli scopre questa persona, gli ha da essere più grosso un chicco di rena. Noi non ti si cala."
No e sì, no e sì, bisogna che la calino, son costrette a calarla. Quando l'hanno calata, lei via dall'usciolino solito. Sta in orecchi, cheh! non sente un'anima. Tutti erano attenti dove potevan credere che venivan le genti, ma di qua non c'era nessuno, non sapevan dell'usciolino segreto. La ragazza lo sapeva, perchè gnene aveva detto suo padre. Prende tutta la roba più dell'altra sera, perchè c'era più roba e più squisita; e fa l'istesso: quello che rimane tutto cenere ed acqua e tutto un piaccicume. Va alla cantina e piglia la meglio roba che ci possa essere, mah! bottiglie più squisite, sempre più della prima volta. La dà l'andare alle botti e poi la scappa a casa. "Tiratemi su, tiratemi su!". Va su; e le si mettono a mangiare in festa, tutte allegre.
Venghiamo a Sua Maestà, che dice ai signori:"Questa sera non è come ieri sera, no! Io ho messo le guardie doppie."
"Mettete in tavola!", dice ai cuochi, alla servitù.
Vanno in cucina e trovano peggio dell'altra sera: tutto cenere, acqua; un marume. "Maestà - dice - abbiate la bontà di venir di qua da noi."
"Ah? forse ci sarebbe lo stesso tradimento?"
"Maestà, venite a vedere."
"Ah traditori, ora poi conosco che siete voi davvero. Con le guardie doppie non è entrato qui nessuno."
Questi urlavano appiedi:"Maestà, salvateci! siamo innocenti."
Maestà dice:
"Qui c'è qualcheduno che mi vole un male a questo punto! Alzatevi, io vi perdono. Andate almeno in cantina: questi signori scuseranno, e si contenteranno di rinfrescarsi."
Vanno alla cantina, e se la prima sera gli veniva sin qui a mezza persona, questa poi non si poteva neppure entrare, si affogava dal lago. Maestà è costretto a dire a que' signori:"Vengano a vedere la disgrazia che ho addosso. Non solo... ma che quest'astro maligno vi sia e di non lo potere scoprire!". E quei signori ebbero a andare con le trombe nel sacco, come si suol dire, senza prender niente, quella seconda sera.

"Ma - dice il Re - "domani sera ci sto in persona io.". Vanno via. Venghiamo al Re che dà in un dirotto pianto. Piange sempre dicendo:"Le mie povere bambine quanto mi voglion bene, e questi traditori quanto mi voglion male!".
Venghiamo alle ragazze. "Oh! - dice - badate! Non ci sarà molto, che ora verrà Maestà. Procacciamo di non fare vistosità, sennò noi siam morte."
E così dopo mezz'ora, ecco Maestà con le fila d'oro: non avea nemmanco fiato. "Oh - dice - eccolo! coraggio!"
Calan la fune e lui va su, più morto che vivo. "Felice giorno, Maestà. O come va? che si sente male?"
Un viso gli aveva, morto. Dice:
"Ah le mie bambine, voi non sapete! Iersera fu peggio dell'altra sera il tradimento."
"Ah, ma come mai, signore? gli è tanto il bon signore! che gli debban fare queste cattività?"
"Eh, ma stasera ci sto in persona. Non ci sarà scusa. Eh se lo posso avere!... se io posso scoprire!... vi replico quel ch'io vi dissi: il chicco d'arena dev'essere più grosso di questa persona quando lo mando in tritoli."
"Oh l'ha ragione! È tanto il bon signore!", le replicano. Sua Maestà va via dopo essersi trattenuto un'altra mezz'ora. Ci era andato per passarvi un'altra mezz'ora, non per fin di nulla, via. Quando gli è andato via:
"Che credete che stasera non mi abbiate a calare?", disse la minore di tutte.
"Ah che non ti si cala davvero noi, stasera. Non ti si cala; e si scriverà al babbo in qualche maniera, perchè noi non si vole di queste cose."
Che volete? Sì, no, sì, no; furono costrette a calarla anche stasera. Figuratevi, entra nell'usciolino: chè se la prima sera ci era d'ogni bene di dio, l'ultima non si pole spiegare, ecco! Prende il suo paniere e comincia a metter roba, tutta la più meglio che ci fosse. L'altra, fa il solito: tutt'acqua e cenere; la mette giù nel camino tutta sciupata come l'altra sera. E va in cantina. Scende in cantina, prende il meglio vino e le bottiglie le migliori [7], poi si volta e vede un vaso di verdea. Lesta lei, lo prende e lo mette nel panierino. Dà l'andare alle botti, poi lesta a casa:"Tiratemi su, tiratemi su!". La va su a mangiare con le sorelle.
Lasciamo là quelle che sono in gaudeamus, a cenare come principesse, e venghiamo a Maestà che dice:
"Signori, stasera non sarà come l'altra sera: ci sono stato da me a guardare."
E questi signori tutti contenti dentro di sè. Ora ordina di mettere in tavola. I cochi entrano in cucina e veggono più cento volte straziato delle prime sere. Più lesti andierono da Sua Maestà, perchè:"Se stasera - dice - c'è stato da sè, non ci pole incolpare."
"Maestà, venite a vedere."
"E cosa c'è da vedere?"
"Venite a vedere", dice.
Va a vedere, che? figuratevi la cosa!
"Qui c'è un astro maligno, qualche fata che si gioca di me!"
Va dai signori:"Signori, siamo alle medesime. Venghino a vedere anche loro!"
Poveretto, gua'. Vanno alla cantina, figuratevi, tutto un lago: non si vedeva proprio dove andare. Tutto cascato il vino e poi tutto mescolato. Dice a questi signori che gli abbino pazienza, ma che dei festini non ne dà più, perchè non poteva dar loro nemmanco da rinfrescarsi. Tutto un lago giù, non ci si raccapezzava nulla. Piangendo, sospirando, gli pareva mill'anni d'arrivare alla mattina, d'andare alle sue bambine. Dice:
"Le mie povere bambine quanto mi voglion bene, e questi traditori quanto mi voglion male!"
Per tornare un passo addietro, queste ragazze:"Dove si metterà" - dice - "questo vaso di verdea?"
La verdea, l'è roba che si mangia come una conserva, io m'immagino; ma cosa sia appuntino io non so [8]. Le non ci avevan posto: pensano di metterlo sotto al letto, rimpetto alla finestra, questo vaso. Eccoti Maestà:
"Ho le belle fila d'oro! ho le belle fila! ho le belle fi'."
"Eccolo, eccolo! per l'amor d'iddio non ci facciamo conoscere. Ci vuol coraggio, gua'."
Calano il paniere, le funi solite; lo tiran su. Piangeva a calde lacrime.
"Oh Maestà! Ma cos'avete?", lo vedevan troppo disperato.
"Ah quel ch'i' ho? Peggiore di tutte l'altre sere! Non basta essere stato da me in persona. Questo è qualche astro maligno o qualche fata. Ma io non ne darò mai più di questi festini."
Discorrevano del più e del meno, loro dicendo sempre:"Tanto bon signore!", e sempre replicavano questa parola. Sua Maestà si è trattenuto altra mezz'ora, come il solito, da queste ragazze, e se ne va: "Addio, addio, a domani."
Nel mentre le ragazze lo calano, lui vede il vaso della verdea sotto il letto: "Oh traditore!", gli dice, e fa per ritornare su in casa. E loro lo buttano di sotto senz'altri discorsi. Chi lo buttò fu la sorella minore. Sua Maestà si fece un male, ma male passabile. Lascio considerare le ragazze maggiori come rimasero, dicendogli, alla sorella:"Qualunque sia il caso, la rea tu siei te. Noi non ci s'ha colpa."
Venghiamo a Maestà. Va nel suo quartiere e subito scrive al suo padre, delle ragazze, una lettera fulminante: che in due ore e mezza, lui fosse al palazzo, altrimenti, pena la testa. Lascio considerà' quest'omo nella massima disperazione, pensando a più cose e non sapendo perchè Sua Maestà gli avea detto per sei anni e in capo a pochi giorni lo manda a chiamare:
"Eh, qualcosa ci è! - dice - Le mie figliole non possan essere, perchè gli ho murato l'uscio; impossibile!"
Si mette in viaggio, più morto che vivo con questa pena, con questo pensiero; e arriva al palazzo. Dice:"Sua Maestà mi ha mandato a chiamare."
E così Sua Maestà sente che gli è arrivato, dice:"Fatelo passare."
E passa quest'omo.
"Che mi comanda Sua Maestà?"
"Mettetevi a sedere", dice.
E quest'omo si mette a sedere.
"Ditemi, quante figlie avete voi?"
 Lui, si sente una stilettata, perchè:"qualcosa c'è sulle mie figliole!"
Dice:"Tre, Maestà."
"Bene: si potranno vedere queste tre figlie?"
"Maestà, quando Lei voglia. Ma si ricordi, che noi siam poverelli, noi. Non si pò riceverla come Lei meriterebbe di certo."
"Non m'importa! - disse Sua Maestà. - Io bramo di conoscerle; ed una di loro la voglio in isposa."
Quest'omo si butta a' piedi dicendo:"Maestà, io sono un pover'omo. Impossibile che voi vogliate abbassarvi a prendere una delle mie figliole."
"Oh io vi replico che una di tre io la voglio."
"Allora, - dice - Maestà, mi permetterete che io faccia smurare l'uscio, perchè io gli ho lasciato l'uscio murato. E allora potremo andare."
Va e fa buttare giù l'uscio, e va su dalle figliole, tutto... non sapeva nemmen lui quel ch'egli era.
"Oh babbo!"
Gli fanno le feste, lascio pensare.
"Oh babbo, ben tornato. In che maniera così presto?"
"Maestà mi ha mandato a chiamare, e io son dovuto tornare, eh. E mi ha detto: Quante figlie avete?"
Loro, figuriamoci, le maggiori, il suo core dove gli andiede:"Ci siamo, gua'!"
"E io gli ho detto: Tre, Maestà; tre figlie ho - Si potrebbero vedere?- Io gli ho detto: Maestà, sapete bene, noi siamo poveri; non vi si potrà ricevere secondo il vostro merito. E lui ha detto: Cheh! no, no, vi replico; io voglio vederle, perchè una di tre la voglio per isposa. Quella che mi vole."
La maggiore dice a suo padre:
"Io no, io non lo prenderei davvero."
La seconda:"Neppure io, sa, babbo; perchè..."
La minore:"Lo prenderò io - dice. - Io lo prenderò volentieri."
Eccoti Sua Maestà che viene in casa con suo padre e va su, e si mette a parlare, a discorrere del più, del meno. Suo padre è costretto a dirgli:
"Sua Maestà una di voi vi accetta per isposa."
La maggiore dice di no:"Non per... ma che vole! ci vorrebbe altro! io non posso essere capace..."
La seconda l'istesso:"Noi non siamo istruite, quel che Lei merita."
La minore dice:"Lo prenderò io, io sono contenta."
Era lei che aveva fatta la mancanza.
Ecco, conchiudono le nozze; fecero presto, in quattro o sei giorni. Così il giorno dello sposalizio, dopo l'anello, un momento di libertà ci vole. La gli dice alle sue damigelle:"Io voglio fare una celia al Re."
"Cosa, signora, vol fare?"
"Stai zitta. Io voglio fare una celia. Voglio far fare una donna tutta di pasta, e da qui in su tutta zucchero e miele: e poi ci siano ordinghi da potergli fare dire di sì e dire di no."
Figuriamoci, non aveva finito d'ordinare che gli era bell'e fatta!
"Perchè la voglio mettere nel letto, voglio fargli una celia al Re. Come a dire invece d'io [9] che ci sia questa donna di pasta [10]."
Ed appena fatta, la fa mettere in letto con la berretta, tutta vestita, come se la fosse stata lei in persona. Dopo pranzo, dopo la cena, dopo tutta l'allegria, vien l'ora di coricarsi. E chiede lei d'andare prima un momento a letto. Invece di spogliarsi entra sott'il letto e si prepara con questi ordinghi, se mai, a tirare e a dire di sì e di no.
Venghiamo a Maestà che dice ai servi:"Non occorre che mi spogliate stasera: faccio da me."
Entra in camera, e serra. E dice:
"Briccona! Ti ricordi eh, quando io diedi tre festini e mi eran fatti quegli spregi; e che te andavi dicendo: è tanto bon signore!, traditora."
Lei, sotto al letto:"Sì, me ne ricordo."
E tirava i fili, perchè dicesse sì la donna di pasta.
"Ah, te ne ricordi, eh?"
"Sì - la dice - Me ne ricordo."
"Adesso è tempo della mia vendetta."
Prende la spada e va al letto e la ferisce; via, ferisce quella bambola ch'era lì coricata. E gli spruzza tutto zucchero e miele.[11] E lui sentendo dolce, zucchero e miele, comincia a dire:
"Oh Leonarda mia di zucchero e miele! se io ti avessi ora ti vorrei gran bene." - Lei dice:"Io son morta."
Lo dice, gua'! con una voce flebile.
E lui insiste:
"Ah Leonarda mia di zucchero e miele! se ti avessi ora ti vorrei un gran bene."
E lei ridice:"Son morta."
Quando la vede che lui gli era veramente per ammazzarsi (lui s'ammazzava), la sorte fôra e dice: "I' son viva, son viva!"
S'attaccano al collo, si baciano, si perdonano, e nessun seppe nulla, perchè rimase in loro. Se l'ammazzava davvero, era morta: ma fu celia. La mattina s'alzarono, come fanno il solito. Leonarda la fece venire il padre e le sorelle e li fa i primi signori del palazzo. E così una cosa di celia, le riuscì di divenire una Regina. E visse bene, ma ci vol di quelle furberie.



Von Blaas E.


Dalle Note:

[3] Siccome nel senso di poichè, ben è dell'uso fiorentino odierno, come pure dell'uso universale in quel gergo infranciosato che fa le veci dell'italiano a' dì nostri: bene ha numerosi esempli di scrittori valenti come l'Alfieri; ma sarà sempre cansato, come un brutto gallicismo, da chiunque vuol serbar fattezze italiane nello scrivere. Il costrutto, veramente nostro, sarebbe col gerundio: Ed essendo tutte le guardie a guardare ecc.

[7] Altro barbarismo dell'uso e de' più goffi, de' più ripugnanti all'indole della nostra lingua, è questa reduplicazione dell'articolo. In Italiano si dirà sempre le bottiglie migliori o le migliori bottiglie; e l'intrusione d'un secondo articolo innanzi allo aggettivo (le bottiglie le migliori) sarà sempre non solo un pleonasmo, anzi pure uno sproposito majuscolo, un francesismo imperdonabile; un peccato mortale e non già veniale di lingua.

[8] Verdea è veramente una specie di vino. Tassoni, Secchia rapita, VI, 46:

I tedeschi del vino ingordi e ghiotti
Dietro a certi barili eran trascorsi,
Che ne credeano far dolce rapina;
E in cambio di verdea trovâr tonnina.

[9] Il caso obliquo de' pronomi usurpa tante volte il posto del retto, che non è da stupire se anche il retto qualche volta in bocca del popolo s'intrude nel posto dell'obliquo. Chi la fa, l'aspetti.

[10] Questo episodio della bambola si ritrova anche intruso in fine delle Novelle sicule Die Geschichte der Sorfarina, appo la Gonzenbach e Trisicchia (di Ficarazzi) ricordata dal Pitrè in nota a Li tridici sbannuti. Alquanto variato è nella fiaba veneziana El diavolo, appo il Bernoni. Matteo Bandelle narra come Faustina romana fosse informata che il marito Marc'Antonio intendeva ucciderla e fuggirsi con una Cornelia: 'E volendo alla mina del marito fabbricare una contrammina, ebbe segreta pratica con uno eccellente legnajuolo, e fece fare una statua e della grandezza che ella era, ma di modo fabricata, che se le accomodava benissimo la pelle d'una bestia attorno; alla quale, ella avendo inteso il determinato punto che il marito voleva ucciderla, acconciò certe vessiche piene di acque rosse assai spesse, acciò facessero fede di sangue...

[11] I costumi toscani richieggono che il latte ed il miele spruzzino casualmente sulle labbra del Re. Nelle varianti meridionali ch'io posseggo, con miglior motivazione (dal punto di vista estetico), il Re lecca quel sangue volontariamente sul coltello, perchè la superstizione popolare porta, che chi così fa, non è poi tormentato da rimorsi.
E' verissimo, e il testo dell'Imbriani è l'unico fra quelli che ho letto a fare un riferimento preciso alla popolare superstizione meridionale. Del resto, Vittorio Imbriani era napoletano e lo sapeva bene. Troppe volte, questo gesto è stato rappresentato, anche in altri contesti, come una mèra manifestazione di bestiale crudeltà.

Molto spesso, le note sotto le novelle dell'Imbriani occupano pagine e pagine, essendo, alla fine, un testo a parte, più lungo e ricco della novella stessa. Ricco di appunti, puntualizzazioni, curiosità, parallelismi, e anche strane (spesso errate, ma sempre interessanti) ipotesi. Ho riportato per intero, o quasi, quelle de "La Verdea", sfrondandole da un eccesso di citazioni di altri testi. Ho volontariamente omesso un gustoso campionario di antiche voci dei venditori ambulanti fiorentini, che merita un post a parte.

Naturalmente, non ho toccato il testo della novella (errori di ortografia e grammaticali compresi), ma, poiché è un po' faticoso a leggersi, ho lavorato di "punto e a capo" e di corsivo.

 V. Imbriani, da La Novellaja Fiorentina, Novella Terza.




lunedì 23 febbraio 2015

Gràttula-Beddàttula, Calvino n.148 - (Pitrè n. 42) - Seconda Parte

Così come dalla prima parte discende il tipo, o, almeno, l'incipit (nonché la causa scatenante della "disgrazia" che muove il racconto) de "La Bella e la Bestia", questa seconda parte, con il motivo delle ragazze murate e delle fughe dell'eroina con sconfinamento nelle cucine del Re, richiama le novelle come "La Verdea", raccolta da V.Imbriani ne "La Novellaja Fiorentina".

[Dalle note dell'Imbriani:
"È sottosopra l'argomento della Sapia Liccarda, Trattenimento quarto della terza giornata del Pentamerone: 'Sapia co' lo 'ngiegno ssujo, essenno lontano lo patre, sse mantene 'nnorata co' tutto lo male esempio de le sore. Burla lo 'nnamorato, e previsto lo pericolo che passava, repara lo danno. Ed all'utemo lo figlio de lo Rre sse la piglia pe' mogliere.' Variante della presente è la fiaba di questa raccolta, intitolata: La bella Giovanna.
Nella Grattula-Beddattula e ne La figghia di lu mircanti di Palermu, appo il Pitrè vi sono similmente de' padri, che partendo lasciano le figliuole murate in casa.]

Queste sono novelle - non fiabe - e hanno una forte valenza umoristica. La protagonista è la ragazza furba, non una Cenerentola. Il racconto ruota intorno al motivo della ragazza che, per sottrarsi ai tentativi di seduzione e/o per gusto personale, beffa ripetutamente il Re, il quale, solitamente, decide di sposarla per avere diritto di vita e di morte su di lei, non riuscendo a batterla in astuzia (sic!). Naturalmente, l'eroina riesce a scampare anche al tentativo di omicidio della prima notte nuziale. E vissero felici e contenti.

Sull'interpretazione di Calvino, lascio al confronto con il testo del Pitrè. Perduta l'esclamazione del narratore, che, una volta conclusa la vicenda del mercante con il suo ritorno a casa, impreca contro la propria sbadataggine per aver tralasciato le avventure di Ninetta durante l'assenza paterna e ce ne dà conto - con la freschezza e il ritmo del cunto orale - Calvino ci regala, in compenso, espressioni come:
"Ma hai le traveggole o hai bevuto?" (le sorelle a Ninetta che vuol calarsi nel pozzo), laddove "Ma sei matta o ubriaca?" costituirebbe il minimo sindacale non di una puntigliosità filologica, ma del rispetto per un linguaggio colorito e popolare.
E, a proposito dei cambiamenti veniali ma incomprensibili della prima parte... perché sostituire ai doni del testo originale - tre abiti a testa per le figlie maggiori che anticipavano i famosi tre balli - il vestito color del cielo e quello color dei diamanti (non una grande invenzione, peraltro)?



ntanto, mentre il mercante era via, le tre ragazze stavano nella casa dalle porte murate. Non mancava loro niente, avevano anche un pozzo dentro il cortile cosicché potevan sempre prendere l'acqua. Accadde che un giorno, alla grande delle sorelle cadde il ditale nel pozzo. E Ninetta disse:
"Non vi angustiate, sorelle, calatemi nel pozzo e vi ripiglio il ditale"
"Scendere nel pozzo? Scherzi", le disse la più grande.
"Sì, voglio scendere a pigliarlo", e le sorelle la calarono.
Il ditale galleggiava sul pel dell'acqua e Ninetta lo prese, ma, rialzando il capo, vide un pertugio nella parete del pozzo, donde veniva la luce. Tolse un mattone e vide di là un bel giardino, con ogni sorta di fiori, alberi e frutti. Si aperse un varco spostando i mattoni e s'infilò dentro il giardino, e là i meglio fiori e i meglio frutti erano tutti per lei. Se ne riempì il grembiule, rifece capolino in fondo al pozzo, rimise a posto i mattoni, gridò alle sorelle:
"Tiratemi!", e se ne tornò su fresca come una rosa.
Le sorelle la videro uscire dalla bocca del pozzo col grembiule pieno di gelsomini e di ciliege.
"Dove hai preso tante belle cose?"
"Che ve ne importa? Domani mi calate di nuovo e prendiamo il resto".
Quel giardino era il giardino del Reuzzo del Portogallo. Quando vide saccheggiare le sue aiole, il Reuzzo cominciò a far lampi e saette contro il povero giardiniere.
"Non so niente, come può essere?", badava a dire il giardiniere ma il Reuzzo gli ordinò di stare più in guardia d'ora in poi, sennò guai a lui.
L'indomani Ninetta era già pronta per scendere nel giardino.
Disse alle sorelle:
"Ragazze, calatemi!"
"Ma hai le traveggole o hai bevuto?"
"Non sono né pazza né ubriaca: calatemi", e la dovettero calare.
Spostò i mattoni e scese nel giardino: fiori, frutti, una bella grembiulata e poi:
"Tiratemi su!"
Ma, mentre se ne andava, il Reuzzo s'era affacciato alla finestra e la vide saltar via come un leprotto: corse in giardino ma era già scappata. Chiamò il giardiniere:
"Quella ragazza, per dove è passata?"
"Che ragazza, Maestà?"
"Quella che coglie i fiori e i frutti nel mio giardino"
"Io non ho visto niente, Maestà, glielo giuro"
"Bene, domani, mi metterò alla posta io".
Difatti, l'indomani, nascosto dietro una siepe, vide la ragazza far capolino tra i mattoni, entrare, riempirsi il grembiule di fiori e frutti fino al petto. Salta fuori e fa per afferrarla, ma lei, svelta come un gatto, salta nel buco del muro, lo chiude con i mattoni ed è sparita. Il Reuzzo guarda il muro da tutte le parti ma non riesce a trovare un punto coi mattoni che si muovono. Aspetta l'indomani, aspetta un altro giorno, ma Ninetta, spaventata d'esser stata scoperta, non si fece calare più nel pozzo. Al Reuzzo quella ragazza era parsa bella come una fata: non ebbe più pace, cadde ammalato e nessuno dei medici del Regno ci capiva niente. Il Re fece un consulto con tutti i medici, i sapienti e i filosofi. Parla questo e parla quello, all'ultimo fu data la parola a un Barbasavio.
"Maestà - disse il Barbasavio - chiedete a vostro figlio se ha una qualche simpatia per una giovane. Perché allora tutto si spiega."
Il Re fa chiamare il figlio e gli domanda: il figlio gli racconta tutto: che se non si sposa questa ragazza non può trovare pace.
Dice il Barbasavio:
"Maestà, fate tre giorni di feste a palazzo, e fate gridare un bando che tutti i padri e le madri d'ogni condizione vi portino le figlie, pena la vita". Il Re approvò e proclamò il bando.
Intanto, il mercante era tornato dal vaggio, aveva fatto smurare le porte, e aveva dato i vestiti a Rosa e a Giovanna, e a Ninetta il ramo di datteri nel vaso d'argento. Rosa e Giovanna non vedevano l'ora che ci fosse un ballo e si misero a cucire i loro vestiti. Ninetta invece se ne stava chiusa col suo ramo di datteri e non pensava a feste né a balli. Il padre e le sorelle dicevano che era matta.




Stephen Mackey



Da Pitrè n. 42



etti pi mia: mi scurdava lu megghiu. Mentri stu mircanti era 'n viaggiu, successi 'na vota ca a la soru granni cci cadíu lu jiditali 'ntra lu puzzu: (cà lu patri cci avia fattu fari un puzzu pi 'un cci ammancari l'acqua). Si vôta Ninetta e cci dici a li soru:
"Picciotti, nun vi 'ngustiati; calatimi 'ntra lu puzzu, e vi lu pigghiu io stu jiditali."
"Tu chi lucchíi?", cci dici la soru granni.
"Sì; io cci vogghiu scinniri a pigghiallu."
Iddi a diri no, idda a diri sì, l'àppiru a calari. Comu Ninetta scinni a tuccari l'acqua, si sbrazza e pigghia lu jiditali, ma comu nesci la manu di l'acqua, s'adduna d'un pirtusu, d'unni vinía lustru. Leva la tistetta di lu muru, e vidi un bellu jardinu, ma un jardinu veru diliziusu, ca cc'eranu tutti sorti di ciuri, d'arvuli e di frutti. Senza sapiri leggiri e scriviri, si 'nfila e si metti a cògghiri li megghiu ciuri, li megghiu frutti e ogni cosa di qualità. Si nni fa 'na falarata nè gattu fu nè dammàggiu fici, trasi 'ntra lu puzzu, metti la tistetta:
"Tiratimi!", e si nn'acchiana frisca comu li rosi. Comu li soru vidinu dda falarata di robba: "Unni li cugghisti tu sti belli cosi?"
"Chi nn'aviti a fari? - rispunni Ninetta - dumani mi calati arreri e pigghiamu lu restu."
Jamu ca lu jardinu era di lu Riuzzu di lu Purtugallu, e lu Riuzzu comu vitti dda gran ruina si misi a fari un gran tempu d'acqua cu lu giardineri. Lu poviru giardineri cci dissi ca di sta cosa 'un nni sapia nenti, ma lu Riuzzu cci ordinau di stari cchiù vigilanti pi l'appressu; masinnò, guai pi iddu.
Lu 'nnumani Ninetta si misi a lenza pi scinniri 'nta lu jardinu. Dici:
"Picciotti, calatimi!"
"Tu chi si' foddi o 'mbriaca?"
"'Un sugnu nè foddi nè 'mbriaca: calatimi."
Iddi a diri no, idda a diri si, l'àppiru a calari. Leva la tistetta, si cala 'nta lu jardinu: ciuri, frutti, nni fa 'na falarata, e si fa tirari susu. Lu Riuzzu si truvò a'ffacciari: e 'mmenzu l'arvuli la vitti filiari: scinni jusu, ma 'un vitti cchiù a nuddu. Chiama lu giardineri:
"D'unni trasíu sta fimmina?"
"Quali fimmina, Maistà?"
"Sta fimmina chi s'ha cugghiutu frutti e ciuri 'nta lu mè jardinu?"
"Io nu nni sacciu nenti, Maistà" e si misi a jurari e spirgiurari ca 'un ni sapia nenti. Lu Riuzzu vitti la sò 'nnuccintitùtini, e si nn'acchianau nna li so' cammari. La 'nnumani si misi a la posta:
"Si tu veni - dissi 'ntra iddu - di li mei granfi nun pôi sgagghiari."
Ninetta, a lu terzu jornu, si metti, a lu solitu, a cutturiari a li so' soru pi calalla: la specia di l'àutri jorna cci avia piaciutu! E iddi a diri no, e idda a diri sì, l'àppiru a calari. Leva la tistetta, si 'nfila 'nta lu jardinu, cogghi li megghiu cosi, cchiù megghiu di l'àutri jorna; si nni fa 'na falarata, si nni jinchi lu pettu, nenti sapennu ca lu Riuzzu era ammucciatu pi idda. 'Nta lu megghiu senti 'na rumurata, si vôta e vidi ca lu Riuzzu s'avia jittatu p'affirralla. Jetta un sàutu nna lu pirtusu, metti la tistetta, e, santi pedi, ajutatimi!  Ddoppu stu fattu, lu poviru Riuzzu 'un appi cchiù paci, e di la pena nni cadíu malatu, pirchì dda picciotta cci parsi 'na vera fata.



Stephen Mackey


Tutti li medici di lu Regnu nuddu avia l'abilità di fallu stari bonu. 'Na jurnata lu Re 'n vidennu ca sò figghiu java pirdennu tirrenu, chiama tutti li savii e filosufi di lu Regnu pi discurriri supra la malatia di lu Riuzzu. Parra chistu, parra chiddu: all'urtimu parra un varvasàviu e dici:
"Maistà, spijati a vostru figghiu si havi quarchi simpatia pi quarchi giuvina; e allura si pensa di 'n'àutra manera."
Lu Re ha fattu chiamari a sò figghiu e cci ha spijatu; e lu figghiu cci cuntau una di tuttu, e cci dissi ca si nun si pigghia a sta picciotta, nun si pò cuitari.
Dici lu varvasàviu:
"Maistà, faciti tri jorna di festa a palazzu, e jittati un bannu ca ogni patri e matri di tutti sorti di pirsuni cci purtassiru a li so' figghi, pena la vita a cui s'ammùccia." Lu Re appruvau, e jittau lu bannu.
Jamu a li figghi di lu mircanti. Comu iddi àppiru ddi vesti chi cci purtò sò patri si li misiru a cusiri pi la prima festa di ballu chi vinia. Ninetta si 'nchiuiju cu la sò grasta, e addiu festi! e addiu divirtimenti! Lu patri e li soru, sta cosa 'un la putianu addiggiriri, ma poi si pirsuasiru ca chista era 'na fuddía, e la lassaru fari. 

(continua)

Dalle Note del Pitrè:

Metti pi mia: In Salaparuta: mentu a mia; in Alimena: menti a o pri mia; ed un amico di là mi scrive: "È quasi un rimprovero che il narratore fa a sè stesso per ricordarsi bene della storiella; infatti l'esclama appunto quando finge o si dimentica veramente del filo da tenere."

Fari un gran tempu d'acqua: lett. piovere a dirotto con lampi e tuoni; ed in senso fig. come qui, fare un casaldiavolo. 

Mittirisi a lenza: mettersi pronto, frase presa in senso fig. dal prepararsi che fa il pescatore prendendo la lenza per pescare.

Filiari: v. intr., aliare, e lo si dice de' conigli quando si va a farne caccia, e se ne intravede saltare qualcuno. Il Principe del Portogallo vide appena aliare la Ninetta in mezzo al giardino.

Varvasàviu: parola composta di varva e saviu, come a dire savio, sapiente, filosofo, di quei dalla barba lunga come ce li offre l'antichità.

Streghe e Guaritori, W.B. Yeats

Streghe e guaritori ricevono il loro potere da dinastie opposte: la strega lo ricava da spiriti maligni e dalla sua stessa perfida volontà; il guaritore dai folletti e da un qualcosa - un certo temperamento - che è innato in lui, o in lei. Le prime sono sempre temute e detestate, dai secondi si va per avere consigli e sono, al massimo, degli imbroglioni.
A volte i più famosi guaritori sono persone che i folletti hanno amato, rapito e tenuto con sé per sette anni; non che i prediletti dei folletti vengano sempre rapiti - possono semplicemente diventare silenziosi e strani, e darsi a vagabondaggi solitari nei luoghi di lorsignori.
Tali individui diventeranno, in seguito, grandi poeti o musicisti, oppure guaritori; non vanno confusi con quelli che hanno una Lianhaun shee [leannàn-sidhe], perché la Lianhaun shee si alimenta degli organi vitali dei suoi prediletti, che così si consumano e muoiono. Essa fa parte dei terribili spiriti solitari.
Da lei sono stati posseduti i più grandi poeti irlandesi, da Oisin in poi, fino al secolo scorso.
Le persone di cui parliamo hanno per amici i folletti in frotte, il popolo allegro e socievole delle fortezze e delle caverne. La loro conoscenza delle erbe e degli incantesimi è grande. Questi dottori vengono interpellati quando il latte non diventa burro o la mucca non dà latte, per scoprire se la causa fa parte del normale corso della natura o se c'è stata qualche stregoneria. Forse qualcuno, con il sistema della mano morta, si è portato il burro alla sua zangola. Qualunque cosa sia, c'è la contro-fattura.
Danno consigli anche in caso di sospette sostituzioni fatate, e prescrizioni contro il colpo del folletto (quando il folletto colpisce qualcuno si forma un tumore, oppure la persona rimane paralizzata. Allora si parla di colpo del folletto o di botta del folletto). Naturalmente essi possono vedere i folletti, e più di una volta hanno intimato al proprietario di demolire una casa appena costruita perché si trovava sul cammino dei folletti.

Lady Wilde ne descrive così uno che viveva sull'Isola di Sark:
"Non ha mai toccato birra, liquori o carne in tutta la sua vita, ma si è nutrito esclusivamente di pane, frutta e verdura. Un tizio che l'ha conosciuto ne parla in questo modo: "Estate e inverno, il suo abito non cambia mai - una semplice camicia di flanella e la giacca. Paga la sua quota quando si organizza una festa ma non mangia né beve il cibo e le bevande che gli vengon messi davanti. Non parla inglese, né mai si riuscirebbe a convincerlo a imparare questa lingua, benché egli dica che essa potrebbe essere usata con grande efficacia per maledire i propri nemici. Considera il cimitero un luogo sacro, e non porterebbe via da una tomba nemmeno una foglia d'edera. È convinto che la gente faccia bene a mantenere le antiche usanze, come quella di non scavare mai una tomba di lunedì e di far fare alla bara tre giri attorno alla fossa seguendo il corso del sole, perché allora i morti riposano in pace. Condivide la credenza popolare secondo cui i suicidi sono maledetti; la gente ritiene infatti che, se un suicida viene sepolto in mezzo ai morti della sua famiglia, questi voltino la faccia.
Anche se di condizione agiata, mai, neppure in giovinezza, ha pensato di prendere moglie, né mai s'è saputo che amasse una donna. Non si lascia coinvolgere dalla vita, e in questo modo mantiene il suo potere sulle forze occulte. Nessuna somma di denaro potrà tentarlo a trasmettere a un altro il suo sapere, perché se lo facesse cadrebbe morto stecchito; così egli crede. Non toccherebbe mai un bastone di nocciolo; porta però una bacchetta di frassino, che tiene nelle mani, appoggiata sulle ginocchia, quando prega; l'intera sua vita è dedicata a opere di bene e di carità e, nonostante ora sia vecchio, non è stato ammalato neanche un solo giorno. Nessuno l'ha mai visto andare in collera, né ha mai sentito uscire dalle sue labbra un'espressione di rabbia se non una sola volta e in quel caso, molto irritato com'era, recitò la preghiera del Signore all'incontrario, in oltraggio al suo nemico. Prima di morire rivelerà il mistero del suo potere, ma non prima di sentire su di sé la mano della morte con assoluta certezza".

Quando lo rivelerà, senza dubbio lo farà a una persona soltanto - il suo successore. Nella contea Sligo esistono parecchi dottori di questo tipo, davvero ricchi di scienza nel campo delle erbe medicinali, e i miei amici ne incontrano anche nelle loro contee. Tutto ciò va avanti allegramente. Invano lo spirito del Tempo ride, quando lui stesso è ormai a un soffio dal tramonto, o sta già tramontando.



Louis Rhead


Gli incantesimi delle streghe sono completamente differenti; hanno l'odore della tomba. Uno dei più potenti è la magia della mano morta. Borbottando le parole magiche mescolano l'acqua di un pozzo con una mano tagliata a un cadavere e raccolgono dalla sua superficie il burro di un vicino.
Una candela tenuta fra le dita della mano morta non può venire spenta. È utile ai ladri; ma anche gli innamorati fanno ricorso alle streghe, perché sanno produrre filtri d'amore facendo seccare il fegato di un gatto nero e triturandolo fino a ridurlo in polvere. Mescolato al tè, e versato da una teiera nera, è infallibile.
Ci sono tante storie sul successo di questo incantesimo in anni molto recenti, ma, sfortunatamente, esso deve essere continuamente rinnovato, o tutto l'amore può trasformarsi in odio.


Stephen Mackey, "The Secret People"


Ovunque però si ritiene che l'elemento centrale della stregoneria stia nella facoltà di assumere delle apparenze contraffatte; in Irlanda, di solito, quella di una lepre o di un gatto. Molto tempo fa il preferito era il lupo.
Prima che Giraldus Cambrensis arrivasse in Irlanda, un monaco che vagava di notte in un bosco si imbatté in due lupi, uno dei quali stava morendo. L'altro pregò il monaco di dare al lupo morente l'ultimo sacramento. Egli disse la messa e si fermò quando giunse al viatico. Il secondo lupo, vedendo questo, strappò la pelle dal petto del compagno morente, mettendo a nudo la forma di una vecchia. Allora il monaco impartì il sacramento. Anni dopo confessò la cosa e, quando Giraldus visitò il paese, era sotto processo da parte del Sinodo dei vescovi. Impartire un sacramento a un animale era un grande peccato. Era un essere umano o un animale? Su consiglio di Giraldus mandarono il monaco, con degli incartamenti che illustravano il caso, dal Papa, perché decidesse. Il risultato non è riportato. Quanto a Giraldus, era dell'opinione che la forma di lupo fosse un'illusione, perché, secondo quanto sosteneva, solo Dio può cambiar forma.
Il suo parere concorda con la tradizione, irlandese e non. È opinione di molti fra coloro che hanno scritto su questi argomenti che la magia consista solo nella creazione di tali illusioni.
Patrick Kennedy racconta la storia di una ragazza che a una fiera osservava un prestigiatore tenendo in mano una zolla d'erba in cui c'era, a sua insaputa, un quadrifoglio. Ora, il quadrifoglio protegge chi lo possiede da tutti i pishogues (incantesimi), e dunque, mentre gli altri fissavano un gallo che camminava sul tetto di una catapecchia portando nel becco una grossa trave, lei domandò loro cosa trovassero di strano in un gallo con un filo di paglia. Il prestigiatore le chiese la zolla d'erba, per darla al suo cavallo, disse. Immediatamente la ragazza gridò terrorizzata che la trave sarebbe caduta uccidendo qualcuno.

Questo, dunque, va ricordato - la forma di una cosa stregata è un'illusione e un capriccio della fantasia.


Stephen Mackey



Nota al Testo:
L'ultimo processo per stregoneria avvenuto in Irlanda - non ce furono mai molti - è così riportato nella History of Carrickfergus di Mac Skimin:
"1711, 31 marzo, Janet Mean, dell'isola di Braid; Janet Latimer, quartiere irlandese, Carrickfergus; Janet Millar, quartiere scozzese, Carrickfergus; Margaret Mitchel, Kilroot; Catharine M'Callmond, Janet Liston, nota anche come Seller, Elizabeth Seller e Janet Carson, le ultime quattro dell'Isola di Magee, furono qui processate, nella corte della contea di Antrim, per stregoneria".
Il reato che veniva loro imputato era di aver perseguitato una giovane, una certa Mary Dumbar di circa diciott'anni d'età, nella casa di James Hattridge, nell'Isola di Magee e negli altri luoghi dove la ragazza era stata portata. I fatti, riferiti sotto giuramento al processo, sono i seguenti:
"Nel mese di febbraio 1711, la persona perseguitata, che si trovava sull'Isola di Magee, nella casa di James Hattridge (che da qualche tempo era ritenuta infestata da spiriti maligni), rinvenne sul pavimento del salotto un grembiule di cui si era notato da tempo la scomparsa, legato con cinque strani nodi che ella sciolse.
Il giorno seguente fu improvvisamente presa da un violento dolore alla coscia e in seguito cadde in preda a convulsioni e delirio; quando si fu ripresa, sostenne d'essere tormentata da alcune donne e ne descrisse minuziosamente gli abiti e l'aspetto. Poco dopo fu nuovamente colta da simili convulsioni e, quando si fu ripresa, accusò altre cinque donne di tormentarla, fornendo anche di queste la descrizione. Fatte venire le accusate dalle diverse parti del paese, la ragazza dimostrò grande paura e sembrò patire maggiori tormenti al loro avvicinarsi. Venne inoltre testimoniato che nella casa si udivano strani rumori, con dei fischi o di uno sgrattare, e che nelle stanze si notava un odore di zolfo; che per la casa venivano gettate pietre, torba e simili e che copriletti eccetera venivano spesso strappati dai letti e disposti in forma di cadavere; che una volta un capezzale uscì da una stanza e andò in cucina indossando una camicia da notte!
Dalle deposizioni risultò anche che durante alcuni dei suoi attacchi tre uomini robusti riuscivano a malapena a tenerla nel letto; che a volte vomitava piume, filato di cotone, spilli e bottoni; e che in una occasione scivolò fuori dal letto e fu adagiata sul pavimento, come sostenuta e trascinata da una forza irresistibile.
La persona perseguitata non fu in grado di rendere alcuna testimonianza al processo, essendo all'epoca muta, ma non ebbe alcun violento attacco per tutta la durata del processo.
A difesa delle accusate, sembrava che esse fossero per lo più persone sobrie e industriose che prendevano parte alle pubbliche funzioni, erano in grado di recitare il Pater Nostro ed erano conosciute per essere persone dedite alla preghiera sia in pubblico che in privato; qualcuna aveva ricevuto la comunione da poco. Il Giudice Upton parlò alla giuria, facendo notare la regolare frequenza delle accusate alle pubbliche funzioni, osservò che riteneva improbabile che delle vere streghe potessero mantenere le consuetudini religiose al punto di seguire il culto di Dio, sia in pubblico che in privato, cosa che era stata provata a favore delle accusate. Concluse esprimendo l'opinione che la giuria non poteva dichiararle colpevoli in base alla sola testimonianza delle immagini visionarie della persona perseguitata. Dopo di lui parlò il Giudice Macarthy, che era di opinione diversa, e riteneva che la giuria potesse, in base alle testimonianze, esprimere verdetto di colpevolezza; il che di fatto fece. Questo processo durò dalle sei del mattino fino alle due del pomeriggio, e le prigioniere furono condannate a dodici mesi di prigione e a venir esposte quattro volte alla gogna di Carrickfergus. La tradizione dice che la gente era esasperata da queste infelici che divennero oggetto, mentre erano alla gogna, di violenti lanci di gambi di cavolo bolliti e simili, e che per questo una di loro perse un occhio.

Da: "Fiabe Irlandesi", W.B. Yeats

sabato 21 febbraio 2015

Gràttula-Beddàttula, Calvino n.148 - (Pitrè n. 42) - Prima Parte

na volta c'era un mercante con tre figlie grandicelle: la prima Rosa, la seconda Giovannina, e la terza Ninetta, la più bella delle tre. Un giorno al mercante capitò un gran commercio e tornò a casa in pensieri.
"Che avete, papà?", chiesero le ragazze.
"Niente, figlie mie: mi càpita una gran mercanzia, e non posso andarci per non lasciarvi sole."
"E vossignoria si confonde? - gli disse la grande - Vossignoria faccia la provvista per tutto il tempo che avrà a stare lontano, faccia murare le porte con noi dentro e ci vedremo quando piace a Dio".
Così fece: il mercante comprò provviste di cose da mangiare in quantità, e diede ordine a uno dei suoi servi che ogni mattina chiamasse dalla strada la figlia più grande e le facesse le commissioni.
Salutandole, chiese:
"Rosa, cosa vuoi che ti porti?"
E lei:
"Un vestito color del cielo"
"E tu, Giovannina?"
"Un vestito color dei diamanti"
"E tu, Ninetta?"
"Io voglio che vossignoria mi porti un bel ramo di datteri in un vaso d'argento. E se non me lo porta, che il bastimento non possa più andare né avanti né indietro."
"Ah, sciagurata - le dissero le sorelle - ma non sai che puoi mandare a tuo padre un incantesimo?"
"Ma no - disse il mercante - non ve la prendete con lei, che è piccola e si deve lasciar dire".
Il mercante partì e sbarcò al posto propizio.
Fece quel gran negozio, e poi pensò a comprare il vestito per Rosa e il vestito per Giovanna, ma del ramo di datteri per Ninetta si dimenticò. Quando s'imbarca e si trova in mezzo al mare, gli arriva una terribile tempesta: saette, lampi, tuoni, acqua, marosi, e il bastimento non poteva andare più nè avanti nè indietro.



G. Spirin, "La Tempesta"


Il capitano si disperava. "Ma da dov'è uscito questo temporale?"
Allora il mercante che s'era ricordato l'incantesimo della figlia disse:
"Capitano, mi son dimenticato di fare una commissione. Se vogliamo salvarci, voltiamo il timone."
Ciò è che non è, appena voltarono il timone il tempo cambiò, e col vento in poppa tornarono al porto. Il mercante scese, comprò il ramo di datteri, lo piantò in un vaso d'argento e tornò a bordo. I marinai alzan le vele, e in tre giorni di viaggio tranquillo il bastimento arrivò a destinazione.


Da Pitrè n. 42



a vota cc'era un mircanti; stu mircanti avia tri figghi fimmini, ca eranu spuntuliddi: la cchiù grànni si chiamava Rosa, la mizzana Giuvannina, e la nica Ninetta, ed era la cchiù bedda di tutti. 'Na jurnata a stu mircanti cci veni di fari 'na gran mircanzia, e s'arricogghi a la casa siddiatu.
"Chi havi papà?", cci dicinu li figghi.
"Nenti, figghi mei: mi veni 'na gran mircanzia, e nun pozzu falla pi 'un lassari a vuàtri suli."
"E vassía chi si cunfunni? - cci dici la granni - vassía nni fa la pruvista pi tuttu lu tempu ch'havi a mancari: nni fa murari li porti, e quannu piaci a Diu nni videmu cu saluti".
Lu patri accussì fa: cci fa pruvisti di manciarizzi 'n quantitati, e poi cci ordina a unu di li so' criati ca ogni matina s'affacciassi di la vanedda, chiamassi a la cchiù granni di li so' figghi, e cci facissi tutti li survizza di fora. Poi si licinziau, e cci dissi a la figghia granni:
"Rosa, tu chi vôi purtatu?"
"Tri bell'àbbiti di culuri diffirenti", cci arrispunni idda.
"Tu Giuvannina?"
"Zoccu voli vassía".
"E tu Ninetta?"
"Io vogghiu purtata 'na bella rama di gràttuli 'nta 'na grasta d'argentu; e si vassía 'un mi la porta, chi lu bastimentu 'un pozza jiri nè nn'avanti, nè nn'arreri".
"Ah sbriugnata! - cci dicinu li soru - sta sorti di gastima cci manni a tò patri?"
"Nenti - rispunni lu patri - nun vi nni faciti, ca è picciridda, e s'havi a cumpàtiri". Dunca lu patri si licenzia e parti e junci a lu paisi prupiziu; fa lu gran niguziuni: e poi pensa d'accattari tri bell'àbbiti pi Rosa, tri bell'àbbiti pi Giuvannina; e chi si scorda? la rama di gràttuli pi Ninetta. Comu si 'mmarca e si trova 'mmenzu mari, si nni veni 'na timpesta tirribbili: saitti, lampi, trona, acqua, marusu, ca lu bastimentu 'un potti jiri cchiù nè nn'avanti nè nn'arreri.
Lu capitanu si metti a dispirari; e dici:"E stu malu timpuni unn'era 'nfilatu!"; ma lu mircanti arrigurdannusi di la gastìma di sò figghia, cci dici:
"Capitanu, io mi scurdavi di accattari 'na cosa. Sapiti chi vi dica? puggiamu, e comu arrinesci si cunta". Ma chi fu, miraculu?! Comu puggiaru, cància lu tempu, e si nni vannu cu lu ventu 'n puppa. Lu mircanti scinni 'n terra, accatta la rama di gràttuli, la chianta 'nta 'na grasta d'argentu, e torna a bordu. Li marinara si mettinu a la vila, àppiru lu bellu viaggiu, e ddoppu tri jorna junceru a lu sò paisi.Comu lu mircanti fu a la sò casa fici smurari li porti, grapíu li finistruna, e poi cci detti a li figghi: a Rosa e a Giuvannina li vesti, e a Ninetta la rama di li gràttuli 'nta la grasta d'argentu.

(continua)

L'inizio è simile a quello de "La Bella e la Bestia", anzi è l'inizio de "La Bella e la Bestia" che è stato pescato pari pari  da queste Cenerentole. La maledizione della figlia - perché tale è, e non l'"incantesimo" Calviniano - viene graziosamente tralasciata altrove: spesso, la tempesta che blocca la nave è un segno soprannaturale della "colpa" paterna. Il mercante, riconosciuto come il reprobo che ha scatenato l'ira degli elementi, rischia addirittura di essere gettato in mare.
Gli interventi di Calvino, in questa prima parte, sono veniali, anche se inspiegabili. Tranne l'ultimo: come vedete, Pitrè chiude il cerchio del racconto con il ritorno a casa.  Introdurrà ciò che è successo durante l'assenza del mercante con un intervento diretto del narratore, tipico di un racconto orale. Calvino sistema a modo suo la cronologia, cercando la coerenza ai danni della freschezza.

Il motivo delle figlie murate in casa mentre il padre è in viaggio ricorre nelle fiabe popolari e nelle fiabe-novelle di tutt'Italia (sic!).

venerdì 13 febbraio 2015

La "Cenerentola" Pupazza di Anna Abigail Brahms

Una volta - credo - ho detto quanto io trovi brutte, spesso imbarazzanti, le pupattole-tipo-presepe-vivente, ma, quando sottolineano il lato grottesco (ripercorrendo stereotipi alla Disney più che la tradizione. Esempio: matrigna e sorellastre sono sempre bellissime nelle fiabe popolari), possono essere carine. Sono "altro", ma sono carine.
Di: Anna Abigail Brahms































Da Leggere in un Giorno in cui Vorresti Estinguerti...

Da leggere in un giorno in cui vorresti estinguerti, per sorprenderti a desiderare di essere una fervente credente e poter ringraziare Qualcuno per quel neurone in più, magari fonte di dolore, ma che ti fa anche amare "Guerra e Pace".

"Questo libro è un vecchio tronfio pezzo di merda. Prima di tutto mi risulta incomprensibile come abbiano potuto pubblicarlo, e ancora meno capisco come lo si sia potuto considerare un “classico” per anni. Avevo letto che si trattava di 1400 pagine in cui Tolstoj dava ai suoi lettori un asciutto, noioso resoconto dell’invasione francese in Russia ma non ci ho creduto. Vorrei averlo fatto. Non solo Guerra e pace è una soporifera lezione su un numero esorbitante di prospettive di questa guerra, ma vi si aggiungono le intrusioni degli interminabili capitoli che Tolstoj usa per imporci la sua opinione sulla Francia, Napoleone, la Russia medesima, la religione, la politica, l’amore, la famiglia e qualunque altra cosa che a quanto pare gli è venuta in mente. È peggio di un libro di testo. È un libro di testo con un fastidioso e presuntoso professore all’interno! Le uniche parti leggermente interessanti in questo libro sono le vite di Helene e Natasha e stiamo parlando forse del 15% del totale. È un libro così brutto che ha due epiloghi. Ce ne dovrebbe essere abbastanza per avvertirvi di stare molto, molto alla larga da Guerra e pace. Non siate stupidi come me. Vorrei non averlo mai letto. Sono una persona più arrabbiata e più cinica per colpa sua. Se Tolstoj non fosse già morto, vorrei che lo fosse."




Da: Lo Stroncatore - La critica letteraria ai tempi di internet - Recensioni dalla rete

giovedì 5 febbraio 2015

Cenerentola, Grimm n.21 (Traduzione Mia)

'era una volta un uomo molto ricco. Sua moglie si ammalò e, sentendo appressarsi la fine, chiamò al proprio capezzale l'unica figlia e le disse:
"Bambina mia, sii sempre buona e virtuosa, così il buon Dio si prenderà cura di te, e io ti guarderò dal Paradiso e ti sarò vicina."
Ciò detto, chiuse gli occhi e spirò. La fanciulla visitava ogni giorno la tomba della madre, la piangeva, ed era sempre buona e virtuosa. Si era d'inverno, e la neve ricopriva la tomba con un candido drappo, e, quando il primo sole primaverile l'ebbe sciolto, l'uomo si riammogliò.

Liga Klavina


La nuova sposa aveva due figlie che condusse con sé, e queste fanciulle erano tanto belle e bianche di viso quanto brutte e nere di cuore, e per la figliastra incominciarono tristi giorni.
"Deve proprio stare qui in salotto con noi? - dissero - Se vuole mangiare il nostro cibo dovrà guadagnarselo! Fila via, sguattera!"
Le tolsero i suoi begli abiti, e le gettarono un vecchio grembiale grigio e un paio di zoccoli di legno. "Ma guarda un po' come si è conciata la nostra principessina!", le gridarono dietro, deridendola, e la confinarono in cucina, dove si spaccava la schiena da mane a sera: si alzava molto prima del sorgere del sole, attingeva l'acqua, accendeva il fuoco, rigovernava e faceva il bucato. Come se non bastasse, le sorellastre non le risparmiavano alcun tormento, la schernivano, e mescolavano ceci e lenticchie nella cenere, costringendola a  raccoglierli uno per uno. La sera, stanca morta dopo una giornata di duro lavoro, non aveva un letto in cui riposare, ma doveva coricarsi accanto al focolare. E, poiché era sempre sporca di cenere e fuliggine, presero a chiamarla Cenerentola.


Prinsep V.C


Un giorno, il padre si recò alla fiera, e, prima, chiese alle sue figliastre cosa desideravano.
"Abiti eleganti", disse la prima.
"Perle e pietre preziose", disse l'altra.
"E tu, Cenerentola - chiese il padre - che cosa vuoi?"
"Il primo ramo che toccherà il vostro cappello sulla via del ritorno," rispose Cenerentola.
E l'uomo comprò abiti eleganti, perle e pietre preziose per le figliastre; e sulla via del ritorno, mentre cavalcava per un viottolo di campagna, un ramo di nocciòlo gli fece cadere il cappello. Allora, egli tagliò il ramo e, giunto a casa, diede alle figliastre ciò che avevano chiesto, e consegnò a Cenerentola il ramo di nocciòlo. Cenerentola lo prese, andò a piantarlo sulla tomba della madre, e lo innaffiò con le sue amare lacrime, e il ramo attecchì, crebbe e divenne un bell'albero.
Tre volte il giorno, Cenerentola si recava sulla tomba, piangeva e pregava, e, ogni volta, un uccelletto bianco appariva su un ramo dell'albero e le regalava qualsiasi cosa desiderasse.
Accadde che il Re decidesse di dare un gran ballo, della durata di tre giorni, e a cui avrebbero partecipato le più belle fanciulle del Paese perché suo figlio potesse scegliersi una sposa.
Non appena le due sorellastre ebbero l'invito, chiamarono Cenerentola e le dissero: "Acconciaci i capelli, lucida a specchio le nostre scarpine e assicura i ganci dei nostri corsetti ché andiamo al gran ballo del Re."
Cenerentola scoppiò a piangere perché anche lei desiderava andare al ballo, e supplicò la matrigna di accordarle il permesso.
"Cosa cosa? - le rispose la donna - Tu, Cenerentola? Tu, sempre sporca di cenere e fuliggine, vorresti andare al gran ballo? Ma se non hai neanche un abito e degli scarpini decenti!" E, poiché Cenerentola insisteva, la matrigna, infine, disse:
"Ho rovesciato nella cenere un piatto di lenticchie, e se, entro due ore, le raccoglierai tutte, avrai il permesso di venire con noi".
Allora, la fanciulla si affacciò alla porta sul retro, che dava sul giardino, e invocò: "O gentili colombe, o tortore, e voi tutti, uccellini del cielo, le lenticchie dalla cenere a beccare scendete: le buone nel piatto mettete e le cattive mangiate, se volete."
E, subito, dalla finestrella della cucina, entrarono due bianche colombe, e poi delle tortorelle, e, infine, un nùgolo di tutti gli uccellini che volano in cielo, cinguettando e battendo le ali, si posarono nella cenere. E le colombe annuirono con le loro testoline ed incominciarono a beccare e a raccogliere: bècca e piglia, bècca e piglia, e anche gli altri uccelletti, bècca e piglia, bècca e piglia, e, raccolsero nel piatto tutti i chicchi buoni. Non era passata neanche un'ora che avevano bell'e finito e se ne volarono via. Allora, Cenerentola, fuor di sé dalla contentezza, prese il piatto di lenticchie e lo consegnò alla matrigna, sicura che avrebbe avuto il permesso di recarsi al ballo. Ma quella disse:
"No, Cenerentola, non hai un abito decente e non sai ballare: ti riderebbero dietro!", e, quando Cenerentola scoppiò a piangere per la delusione, promise:
"Se raccoglierai dalla cenere due piatti di lenticchie belle e mondate, potrai venire con noi", e, tra sé e sé, pensava:'Tanto, non ci riuscirà mai!'
Non appena la matrigna ebbe versato due piatti di lenticchie nella cenere, la fanciulla si affacciò alla porta sul giardino e invocò:
"O gentili colombe, o tortore, e voi tutti, uccellini del cielo, le lenticchie dalla cenere a beccare scendete: le buone nel piatto mettete e le cattive mangiate, se volete."


Sanderson R.



E, subito, dalla finestrella della cucina, entrarono due bianche colombe, e poi delle tortorelle, e, infine, un nùgolo di tutti gli uccellini che volano in cielo, cinguettando e battendo le ali, e si posarono nella cenere. E le colombe annuirono con le loro testoline ed incominciarono a beccare e a raccogliere: bècca e piglia, bècca e piglia, e anche gli altri uccelletti, bècca e piglia, bècca e piglia, e, raccolsero nei piatti tutti i chicchi buoni. Non era passata neanche una mezz'ora che avevano bell'e finito, e se ne volarono via.
Allora la fanciulla, tutta contenta, portò i piatti alla matrigna, convinta di poter andare al ballo, ma la matrigna le disse:
"Non ti è servito a nulla! Tu non vieni con noi perché non hai un bell'abito e non sai ballare: ci ricopriresti di vergogna". Ciò detto, le voltò le spalle e si precipitò fuori di casa con le sue figlie superbiose.
Non appena fu sola in casa, Cenerentola si recò sulla tomba della madre, sotto l'albero di nocciòlo, e gridò:
"Scrollati, scrollati, alberello, e d'oro e d'argento ricoprimi tutta!"
Allora, l'uccello le gettò un abito d'oro e d'argento, e un paio di scarpette ricamate di seta e d'argento.



Liga Klavina


In fretta e furia, Cenerentola indossò la bella veste e si recò al gran ballo. Tanto era bella nel suo abito d'oro che la matrigna e le sorellastre non la riconobbero, supponendo che fosse una principessa straniera. Non pensarono affatto che potesse trattarsi di Cenerentola, convinte che se ne stesse a casa a cercar lenticchie nella cenere. Il Principe le andò incontro, la prese per mano e danzò con lei. E non avvicinò nessun'altra per non doverle lasciare la mano, e, se qualcuno la invitava, diceva: "No. E' la mia ballerina."
Quando Cenerentola, dopo aver danzato fino a tardi, volle accomiatarsi, il Principe disse: "Ti accompagno" perché voleva scoprire a quale famiglia appartenesse la bella fanciulla, ma, una volta a casa, Cenerentola gli sfuggì e saltò nella piccionaia.
Il Principe, allora, attese il ritorno del padre e gli disse che la fanciulla sconosciuta del ballo era saltata nella sua piccionaia.
Il padre si disse: che sia Cenerentola? Si fece portare un'accetta e un piccone e buttò giù il muro della piccionaia, ma non c'era nessuno.
E, quando rientrarono in casa, Cenerentola sedeva nella cenere, con i suoi cenci sudici, alla debole luce di una piccola lampada ad olio: era saltata velocemente fuori dal retro della piccionaia e si era precipitata sulla tomba materna, dove aveva deposto il suo bell'abito, che l'uccello aveva ripreso. Poi, indossato il brutto grembialaccio grigio, era andata ad accovacciarsi nella cenere del focolare.
Il giorno dopo, quando il gan ballo ricominciò e i genitori e le sorellastre uscirono, lasciandola sola, Cenerentola corse sotto il nocciòlo e gridò:
"Scrollati, scrollati, alberello, e d'oro e d'argento ricoprimi tutta!"
Allora l'uccello le gettò un abito ancora più splendido del precedente.


Liga Klavina


Quando comparve al ballo, gli invitati rimasero abbagliati dalla sua bellezza e dalla sua eleganza. Il Principe, che aveva atteso il suo arrivo, la prese per mano e danzò solo con lei, e, se la invitavano gli altri, diceva: "No. Lei è la mia ballerina."
Quando, a tarda notte, Cenerentola lasciò il ballo, il Principe la seguì per scoprire dove abitasse, ma la fanciulla gli sfuggì balzando nell'orto dietro casa, dove c'era un imponente pero da cui pendevano magnifici frutti: svelta svelta, ella vi si arrampicò e il Principe non riusciva a capacitarsi dove fosse sparita.
Attese il ritorno del padrone di casa e gli disse: "La fanciulla sconosciuta del ballo mi è sfuggita e credo che si sia arrampicata sul pero."
L'uomo pensò: che sia Cenerentola? Mandò a prendere l'ascia e abbatté l'albero, ma non c'era nessuno. E, quando entrarono in cucina, Cenerentola sedeva come il solito nella cenere: era saltata giù dall'altra parte dell'albero, aveva restituito la bella veste all'uccello del nocciòlo, e aveva indossato il vecchio grembiale grigio.
Il terzo giorno, non appena i genitori e le sorellastre uscirono per recarsi al ballo, Cenerentola tornò alla tomba di sua madre e disse all'albero di nocciòlo: "Scrollati, scrollati, alberello, e d'oro e d'argento ricoprimi tutta!"
Allora, l'uccello le gettò un terzo abito - e questo era di una magnificenza mai vista - e un paio di scarpini d'oro.


Liga Klavina


Al suo ingresso al gran ballo, gli invitati ammutolirono per la meraviglia. Il Principe danzò solo con lei, e, se altri la invitavano, egli diceva: "No. E' la mia ballerina."
A tarda notte, Cenerentola lasciò il Palazzo; il Principe tentò di seguirla, ma ella gli sfuggì. Perse, però, la scarpetta sinistra, poiché il Principe aveva fatto spalmare lo scalone di pece e la scarpa vi rimase appiccicata. Egli la raccolse, e vide che era piccolissima e tutta d'oro. Il giorno seguente, si recò dal padre di Cenerentola e disse:
"Sposerò solo colei alla quale questa scarpetta d'oro calzerà a pennello."
Le due sorellastre si rallegrarono perché avevano un bel piedino. La maggiore salì in camera sua e provò a calzare la scarpetta, mentre sua madre guardava.
Ma la scarpa era troppo stretta e il suo grosso alluce proprio non ci entrava; allora la madre le porse un coltello e disse: "Tagliati il dito: quando sarai Regina, non avrai più bisogno di andare a piedi."
La fanciulla si mozzò il dito, infilò il piede nella scarpa e andò dal Principe. Egli mise sul cavallo la sua sposa e partì con lei. Ma dovettero passare davanti alla tomba della madre di Cenerentola; sul nocciòlo erano posate due colombe che gridarono: "Guarda bene la sposina: ha del sangue nella scarpina, per il suo piede è troppo stretta. La vera sposa è in casa che ti aspetta."
Allora egli le guardò il piede e vide sgorgare il sangue. Voltò il cavallo, riportò a casa la falsa sposa e disse: "Questa non è la vera sposa; che l'altra sorella provi la scarpina."
La minore andò in camera: riuscì a infilare le dita nella scarpa, ma il calcagno era troppo grosso. Allora, la madre le porse un coltello e le disse: "Tagliati un pezzo di calcagno: quando sarai Regina non avrai bisogno di andare a piedi." La fanciulla si tagliò un pezzo di calcagno, infilò il piede nella scarpa e andò dal Principe. Questi mise sul cavallo la sposa e andò via con lei. Ma quando passarono davanti al nocciòlo, le due colombe gridarono: "Guarda bene la sposina: ha del sangue nella scarpina, per il suo piede è troppo stretta. La vera sposa è in casa che ti aspetta."
Egli le guardò il piede e vide il sangue sprizzare nella scarpetta, macchiando di rosso le calze bianche. Allora, voltò il cavallo e riportò a casa la falsa sposa. "Questa non è la vera sposa - disse - Non avete un'altra figlia?"
"No - rispose l'uomo - la moglie che è morta mi ha lasciato una misera Cenerentola,  non può essere lei la sposa che cercate!."
Il Principe gli chiese di mandarla a chiamare, ma la matrigna esclamò:
"Ah no, è troppo sudicia, non può farsi vedere."
Ma egli non intese ragioni e dovettero chiamare Cenerentola. Ella si lavò ben bene le mani e il viso, poi andò e si inchinò davanti al Principe, che le porse la scarpina d'oro. Allora, ella sedette su di uno sgabello, si sfilò dal piede il pesante zoccolo di legno, e calzò la scarpina, che le stava a pennello. E, quando si alzò, il Principe riconobbe in lei la bella fanciulla del ballo, e disse: "Questa è la vera sposa!"


Adolf Munzer


La matrigna e le sorellastre, atterrite, impallidirono di rabbia, ma egli mise Cenerentola sul suo cavallo e se ne andò con lei. Quando passarono davanti al nocciòlo, le colombe bianche gridarono: "Guarda bene la sposina, non c'è sangue nella scarpina. La scarpina le va a pennello. Porta la sposa nel tuo Castello." E, dopo aver detto queste parole, planarono giù dal nocciòlo e si appollaiarono sulle spalle di Cenerentola, una a destra e l'altra a sinistra.


Daniela Drescher


Il giorno delle nozze, si presentarono anche le perfide sorellastre: volevano entrare nelle grazie di Cenerentola e approfittare della sua fortuna. All'ingresso del corteo nuziale in chiesa, la maggiore delle sorellastre incedeva a destra di Cenerentola, la minore alla sua sinistra. Allora, le colombe creparono l'occhio destro alla maggiore e il sinistro alla minore. All'uscita, la maggiore era a sinistra e la minore a destra, e le colombe creparono a ciascuna l'altro occhio. E fu così che, a causa della loro malvagità e della loro falsità, esse trascorsero nelle tenebre il resto della loro vita.

Grimm n.21, "Aschenputtel".
Classificazione: Aa Th 510A
Traduzione: Mab's Copyright

Il testo in lingua originale è nella Pagina: "Brüder Grimm"