martedì 11 giugno 2013

I Misteri delle Danze Notturne

Non è una fiaba diffusa in Italia, né in tutta l'area del Mediterraneo, non compare nella Madre di Tutte le Fiabe, il Pentamerone, e neanche, molto più modestamente, nella raccolta di Calvino. Ma, in generale, in Europa, non ho trovato molte versioni: soprattutto, non esistono significative varianti.
Alcune costanti:

1) Il padre delle “ballerine” è quasi sempre un re, o, comunque, un uomo facoltoso e potente nella sua comunità. All'interno delle dinamiche fiabesche, invece, ha un ruolo passivo, come molti “colleghi”. Pensiamo al padre della crudele Principessa degli Indovinelli. Si limita a fare il boia delle vittime della sua capricciosa ed incontrollabile prole.

2) Il “ballo”, anzi, le forsennate feste danzanti a cui le principesse partecipano ogni notte si svolgono immancabilmente nel Regno Sotterraneo, nell'altro Regno.

3) A parte la famosa e scontata simbologia del ramo d'oro strappato nell'altro regno e portato come prova del “viaggio”, il Reame sotterraneo è un reame pietrificato, in cui il sole non penetra, in cui regna una eterna notte illuminata da globi d'oro e di diamanti che mimano la Luna e le Stelle, e gli alberi non sono che raffigurazioni preziose della natura terrestre. (Il viaggio in barca ne “Il Fantasma dell'Opera”, tra torce che s'accendono sulle acque scure di un improbabile lago sotterraneo mi ha sempre ricordato questa fiaba).

4) E' costante l'atteggiamento delle principesse, e, di conseguenza, la loro natura. Teoricamente, vittime passive, prigioniere di un malefico quanto misterioso sortilegio (non se ne spiega mai l'origine), sono, in realtà, estremamente lucide e determinate nel nascondere le fughe notturne che attendono con ansia e per cui si preparano lietamente. Il nemico non è il misterioso “zar stregato” del Mondo sotterraneo, ma il povero soldato che tenta di svelare il segreto e sciogliere l'incantesimo. La sorella maggiore è guida e custode. Tutte, lei in particolare, sembrano indifferenti alla sorte dei malcapitati che hanno pagato con la vita il tentativo di liberarle. Trattano il soldato con divertito disprezzo e ironica pietà. E ostentano gran divertimento nell'ingannarlo, pur sapendo di condannarlo a morte certa. Infine, una volta scoperte, sembrano più rassegnate al loro destino che sollevate.

5) I principi “danzanti”.
In alcune versioni sono anch'essi vittime d un incantesimo speculare a quello che lega le principesse, per cui, sciolto il sortilegio, le sposano. In altre, non se ne parla affatto. In altre ancòra, sicuramente le versioni più antiche, vengono giustiziati in quanto carnefici o complici e non vittime, evidentemente.

6) Torno all'affermazione iniziale: non è un motivo fiabesco diffuso in Italia. Questo si limiterebbero a sottolineare i noiosi ragionieri della Fiaba, chiudendo qui il discorso (e il cervello). Se non leggessero sempre gli stessi libri e non si limitassero a classificazioni partorite da altri, magari racconterebbero una storia popolare molto diffusa in tutta Italia, una storia di streghe.
In questo tipo, il ruolo del povero soldato è ricoperto da un ragazzo di paese caduto nei lacci seduttivi di una bella ragazza “chiacchierata”. Spesso, la ragazza abita in un paese vicino ed impone al fidanzato di non farle visita in determinate sere della settimana, il che suscita i suoi primi sospetti. Poi, qualche anziano lo spinge a spiare la sua fidanzata per scoprire cosa faccia nelle sere che gli sono interdette. [Ed entriamo nel tipo “La Moglie Strega” di cui ho già postato un paio di esempi: l'ignaro marito che spia la moglie nelle sue fughe notturne e finisce per seguirla al sabba].
Torniamo al fidanzato.
Scopre che la ragazza, nottetempo, sale su di una barca senza remi né barcaiolo, in compagnia di altre donne ( due o sei), e salpa per lidi ignoti. Il ragazzo decide di seguirla, e, una notte, si nasconde nella barca prima dell'arrivo delle donne. C'è sempre una strega che guida il drappello e che si installa a prua gridando.” Barca, va' per tre (o “per sette”)!”, e la barca vola velocissima sulle acque. Naturalmente, la notte in cui l'intruso è a bordo, la barca non si sposta di un millimetro. La strega-capo, allora, si rivolge immediatamente alle compagne di viaggio: “Qualcuna di voi è incinta?” ... Perché la matematica non è un'opinione e perché le streghe hanno un grande spirito pratico.
Non c'è lieto fine. Scoperta la natura della ragazza, il fidanzato sparisce.

7) E, a proposito di “compagne di viaggio”, la principessa delle fiabe del tipo “Il Morto Riconoscente” (insieme con le fanciulle-zar assassine di molte fiabe russe), quella pazza d'amore per il ripugnante stregone (o drago, o serpente, o ghoul...) o la principessa de "Il Compagno di Viaggio", di H.C. Andersen, che, munita di grandi ali nere, vola nella notte per raggiungere il suo amante, è strettamente imparentata alle principesse danzanti, anche se è tutto più esplicito. Quanto può essere esplicita una fiaba.



Le Cain E.

Ma esistono anche eroine liberatrici di principi stregati (e non parliamo del solito Sposo Animale). Sono senza dubbio le versioni più antiche di questo tipo fiabesco. E' sempre così. Ci sono delle differenze: i principi sono (o sembrano) realmente vittime passive di un incantesimo. E si comportano come tali. E le cose vengono chiamate con il loro nome. Pensate al “Palazzo dell'Omo Morto”, fiabe estreme, in cui, fuor di metafora, l'Eroina veglia un uomo morto, il solito principe stregato, non un Bello Addormentato. Perché la Bella Addormentata è una morta, esattamente come Biancaneve. Ma questa è un'altra storia.
In questo Blog, ho postato due fiabe riconducibili al tema: una piccola fiaba siciliana raccolta dal Pitrè,  "Le Mie Tre Belle Corone", e una fiaba dalla raccolta di Calvino, di cui esiste anche una variante siciliana, sempre segnalata dal Pitrè, "Il Pappagallo".

Mab's Copyright

Le Danze Notturne, Russia (Afanas'ev)

'era una volta un Re che era vedovo e che aveva dodici figlie, una più bella dell'altra. Ogni notte queste principesse uscivano e non si sapeva dove andavano, solo che consumavano un paio di scarpe a notte. Il Re non faceva in tempo a far confezionare loro scarpe a sufficienza e avrebbe tanto voluto sapere dove andavano e cosa facevano. Allestì dunque un banchetto, invitò da ogni parte del mondo re e principi, nobili e mercanti e gente semplice e domandò:” Qualcuno di voi è in grado di risolvere questo enigma? Chi riuscirà nell'impresa avrà in moglie la mia figliola preferita e in più la metà del mio regno”. Nessuno si decideva ad assumersi l'incarico di scoprire dove andassero, di notte, le principesse, si fece allora avanti un nobile povero. “Maestà, indagherò io.” “Va bene, allora indaga tu!” Dopo un po' però il nobile povero ci ripensò:' Cos'ho fatto! Ho deciso di propormi io e non so neanche dove sbattere la testa. Se fallirò, il re mi farà passare per le armi'. Uscì da palazzo e si allontanò dalla città; mentre camminava s'intristiva sempre più; gli venne incontro una vecchia che gli chiese:” Perché, buon giovine, sei così assorto?”.
Quello rispose:” E come potrei non essere assorto? Mi sono impegnato col re a scoprire dove vanno di notte le sue figlie”.
“ Non è una faccenda facile, ma è possibile scoprirlo. Eccoti un cappello invisibile, con questo potrai vedere molte cose, ma ricordati: quando ti coricherai, le principesse ti daranno da bere delle gocce di sonnifero; tu non berle, girati verso il muro e gettale nel letto!”. Il nobile povero ringraziò la vecchia e tornò a palazzo. La notte era ormai vicina; gli assegnarono una stanza vicina a quella in cui dormivano le principesse. Egli si sdraiò sul letto e si mise in guardia. Una delle principesse gli portò allora delle gocce di sonnifero sciolte nel vino e gli chiese di bere alla sua salute. Non potendo rifiutare egli prese il bicchierino, si girò verso il muro e versò tutto nel letto. A mezzanotte in punto le principesse vennero a vedere se dormiva. Il nobile povero aveva l'aria di chi se la dorme profondamente, senza possibilità di risveglio, mentre in realtà stava attento al più piccolo rumore.
“ Ebbene, sorelle, la nostra guardia si è addormentata, possiamo andare alla festa!”
“ E' ora, è ora!”
Indossarono i loro abiti più belli, poi la maggiore si avvicinò al suo letto, lo spinse un po' e, improvvisamente, si aprì un varco al regno sotterraneo, dallo zar stregato. Cominciarono a scendere una scala; il nobile povero si alzò piano piano dal letto, indossò il cappello invisibile e le seguì. Involontariamente, mise un piede sul vestito della sorella minore; lei si spaventò e disse alle sorelle: “Ehi, sorelle, mi pare che qualcuno mi abbia pestato il vestito; è un brutto segno!”.
“ Ma no, non succederà nulla!”.
Scesero le scale e arrivarono in un boschetto dove crescevano fiori d'oro. Il nobile povero spezzò un ramo e tutto il boschetto si mise a stormire.
“ Ehi, sorelle – disse la più giovane – c'è qualcosa che non promette nulla di buono! Sentite come stormisce il boschetto!”.
“ Non temere, è la musica dello zar stregato!”.
Arrivarono al palazzo e lo zar andò loro incontro con tutta la sua corte; iniziò la musica e presero avvio le danze; danzarono fino a che le scarpe non furono del tutto consumate. Lo zar ordinò allora di versare del vino e di distribuirlo agli ospiti. Il nobile povero prese un calice dal vassoio,bevve il vino e si ficcò in tasca il calice. La festa finì; le principesse si congedarono dai loro cavalieri e promisero di tornare la notte successiva. Poi andarono a casa, si spogliarono e andarono a letto.


Long L.


Al mattino il re convocò il nobile povero e gli chiese:
“ Allora. Sei riuscito a scoprire dove sono andate le mie figlie?”
“ L'ho scoperto, Maestà!”
“ Ebbene, dov'è che vanno?”
“ Vanno nel regno sotterraneo, dallo zar stregato, e lì danzano tutta la notte”.
Il re fece chiamare le figlie e cominciò a interrogarle: “ Dove siete state questa notte?”
Le principesse ostinatamente rispondevano:” Da nessuna parte!”
“ Ma non siete state dallo zar stregato? C'è qui il nobile povero che lo sostiene, che dice di avervi colto in flagrante.”
“ Ma come fa ad averci colto in flagrante, se ha dormito tutta la notte come un sasso!”
Il nobile povero prese dalla tasca il fiore d'oro e il calice ed esclamò:” Eccola, la prova lampante!”. C'era poco da fare, a quel punto. Le principesse ammisero tutto davanti al padre; il re ordinò che fosse tappato con la terra il passaggio al regno sotterraneo, diede in moglie la figlia minore al nobile povero e vissero tutti quanti felici e contenti.

Afanas'ev n.298
Traduzione di Eridano Bazzarelli, Emanuela Guercetti, Erica Klein.

Il Pappagallo, Storia di una Principessa Esorcista, da Calvino

'era un volta un Re che aveva una figlia. Era figlia unica, senza fratelli né sorelle e non aveva con chi giocare. Allora le fecero una bambola grande quanto lei, col viso come lei, vestita come lei. Dappertutto dove andava si portava dietro questa bambola e non si capiva chi era lei e chi era la bambola. Un giorno mentre il Re con la figlia e la bambola andavano in carrozza per un bosco, li assaltarono i nemici e ammazzarono il Re e portarono via la figlia, e la bambola rimase nella carrozza abbandonata. La ragazza si mise a piangere così forte, che i nemici preferirono lasciarla andare e così lei se ne andò sola per il bosco. Arrivò alla Corte d'una Regina e ci si mise a servizio. Era tanto brava, che la Regina le si affezionò.


Abbey E.A.


Le altre serve cominciarono a portarle invidia e per farla cadere in disgrazia le dissero: "Sai, la padrona ti vuol proprio bene e ti dice tutto; ma non t'ha detto una cosa che noialtre sappiamo e tu no: cioè che aveva un figlio che è morto".
La ragazza allora andò dalla Regina e le disse: "Maestà, è vero che lei aveva un figlio che è morto?" A sentir quelle parole, la Regina quasi svenne; bisogna sapere che guai se lo sentiva ricordare, anzi aveva messo la pena di morte per chi le parlasse di quel figlio morto. Anche la ragazza doveva essere condannata a morte, ma la Regina ne ebbe un po' pietà e la fece rinchiudere in un sotterraneo. Chiusa nel sotterraneo, la ragazza si disperava: non volle toccar cibo e passò la notte a piangere. A mezzanotte stava lì piangendo, quando sentì rumore di catenacci e vide passare cinque uomini: quattro erano maghi e il quinto era il figlio della Regina loro prigioniero che lo portavano a fare quattro passi. Alla mattina i carcerieri videro che la prigioniera non aveva mangiato e lo riferirono alla Regina. La Regina la chiamò, e la ragazza le disse che suo figlio era vivo, prigioniero di quattro maghi nel sotterraneo, e ogni notte a mezzanotte lo portavano a fare quattro passi. La Regina mandò giù dodici soldati armati di pali di ferro, che ammazzarono i maghi e liberarono il figlio della Regina. E la Regina lo diede come sposo alla ragazza che lo aveva salvato.

La ragazza non volle sposare il figlio della Regina. Si accontentò di una borsa di monete e d'un vestito da uomo e andò in un'altra città. Il figlio del Re di questa città era malato e nessun medico era buono a guarirlo: da mezzanotte fino al mattino, stralunava e straparlava come un dannato. Arrivò la ragazza vestita da uomo e disse che era un medico forestiero; e che lo lasciassero una notte col malato. Prima cosa, guardò sotto il letto e vide che c'era una botola. Scese giù per quella botola e si trovò in un lungo corridoio, con un lume in fondo. La ragazza andò fino a quel lume e vide una vecchia che faceva bollire in una caldaia il cuore del figlio del Re; perché quel Re aveva fatto morire il figliolo di quella vecchia. La ragazza le portò via il cuore dalla caldaia, lo fece mangiare al figlio del Re e lui guarì. Il Re disse: "Avevo promesso metà del mio stato al medico che avrebbe guarito mio figlio, tu sei una donna, sposerai mio figlio e diventerai Regina".

La ragazza vestita da medico, non volle sposare neanche quel figlio di Re e tornò a andar via, e andò a un'altra città dove c'era il figlio del Re stregato che non poteva parlare. La ragazza si nascose sotto il letto e a mezzanotte vide che entravano due streghe dalla finestra, gli toglievano una pietruzza di bocca e allora lui parlava; prima di andarsene gli rimettevano in bocca la pietruzza e lui restava muto. La notte dopo, quando le streghe posarono la pietruzza sul letto, lei tirò le lenzuola, la fece cadere e se la mise in tasca. Alla mattina le streghe non trovarono più la pietra e dovettero scappare. Il figlio del Re era guarito. La ragazza fu nominata medico di Corte.

La ragazza non volle restare come medico di Corte e andò in un'altra città. Là dicevano che il Re di questa città era impazzito. Aveva trovato una bambola in un bosco e se n'era innamorato: stava chiuso nella sua stanza a contemplarla e piangeva perché non era una donna viva. Si presentò la ragazza: "Questa è la mia bambola!", esclamò.
"E questa è la mia sposa!", disse il Re vedendola identica alla bambola.

Calvino n.15, “Il Pappagallo

Tratta da due fiabe (sic!) del Comparetti, una del Monferrato e una pisana. Calvino, nelle note, riporta di averne trovate di simili, oltre che in Piemonte e in Toscana, anche in Calabria, Sicilia (Pitrè) e Sardegna.

E' una "fiaba nella fiaba". Ho eliminato la cornice per concentrare l'attenzione sulle vicende di questa principessa esorcista-sciamana che vede i morti, gli stregati e gli incantatori come la ragazza di "Le Mie Tre Belle Corone". E' talmente colma di motivi evidenti e nascosti che la rammenterò, parlando di altre fiabe.

Le Mie Tre Belle Corone, e un Altro Reuccio Stregato - Giuseppe Pitrè

na volta c'era una lavandara che aveva una figlia. Questa lavandara un giorno andò a consegnare la biancheria; tornò a casa, ma prese freddo; prima di mettersi a letto prese un pane rotondo e una bottiglia d'olio, li diede alla figlia e le disse: "Figlia mia, io me ne vado all'ospedale; qui c'è il pane e l'olio per mangiare." La chiuse dentro a chiave e si infilò la chiave in tasca. All'ospedale l'assalirono le febbri; si confessò e durante la confessione consegnò la chiave al confessore, dicendogli:
"Padre, io ho una figlia e muoio disperata ché resta in mezzo alla strada".
"Figlia mia, non dubitare, a tua figlia ci penso io; me la porto a casa e starà con mia madre e mia sorella."
Morì. A tutto pensò il prete, fuorché di andare ad aprire alla ragazza. Venne il sabato: la madre svuotò le tasche al prete e vide la chiave: " Figlio mio - disse - e questa chiave?"
"Ih! Me ne sono scordato!" disse il prete.
Pigliò la chiave e corse ad andare ad aprire alla ragazza. Come mise la chiave nel buco la ragazza disse: "Mamma!" ma vide il prete.
"Zitta, figlia mia - disse lui - che tua madre è a casa mia." E se la portò a casa . Lei arrivò a casa del prete e chiamò: "Mamma! Mamma!" Ma la madre non comparve. Alla fine le dissero che la madre era in Paradiso. La povera ragazza non si poteva dar pace ché voleva sua madre. Fece dietrofront e scappò via per i campi.
Cammina di qua, cammina di là, vide un palazzo tutto annerito a lutto cominciando dal portone fino alle finestre. Entrò e vide delle grandi camere. Entrò in cucina e vide ogni ben di Dio. Andò in un'altra camera e vide ogni cosa gambe all'aria; prese una scopa e cominciò a pulire l'entrata. Pulite le camere, lucidò i lampioni, sbatté i materassi, tirò fuori la biancheria, preparò i letti e fece diventare il palazzo come d'oro. Poi entrò in cucina, pigliò una gallina e si mise a fare un po' di brodo; illuminò le camere e si andò a nascondere. A mezzanotte in punto sentì una voce:
"Oh! Le mie tre belle corone! Oh! Le mie tre belle corone!" La voce si avvicinava a palazzo.
Quando fu vicina entrò una signora : "Oh! Che bene!- disse - E da dove viene tutto 'sto bene?! Oh! Vieni qua, figlio mio! Oh! Vieni qua, figlia mia! Se sei uomo ti prendo per figlio! Se sei femmina che il Signore ti ripaghi!" E chiamava.
La ragazza sentendo queste parole uscì e le si gettò ai piedi. Quando la vide:
"Oh! Figlia! Il Signore ti ripaghi questo ristoro che mi hai dato. Io esco la mattina in cerca delle mie tre belle corone. Tu qua, figlia mia, sei padrona; le chiavi sono attaccate, fa tutto ciò che vuoi."
Un giorno che era sola la ragazza si mise a girare per il gran palazzo; girando vide una porticina; aprì e vide tre bei giovanotti: gli occhi aperti, senza parlare. Chiuse presto, presto:
'Aveva ragione la signora ! Credo che questi siano i suoi figli.'
La sera la signora ritornava, sempre gridando: "Oh! Le mie tre belle corone!" Poi quando arrivava a palazzo, diceva:" Figlia mia, che il Signore ti ripaghi 'sto bene che mi fai!"
Un giorno la ragazza era affacciata al finestrone e si annoiava: guardò in terra nel giardino e vide tre serpicine; venne un'altra serpe che ammazzò le serpicine. Tornò la madre serpe e vide i tre figli morti. L'animaletto si mise a torcersi, a sbattersi di qua e di là, alla fine andò, pigliò una certa erba e si mise a sfregare la prima serpe, e la serpe rivisse; sfregò le altre due e rivissero tutte e tre.


Alexander J.W.


La ragazza, vedendo così, furba, pigliò una pietra e la tirò sopra l'erba che faceva rivivere le serpi. Scese con un cesto nel giardino e andò a prendere un po' di quest'erba. Salì su, aprì la porticina, e si mise a sfregare il primo dei ragazzi: sfrega, sfrega e il primo rivisse. Quando rivisse, disse: "Sorellina mia! M'hai ridato la vita!" Lei presto lo richiuse dentro, andò in cucina, ammazzò un galletto, fece un po' di brodo e si mise a darlo al ragazzo rivissuto. Preparò il letto e lo fece coricare. Poi andò dagli altri due. Anche gli altri due pronunciarono parole. Lei fece di nuovo il brodo, preparò i letti e li mise a letto. Quando i ragazzi si ripresero, cominciarono a domandarle dov'era la signora imperatrice. Lei disse allora: "Ah! Allora è la signora imperatrice, quella!"
Si rivolse ai ragazzi: "Voialtri non vi muovete da dove siete, che la signora ve la faccio vedere io." Quando la signora ritornò: "Oh! Le mie tre belle corone! Oh! Le mie tre belle corone!"
La ragazza si mise a chiacchierare; poi le domandò: "Ma insomma, perché uscite, Voscienza?"
"Ah! Figlia mia! Io esco per andare a cercare le mie tre belle corone!"
"Ma Voscienza, ditemi, che sono queste tre belle corone?"
"Ascolta: quando c'era mio marito io avevo tre figli maschi, poi sono spariti e io li vado cercando ..."
"Allora, Voscienza, mi volete fare un favore? Voscienza non uscite più, da domani in poi, ché i vostri figli ve li farò trovare io."
"Figlia mia! Dici davvero?"
"Vi do la mia parola: i vostri figli ve li faccio ritrovare io!"
"Quanto tempo vuoi, figlia mia?"
"Otto giorni."
"Otto giorni. Da domani in poi io non esco più."
Allora la ragazza che faceva? Prima dava da mangiare ai figli senza farsi vedere dalla madre, poi serviva l'imperatrice, la pettinava,  la vestiva, e le metteva gli abiti più belli, dicendole che doveva vestirsi bella pulita perché doveva vedere i suoi figli. I figli la vedevano dalle fessure della porta ma non si facevano scorgere. Passarono quattro giorni, poi la ragazza disse all'imperatrice:
"Voscienza, potete mandare gli inviti, perché domenica troverete i vostri figli."
A queste parole l'imperatrice si mise a piangere di tenerezza: "Ah! Figlia mia, e come ti posso ripagare quello che hai fatto per me?"
Prese e invitò tutta la signoria, da imperatrice quale era, e tutta la giornata andava seguendo e baciando la ragazza. Al settimo giorno, contenta perché avrebbe ritrovato i figli, disse alla ragazza:
"Ora senti, figlia mia: se è vero che mi farai ritrovare i miei figli, ti do il più grande per marito."
Nei racconti si fa presto! Passarono gli otto giorni, venne tutta la signoria, la fanteria, i cavalieri, tutti i sudditi dell'imperatrice. Ma l'imperatrice i figli non li aveva ancora visti! Si aprì la camera del trono: l'imperatrice fece vestire la ragazza con un bell'abito, e la prese a braccetto; la mostrava a tutta la signoria, ché lei le avrebbe fatto ritrovare i figli. Mentre aspettava, si aprì una camera e vennero i tre bei giovani. Considerate la contentezza! La madre si gettò e abbracciò i figli, piangendo lacrime di sangue. La banda si mise a suonare a gloria (non mi meraviglio!). Subito mandarono a chiamare il cappellano per fare il matrimonio del figlio grande con la ragazza. Si fece il matrimonio e furono presenti i migliori imperatori (ché lui era diventato imperatore perché il padre era morto ):


"Loro restarono felici e contenti. 
Noialtri qua, che ci puliamo i denti."


"Li Tri Belli Curuni Mei!" 
Raccontata da Agatuzza Messia, Palermo.

Raccolta da Giuseppe Pitrè, Tradotta dalla lingua siciliana da Cecilia Codignola per Savelli Editore.
Il testo in Siciliano è nella Pagina: "Fiabe Popolari - Italia"

domenica 9 giugno 2013

Le Scarpine Logorate dal Ballo - Grimm n.133

'era una volta un re che aveva dodici figlie, una più bella dell'altra. I loro dodici letti erano insieme in una sola stanza, e, quando andavano a dormire, la porta veniva chiusa con il catenaccio. Tuttavia, ogni mattino, le loro scarpe erano logore a forza di ballare, e nessuno sapeva dove andassero e come facessero a uscire. Allora il re pubblicò un bando: chi fosse riuscito a scoprire dove le principesse ballavano di notte, ne avrebbe avuta una in isposa, e sarebbe diventato re dopo la sua morte; ma chi si fosse presentato, e dopo tre giorni e tre notti non avesse scoperto nulla, ci avrebbe rimesso la vita.



Le Cain E.


Non passò molto tempo che si presentò un principe; fu bene accolto e la sera fu condotto in una stanza che si trovava di fronte a quella dove dormivano le dodici principesse. Là era preparato il suo letto, ed egli doveva fare bene attenzione a dove andassero a ballare; e perché‚ non potessero fare nulla di nascosto, o uscire da un'altra parte, la porta della sala fu lasciata aperta. Ma il principe si addormentò e al mattino, quando si svegliò, tutt'e dodici erano state a ballare, perché‚ le scarpe erano là con le suole bucate. La seconda e la terza notte trascorsero come la prima, e così gli mozzarono la testa. Dopo di lui ne arrivarono molti altri che tentarono l'impresa, ma ci rimisero tutti la vita. Ora avvenne che un povero soldato, che era stato ferito e non poteva più prestar servizio, si trovò sulla strada che menava alla città dove abitava il re. Lì incontrò una vecchia che gli chiese dove andasse. "Non lo so bene neanch'io - rispose il soldato - ma mi piacerebbe diventar re e scoprire dove le principesse consumino le scarpe."
"Non è poi così difficile - disse la vecchia - non bere il vino che ti portano la sera, e fingi di essere profondamente addormentato."






Poi gli diede una mantellina e disse: "Quando l'avrai addosso, sarai invisibile, e così potrai seguire furtivamente le dodici fanciulle".
Dopo aver ricevuto questo buon consiglio, il soldato prese la cosa sul serio; si fece coraggio, andò dal re e si presentò come pretendente. Fu accolto bene come gli altri, e gli fecero indossare vesti regali. La sera, quando fu ora di coricarsi, lo condussero nella sua stanza, e quando stava per andare a letto, la maggiore delle principesse venne a portargli un bicchiere di vino. Ma egli si era legato una spugna sotto il mento, vi lasciò colare il vino e non ne bevve una goccia. Poi si coricò e dopo un po' si mise a russare come se dormisse profondamente. Le dodici principesse l'udirono, si misero a ridere e la maggiore disse: "Avrebbe anche potuto risparmiare la sua vita!". Poi si alzarono, aprirono armadi, casse e cassoni e ne tirarono fuori vesti sfarzose; si agghindarono davanti allo specchio, e saltavano dalla gioia pensando al ballo.






Soltanto la più giovane disse: "Non so, voi siete felici, ma io sento qualcosa di strano: sicuramente ci succederà una disgrazia".
"Sei un'oca che ha sempre paura di tutto!- esclamò la maggiore. - Hai forse già scordato quanti principi sono stati qui inutilmente? Al soldato non avrei neanche avuto bisogno di dare qualcosa per dormire: tanto non si sarebbe svegliato comunque." Quando furono tutte pronte dettero un'occhiata al soldato, ma egli non si era mosso, ed esse credettero di essere proprio al sicuro. Allora la maggiore si avvicinò al suo letto e vi picchiò sopra: subito il letto sprofondò e si aprì una botola. Il soldato le vide scendere l'una dopo l'altra, e la maggiore in testa. Non c'era tempo da perdere: si alzò, mise la mantellina, e discese anch'egli, dietro alla minore. A metà scala, le pestò un poco la veste, ed ella si spaventò e gridò: "C'è qualcosa che non va: mi trattengono per la veste!".
"Non esser così sciocca - disse la maggiore - ti sei impigliata a un uncino".






Scesero fino in fondo e, quando furono là sotto, si trovarono in uno splendido viale, dove tutte le foglie erano d'argento, luccicavano e sfavillavano. Il soldato pensò: 'Devi procurarti una prova.'
E spezzò un ramo; allora si udì un grande boato provenire dall'albero. La più giovane tornò a gridare: "C'è qualcosa che non va: avete udito il rumore? Non era ancora mai successo!".
La maggiore rispose:
"Sono spari in segno di gioia, perché‚ presto avremo liberato i nostri principi".
Poi giunsero in un viale dove tutte le foglie erano d'oro, e infine in un terzo dove erano di puro diamante; in ognuno il soldato spezzò un ramo, e ogni volta si udì un boato che fece trasalire la più giovane delle sorelle; ma la maggiore continuava a dire che erano spari in segno di allegria.






Poi proseguirono finché arrivarono a un grosso fiume dove si trovavano dodici navicelle, e in ognuna c'era un bel principe: avevano aspettato le dodici principesse, e ciascuno ne prese una con sé, mentre il soldato si sedette accanto alla minore. Il principe disse: "Mi sento più forte che mai, eppure la barca oggi è molto più pesante, e io devo remare con tutte le mie forze".
"L'unica ragione possibile è il gran caldo - rispose la più giovane - anch'io sono accaldata!"







Sull'altra riva c'era un bel castello tutto illuminato, dal quale proveniva un'allegra musica di tamburi e di trombe. Remarono fin laggiù, vi entrarono e ogni principe danzò con la sua amata. Anche il soldato ballò con loro, invisibile; e, se una teneva in mano un bicchiere di vino, quando lo portava alla bocca egli lo vuotava; la minore si spaventò anche stavolta, ma la maggiore la faceva sempre tacere. Ballarono fino alle tre del mattino, quando le scarpe furono logore, ed essi dovettero smettere. I principi riaccompagnarono le fanciulle oltre il fiume, e il soldato questa volta si mise davanti, accanto alla maggiore. Giunte a riva, esse si accomiatarono dai loro principi e promisero di tornare la notte seguente. Quando arrivarono alla scala, il soldato corse avanti e si mise nel suo letto, e quando le dodici principesse giunsero stanche, camminando a passettini, egli russava di nuovo forte, sicché‚ esse dissero: "Quanto a lui, possiamo stare tranquille". Poi si tolsero i bei vestiti, li portarono via, misero le scarpe logore sotto il letto e si coricarono. Il mattino dopo, il soldato non volle dire nulla, perché‚ intendeva assistere di nuovo a quella strana faccenda; così andò con loro anche la seconda e la terza notte. E tutto andò come la prima, e ogni volta ballarono fino a romper le scarpe. La terza notte, però, egli si portò via un bicchiere come prova. Quando venne il momento di dare una risposta, egli prese con sé i tre rami e il bicchiere e andò dal re, mentre le dodici fanciulle se ne stavano dietro la porta ad ascoltare quel che avrebbe detto.






Quando il re domandò: "Dove hanno logorato le scarpe le mie dodici figlie?", egli rispose: "Ballando con dodici principi in un castello sotterraneo". E gli raccontò ogni cosa, mostrando le prove. Allora il re mandò a chiamare le figlie e domandò se il soldato avesse detto la verità, ed esse, vedendo che erano state scoperte e che negare non serviva a nulla, confessarono ogni cosa. Poi il re domandò quale volesse in moglie. Egli rispose: "Dato che non sono più giovane, datemi la maggiore". Così le nozze furono celebrate quello stesso giorno, e gli fu promesso il regno alla morte del re. I principi invece furono nuovamente stregati per tanti giorni, quante erano le notti in cui avevano danzato con le dodici principesse.





Grimm n.133, "Die zertanzten Schuhe"
Classificazione: AaTh 306 [The Danced-out Shoes]
Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

sabato 8 giugno 2013

"La Fontana della Bellezza" - Luigi Capuana

Rackham A.


C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figliuola bruttissima e contraffatta nella persona, e non se ne davano pace. La tenevan rinchiusa, sola sola, in una camera appartata e, un giorno il Re, un giorno la Regina, le portavan da mangiare in una cesta. Quando erano lì, sfogavansi a piangere.
"Figliuola sventurata! Sei nata Regina, e non puoi godere della tua sorte!"
Diventata grande, a sedici anni, lei disse al padre:
"Maestà, perché tenermi rinchiusa qui? Lasciatemi andar pel mondo. Il cuore mi presagisce che troverò la mia fortuna."
Il Re non voleva acconsentire: dove sarebbe andata, così sola e inesperta? Era impossibile!
"Lasciatemi andare, o m'ammazzo!"
A questa minaccia disperata, il Re non seppe resistere:
"Figliuola mia, parti pure!"
La diè quattrini a sufficienza, e una notte, mentre tutti nel palazzo reale dormivano, la Reginotta si messe in via. Cammina, cammina, arrivò in una campagna. Il sole, al meriggio, scottava; e lei riparossi sotto un albero. Di lì a poco ecco un lamentìo:
"Ahi! Ahi! Ahi!"
Lei, dalla paura, si voltò di qua e di là, ma non vide nessuno.
"Ahi! Ahi! Ahi!"
Allora, fattasi coraggio, avvicinossi a quel punto d'onde il lamento partiva, e tra l'erba scoperse una
lucertolina, che agitava il moncherino della coda e nicchiava a quel modo.
"Che cosa è stato, lucertolina?"
"Mi hanno rotto la coda e non ritrovo il pezzettino. O, se tu me lo trovassi, ti farei un gran regalo."
La Reginotta, impietosita, si dié a frugare: e fruga e rifruga in mezzo a quell'erbe, finalmente eccolo lì!
"Grazie, ragazza mia. Pel tuo regalo, scava qui sotto."
Scavato un tantino, la Reginotta tirò fuori una cipolla poco più grossa d'una nocciuola.
"Che cosa debbo farne?"

venerdì 7 giugno 2013

Il Compleanno dell'Infanta - O.Wilde, Versione integrale

Velazquez D.



ra il compleanno dell'Infanta. Ella aveva dodici anni precisi, e il sole splendeva luminoso nei giardini del palazzo. Per quanto la Principessa del Sangue e Infanta di Spagna, aveva solo un compleanno ogni anno, proprio come i bambini dei poveri, e dunque era naturalmente questione di grande importanza per tutto il paese che l'occasione coincidesse con una giornata veramente perfetta. Così, infatti, avvenne. Gli alti tulipani striati si rizzavano rigidi sui gambi, come lunghe file di soldati, e guardavano con aria di sfida le rose attraverso l'erba, e dicevano: "Non siamo affatto meno stupendi di voi". Le farfalle purpuree svolazzavano qua e là con polvere d'oro sulle ali, visitando a turno ciascun fiore; le piccole lucertole strisciavano fuori dalle fessure del muro, e se ne stavano distese a crogiolarsi nel bianco riverbero; e i melograni si aprivano e si spaccavano per il caldo, e mostravano il rosso cuore sanguinante. Perfino i pallidi limoni gialli, che pendevano in tale abbondanza dai pergolati cadenti e lungo i vialetti scuri, sembravano aver carpito un colore più ricco alla meravigliosa luce del sole, e le magnolie aprivano i loro grandi globi di fiori d'avorio scanalato, e riempivano l'aria di un profumo dolce e pesante.


Morgan J.M


Quanto alla piccola Principessa, lei percorse in su e in giù il terrazzo con i suoi compagni, e giocò a nascondino intorno ai vasi di pietra e alle vecchie statue coperte di muschio. Nei giorni normali aveva il permesso di giocare solo con i bambini del suo rango, e perciò doveva sempre giocare da sola, ma il suo compleanno faceva eccezione, e il Re aveva dato ordine che la Principessa invitasse chiunque fra i suoi giovani amici avesse in simpatia, a venire a divertirsi con lei. C'era una grazia solenne in questi snelli fanciulli spagnoli che planavano qua e là, i ragazzi coi loro cappelli dai grandi pennacchi e i corti mantelli svolazzanti, le bambine sollevandosi lo strascico delle lunghe vesti di broccato, e schermendosi il sole dagli occhi con ampi ventagli di nero e argento. Ma l'Infanta era la più graziosa di tutti, nonché quella abbigliata con più gusto, secondo l'alquanto ingombrante moda dell'epoca. La sua veste era di raso grigio, con la gonna e le ampie maniche a sboffi coperte di pesanti ricami d'argento, e il corsetto rigido tempestato di file di perle purissime. Quando camminava due pantofoline con grandi nappine rosa si affacciavano sotto al vestito. Rosa e perla era il suo grande ventaglio di garza, e nei capelli, che come un'aureola di oro stinto si ergevano rigidi intorno al suo faccino pallido, aveva una bellissima rosa bianca. Da una finestra del palazzo li osservava il triste, malinconico Re. Aveva dietro di sé suo fratello, Don Pedro d'Aragona, che detestava, e seduto accanto il suo confessore, il Grande Inquisitore di Granada. Il Re era anche più triste del consueto, perché guardando l'Infanta inchinarsi con fanciullesca gravità ai cortigiani riuniti, o ridere dietro il ventaglio alla cupa Duchessa di Albuquerque, che sempre l'accompagnava, pensava alla giovane Regina, sua madre, che appena poco tempo prima - così gli sembrava - era giunta dal gaio paese di Francia, e si era appassita nel mesto splendore della Corte di Spagna, morendo appena sei mesi dopo la nascita della piccola, e prima di aver visto fiorire due volte i mandorli nel frutteto, o di aver colto per il secondo anno i frutti del vecchio fico contorto che si ergeva al centro del cortile ora coperto di erba. Tanto grande era stato il suo amore per lei, che non aveva sopportato di vedersela nascosta nemmeno dalla tomba. La Regina era stata imbalsamata da un medico moro, che un cambio dei suoi servigi aveva avuto concessa la vita, già condannata per eresia e sospetto di pratiche magiche, si diceva, dal Sant'Uffizio, e il suo corpo giaceva ancora sul feretro coperto di arazzi nella cappella di marmo nero del palazzo, proprio come i monaci l'avevano deposto quel ventoso giorno di marzo quasi dodici anni prima. Una volta al mese il Re, avvolto in un manto scuro e con una lanterna cieca in mano, andava a inginocchiarsi accanto a lei esclsmando,"Mi reina! Mi reina!" e, talora, rompendo l'etichetta formale che in Spagna governa ogni singolo atto della vita, e pone limiti perfino al dolore di un sovrano, stringeva le pallide mani ingioiellate in una folle agonia di dolore, e tentava di ridestare con i suoi folli baci il freddo viso affilato. Oggi gli sembrava di rivederla, come l'aveva vista per la prima volta al castello di Fontainebleau, quando aveva appena quindici anni, e lei ancora meno. Erano stati formalmente fidanzati in quell'occasione dal Nunzio Papale alla presenza del re francese e di tutta la Corte, e lui era tornato all'Escorial recando seco una piccola ciocca di capelli gialli, e il ricordo di due labbra infantili chine a baciargli la mano mentre risaliva nella sua carrozza. In seguito c'era stato il matrimonio, officiato in fretta a Burgos, cittadina sulla frontiera tra i due paesi, e il grande ingresso pubblico a Madrid con la consueta celebrazione di messa solenne alla chiesa di La Atocha, e un auto-da-fé ancora più solenne del consueto, durante il quale quasi trecento eretici, fra i quali molti Inglesi, erano stati consegnati al braccio secolare per essere arsi. Quando morì fu, per qualche tempo, come privo del senno. Veramente, non c'è dubbio che avrebbe formalmente abdicato e si sarebbe ritirato nel grande monastero trappista di Granada, del quale era già Priore titolare, se non avesse temuto di lasciare la piccola Infanta alla mercé di suo fratello, la cui crudeltà, perfino in Spagna, era notoria, e che molti sospettavano di aver provocato la morte della Regina mediante unn paio di guanti avvelenati di cui le aveva fatto omaggio in occasione della visita di lei al suo castello di Aragona. Neanche dopo il termine dei tre anni di pubblico lutto che aveva ordinato con editto reale per tutti i suoi domini tollerò mai che i suoi ministri parlassero più di qualsivoglia nuova unione, e quando l'Imperatore stesso gli mandò messi, e gli offrì la mano dell'incantevole Arciduchessa di Boemia, sua nipote, incaricò gli ambasciatori di dire al loro padrone che il Re di Spagna era già sposato con il Dolore, e che benché si trattasse di una sposa sterile, l'amava più della Bellezza; risposta che costò alla sua corona le ricche province dei Paesi Bassi, che poco dopo, dietro istigazione dell'Imperatore, gli si rivoltarono contro sotto la guida di alcuni fanatici della Chiesa riformata. Tutta la sua vita coniugale, con le sue feroci gioie color fiamma e la terribile agonia della sua fine improvvisa, sembrava tornargli davanti oggi mentre guardava l'Infanta intenta a giocare sul terrazzo. Ella aveva tutta la graziosa petulanza di modi della Regina, lo stesso gesto capriccioso con cui gettava il capo all'indietro, la stessa bocca fiera, curva, bella, lo stesso meraviglioso sorriso - vrai sourire de France, davvero - quando alzava il capo ogni tanto a guardare la finestra, o tendeva la manina al bacio dei solenni gentiluomini spagnoli. Ma il riso acuto dei bambini strideva alle sue orecchie, e la vivace, spietata luce del sole si prendeva gioco del suo dolore, e un tedioso odore di spezie strane, quali usano gli imbalsamatori, sembrò sciupare - o era fantasia?- la limpida aria del mattino. Seppellì il viso tra le mani, e quando l'Infanta tornò ad alzare il capo le tende erano state accostate, e il Re si era ritirato. L'Infanta fece una moue di disappunto, e si strinse nelle spalle. Certo avrebbe potuto restare con lei, il giorno del suo compleanno. Che importanza avevano gli stupidi affari di Stato? O se n'era andato in quella sinistra cappella, dove le candele bruciavano in eterno, e dove lei non aveva mai il permesso di entrare? Che sciocco da parte sua, quando il sole splendeva così luminoso, e tutti erano tanto felici! E poi, si sarebbe perso la corrida burlesca che la tromba andava già annunciando, per non dire nulla dello spettacolo di fantocci e delle altre cose meravigliose. Suo zio e il Grande Inquisitore avevano molto più buon senso. Erano usciti sul terrazzo, e le avevano fatto dei bei complimenti. Così gettò indietro la graziosa testolina, e prendendo per mano Don Pedro, scese lentamente le scale diretta verso un lungo padiglione di seta purpurea che era stato eretto in fondo al giardino, seguita dagli altri bambini in rigido ordine gerarchico, per primi venendo quelli dai nomi più lunghi.Una processione di ragazzi nobili, fantasticamente vestiti da toreador , le uscì incontro, e il giovane Conte di Tierra-Nueva, quattordicenne dalla meravigliosa bellezza, scoprendosi il capo con tutta la grazia di un hidalgo di nascita e Grande di Spagna, la guidò solennemente fino a una seggiolina d'oro e d'avorio collocata su di una pedana sollevata sopra l'arena. I bambini si raggrupparono tutt'intorno, agitando i grandi ventagli e scambiando sussurri, e Don Pedro e il Grande Inquisitore si fermarono ridendo all'ingresso. Nemmeno la Duchessa - la Camarera-Mayor , come la chiamavano - donna magra, dai tratti duri, e con una gorgiera gialla, aveva l'aria irritabile che le era consueta, e qualcosa di simile a un gelido sorriso le fluttuava per il viso grinzoso e le contraeva le sottili labbra esangui.Certo fu una corrida meravigliosa, e molto più gradevole, pensò l'Infanta, della corrida vera che era stata condotta a vedere a Siviglia, in occasione della visita del Duca di Parma a suo padre. Alcuni dei ragazzi caracollavano qua e là su cavalli a dondolo riccamente bardati, brandendo lunghi giavellotti dai gai filamenti di nastri colorati; altri andavano a piedi, agitando i manti scarlatti davanti al toro, e scavalcando con balzi leggeri la barriera quando questi li caricava; e quanto al toro, era in tutto simile a un toro vivo, anche se era fatto solo di vimini e pelle tesa, e a volte insisteva a correre intorno all'arena sulle zampe posteriori, cosa che nessun toro vivo si sogna mai di fare. Combattè in modo stupendo, anche, e i bambini si eccitarono tanto che salirono in piedi sulle panche, e agitarono i fazzoletti di merletto e gridarono: Bravo toro! Bravo toro! proprio come fossero stati degli adulti. Da ultimo, tuttavia, dopo un combattimento prolungato durante il quale parecchi cavalli a dondolo erano stati trafitti più volte, e i loro cavalieri disarcionati, il giovane Conte di Tierra-Nueva fece inginocchiare il toro, e avendo ottenuto dall'Infanta il permesso di dargli il colpo di grazia, conficcò la sua spada di legno nel collo dell'animale con tal violenza da spiccarne il capo di colpo, scoprendo il viso ridente del piccolo Monsieur de Lorraine, figlio dell'Ambasciatore di Francia a Madrid. L'arena era stata sgomberata fra grandi applausi, e i cavalli a dondolo morti trascinati solennemente via da due paggi mori in livrea gialla e nera, e dopo un breve intermezzo, durante il quale un funambolo francese si era esibito sul filo, dei fantocci italiani apparvero nella tragedia semiclassica di Sofonisba sul palcoscenico di un piccolo teatro che era stato costruito allo scopo. Costoro recitarono così bene, e i loro gesti furono di una naturalezza così estrema, che alla chiusa del lavoro gli occhi dell'Infanta erano completamente offuscati dalle lacrime. Veramente alcuni bambini piansero sul serio, e dovettero essere consolati con dei dolcetti, e il Grande Inquisitore stesso fu così colpito che non poté fare a meno di dire a Don Pedro che gli sembrava intollerabile che delle cose fatte semplicemente di legno e cera colorata, e animate meccanicamente da fili, dovessero essere così infelici e incontrare disgrazie così terribili. Seguì un giocoliere africano, che portò un grande paniere piatto coperto da un panno rosso, e avendolo collocato al centro dell'arena, si tolse dal turbante una curiosa zampogna di canna, e vi soffiò dentro. Poco dopo il panno cominciò a muoversi, e via via che la musica si faceva più stridula due serpenti verdi e oro affacciarono lo strano capo a cuneo e si sollevarono lentamente dondolando avanti e dietro alla musica come una pianta dondola nell'acqua. I bambini però si spaventarono alquanto dei loro cappucci maculati e delle loro rapide linguine saettanti, e furono molto più contenti quando il giocoliere fece spuntare dalla sabbia un piccolo albero di aranci, da cui sbocciarono graziosi fiorellini bianchi e grappoli di frutta vera; e quando prese il ventaglio della figlioletta del Marchese di Las Torres, e lo mutò in un uccello azzurro che volò per tutto il padiglione e cantò, il loro piacere e la loro meraviglia non ebbero più l importanza per tutto il paese c eseguito dai ragazzi ballerini della chiesa di Nuestra Senora del Pilar fu incantevole. L'Infanta non aveva mai visto questa cerimonia meravigliosa che si svolge ogni anno in maggio davanti all'altare maggiore della Vergine, e in suo onore, e in realtà nessuno della famiglia reale di Spagna era entrato nella grande cattedrale di Saragozza da quando un prete pazzo, che molti avevano ritenuto al soldo di Elisabetta d'Inghilterra, aveva tentato di somministrare un'ostia avvelenata al Principe delle Asturie. Così aveva conosciuto solo per sentito dire la 'Danza di Nostra Signora', come la chiamavano, e certo era un bello spettacolo. I ragazzi indossavano antiquati abiti di Corte di velluto bianco, e i loro curiosi cappelli a tre punte erano frangiati d'argento e sormontati da grosse penne di struzzo, l'abbacinante biancore dei loro costumi, come si muovevano qua e là alla luce del sole, veniva ancora più accentuato dai loro visi scuri e dai lunghi capelli neri. Tutti rimasero affascinati dalla grave dignità con cui si muovevano attraverso le intricate figure della danza, e dalla grazia elaborata dei loro gesti lenti, e dalle solenni riverenze, e quando ebbero terminato la loro esibizione e si furono tolti i grandi cappelli piumati rivolti all'Infanta, ella rispose al loro omaggio con molta cortesia, e fece voto di mandare una grande candela di cera al santuario di Nuestra Senora del Pilar in cambio del piacere che ella le aveva dato. Una troupe di begli egiziani - come gli zingari si chiamavano in quei giorni - avanzò quindi nell'arena, e sedutasi a gambe incrociate, in cerchio, iniziò a suonare piano sulle cetre, muovendo i corpi alla melodia, e accennando a bocca chiusa, quasi sussurrando, un'aria bassa e sognante. Quando videro Don Pedro gli fecero una smorfia, e alcuni mostrarono spavento, perché solo poche settimane prima costui aveva fatto impiccare due della loro tribù per stregoneria sulla piazza del mercato di Siviglia, ma la graziosa Infanta li incantò quando si appoggiò all'indietro sbirciando sopra il ventaglio coi grandi occhi azzurri, e gli zingari furono certi che una fanciulla così graziosa non avrebbe mai mostrare crudeltà verso nessuno. Così continuarono a suonare molto delicatamente e toccarono appena le corde delle cetre con le lunghe unghie appuntite, e le loro teste cominciarono a chinarsi come in un sonno incipiente. All'improvviso, con un grido così acuto che tutti i bambini trasalirono, e la mano di Don Pedro afferrò il pomo d'agata del suo pugnale, balzarono in piedi e turbinarono follemente nel recinto percuotendo i tamburelli, e cantando un selvaggio canto d'amore nel loro strano idioma gutturale. Poi a un altro segnale, tutti si scaraventarono nuovamente a terra e vi giacquero immobili, con l'unico suono delle sorde vibrazioni delle cetre a spezzare il silenzio. Avendo fatto ciò diverse volte, scomparvero per un momento e tornarono conducendo alla catena un orso bruno e irsuto, e portando sulle spalle delle scimmiette di Berberia. L'orso si drizzò sulla testa con la massima gravità, e le scimmie grinzose fecero ogni sorta di scherzo divertente con due zingarelli che sembravano i loro padroni e si batterono con delle minuscole spade, ed eseguirono esercitazioni da soldati regolari proprio come la guardia personale del Re. Gli zingari ebbero davvero un gran successo. Ma la parte più buffa di tutto l'intrattenimento fu senza dubbio la danza del piccolo Nano.


Velazquez D.

Quando questi entrò barcollando nell'arena, ondeggiando sulle gambette storte e agitando il testone enorme da un lato all'altro, i bambini emisero un forte grido di piacere, e l'Infanta rise tanto che la Camarera fu costretta a ricordarle che benché ci fossero molti precedenti in Spagna di una figlia di Re che piangesse davanti ai suoi pari, non ve n'era alcuno per una Principessina di sangue reale che si abbandonasse all'allegria davanti a chi le era inferiore per nascita. Il Nano peraltro era assolutamente irresistibile, e nemmeno alla Corte di Spagna, sempre segnalatasi per la sua coltivata passione dell'orribile, si era mai visto un mostricciattolo così assurdo. Era anche la sua prima apparizione. Era stato scoperto solo il giorno precedente, mentre correva selvaggiamente per la foresta, da due nobili cui era capitato di trovarsi a caccia in una parte remota del gran bosco di sugheri che circondava la città, ed era stato portato da loro al Palazzo come sorpresa per l'Infanta; il padre era un povero carbonaio, era parso anche troppo contento di liberarsi di un figlio così brutto e inutile. Forse la cosa più divertente sul suo conto era la sua totale mancanza di consapevolezza del proprio aspetto grottesco. Veramente sembrava del tutto felice, e pieno di grande euforia. Quando i bambini ridevano, rideva non meno liberamente né gioiosamente di chiunque di loro, e alla chiusa di ogni danza rivolgeva a ciascuno gli inchini più ridicoli, sorridendo e salutandoli col capo proprio come se in realtà fosse stato uno di loro anche lui, e non un piccolo oggetto deforme che la Natura, in qualche umore balzano, aveva foggiato per il trastullo degli altri. Quanto all'Infanta, ella lo affascinava assolutamente. Non riusciva a distogliere gli occhi da lei, e sembrava danzare per lei sola, e quando al termine della sua esibizione, ricordando di aver visto le grandi dame di Corte gettare mazzolini di fiori a Caffarelli, il famoso soprano italiano, che il Papa aveva mandato a Madrid dalla sua cappella personale onde potesse curare la malinconia del Re con la dolcezza della sua voce, ella si tolse dai capelli la bella rosa bianca e, un po' per gioco, un po' per far arrabbiare la Camarera, gliela gettò attraverso l'arena col più dolce dei suoi sorrisi. Il Nano prese assolutamente sul serio la faccenda, e premendosi il fiore alle labbra ruvide e dure, si mise la mano sul cuore, e sprofondò in ginocchio davanti a lei, sorridendo da un orecchio all'altro, con gli occhiettini vivaci che scintillavano di piacere. Questo sconvolse a tal punto la gravità dell'Infanta, che lei stessa continuò a ridere molto tempo dopo che il piccolo Nano era corso via dall'arena, ed espresse allo zio il desiderio di assistere immediatamente alla ripetizione della danza. La Camarera, tuttavia, osservando che il sole era troppo caldo, declse che sarebbe stato meglio se sua Altezza fosse rientrata senza indugio a Palazzo, dove un meraviglioso banchetto era già stato approntato per lei, completo di una vera torta di compleanno con le sue iniziali impresse dappertutto in zucchero colorato e con una graziosissima bandierina d'argento a sventolare sulla cima. Di conseguenza l'Infanta si alzò con gran dignità, e avendo dato ordine che il Nanetto danzasse nuovamente per lei dopo l'ora della siesta, e avendo espresso la sua gratitudine al giovane Conte di Tierra-Nueva per la sua incantevole accoglienza, tornò ai suoi appartamenti, seguita dai bambini nello stesso ordine in cui erano entrati.
Ora quando il piccolo Nano seppe che avrebbe dovuto danzare una seconda volta davanti akll'Infanta, e dietro espresso ordine di lei, fu talmente fiero che uscì di corsa nel giardino, coprendo di baci la rosa bianca in un'assurda estasi di piacere, e facendo i più incongrui e goffi gesti di contentezza.
I Fiori si indignarono assai della temerarietà con cui costui invadeva la loro bella dimora, e quando lo videro eseguire capriole su e giù per i vialetti, e agitare le braccette sul capo in modo così ridicolo, non si trattennero più.
"E' veramente troppo brutto per consentirgli di giocare in un luogo dove ci troviamo noi" gridarono i Tulipani.
"Dovrebbe bere succo di papavero, e addormentarsi per mille anni" dissero i grandi Gigli scarlatti, e si riscaldarono e si inferocirono assai.
"E' un orrore fatto e finito! - gridò il Cactus - Ma sì, è tutto contorto e tarchiato, e ha la testa completamente sproporzionata rispetto alle gambe. A vederlo mi prudono le foglie, e se mi viene vicino lo pungo con le mie spine."
"Senza contare che si è preso uno dei miei fiori migliori - esclamò il Rosario bianco - Lo avevo dato all'Infanta io stesso questa mattina, per il suo compleanno, e lui gliel'ha rubato." E gridò forte:  "Ladro, ladro, ladro!" con tutta la voce che aveva.
Perfino i Gerani rossi, che di solito non si davano arie e che, si sapeva, avevano molti parenti poveri anche loro, si arricciarono dal disgusto alla sua vista, e quando le Viole osservarono miti che sì, era estremamente poco avvenente, ma che certo non era colpa sua, risposero a onor del vero che tale era il suo principale difetto, e che non c'era ragione di onorare una persona perché incurabile; e veramente fra le stesse Viole alcune consideravano la bruttezza del Nano quasi alla stegua di una ostentazione, e ritenevano che lui avrebbe dimostrato maggiore buon gusto se avesse assunto un'aria triste, o almeno pensierosa, invece di saltare qua e là allegramente, e di abbandonarsi ad atteggiamenti tanto grotteschi e sciocchi.
Quanto alla vecchia Meridiana, che era un individuo estremamente notevole, e che aveva detto l'ora nientemeno che all'Imperatore Carlo V in persona, rimase così interdetta dall'aspetto del piccolo Nano che quasi dimenticò di segnare due minuti interi col suo lungo dito d'ombra, e non potè trattenersi dal dire al grande Pavone bianco come il latte, che prendeva il sole sulla balaustra, che come tutti sapevano i figli dei Re erano Re, e i figli dei carbonai erano carbonai, ed era assurdo pretendere che così non fosse: affermazione con la quale il Pavone concordò interamente, e infatti gridò, "Certo, certo" con voce così alta, stridula, che i Pesci Rossi abitanti il bacino della fresca, sciaguattante fontana affacciarono il capo dall'acqua, e chiesero ai grossi Tritoni di pietra che diavolo stesse accadendo.
Ma in qualche modo gli Uccelli lo trovarono simpatico.
Lo avevano spesso visto nella foresta danzare come un elfo dietro le foglie ondeggianti, o accocolato nel cavo di qualche vecchia quercia, a dividere le sue noci con gli scoiattoli. A loro che fosse brutto non importava minimamente. In fondo anche l'Usignolo, che la notte cantava così dolcemente negli aranceti, che a volte la Luna si chinava in ascolto, non era gran cosa a vedersi, dopotutto: e del resto, il Nano era stato gentile con loro, e durante quel terribile inverno, quando non c'erano più bacche sugli alberi, e il terreno era duroi come il ferro, e i lupi in cerca di cibo erano calati addirittura fino alle porte della città, non li aveva dimenticati una sola volta, ma aveva sempre distribuito le briciole del suo tozzo di pane nero, e aveva diviso con loro la sua povera colazione.


Morgan J.M

(continua)

La Ragazza nel Baule, la Pelle d'Asino Rumena

'era una volta, e adesso non c'è più, un ricco possidente terriero, che era sposato e aveva sia una suocera, sia una figlia, tanto bella che chi la vedeva restava a bocca aperta.
Sua moglie, chissà per quale motivo, un giorno si ammalò molto gravemente. Essendo in punto di morte, fece venire il marito al suo capezzale, gli diede un anello che portava al dito e gli disse:”Marito, tu sei giovane e non resterai senza risposarti; quando ti risposerai, non prendere nessun'altra moglie all'infuori di quella che potrà infilarsi al dito il mio anello!”
Eh, sì, il marito cercò di farle coraggio come poteva; le disse che non sarebbe morta, che le sarebbe passato tutto, e questo e quello; ma lei, poveretta, non ne ebbe più per molto e, quando arrivò la sua ora, rese l'anima a Dio.
Suo marito pianse disperato: diceva che era bella (la figlia assomigliava a lei), che era buona e così via. Ma anche lui pianse finché pianse, poi smise.
Non era trascorso un anno che al vedovo venne in mente di risposarsi; di villaggio in villaggio, di città in città, andò alla ricerca di una ragazza o di una vedova che potesse infilarsi al dito l'anello datogli da sua moglie moribonda. L'uomo girò molto, moltissimo, dicono che abbia girato per anni; ma una ragazza o una vedova cui andasse bene l'anello non c'era. E così tornò a casa triste.
Quando arrivò e posò il piede sulla soglia di casa, sua figlia stava lavorando al telaio. Dalla soglia, gettò con rabbia l'anello sul pavimento, dicendo:”Che tu sia maledetto, perché chi ti ha fatto ti ha fatto male!”.
La ragazza, vedendo l'anello cadere per terra, andò a raccoglierlo e se lo infilò al dito. Ed ecco il prodigio del diavolo, ché non sarà stato certo di Dio: le si adattò perfettamente, come se lo avesse sempre portato al dito! “Ah, babbo!- disse – Dallo a me questo bell'anello! Guarda come si adatta perfettamente al mio dito!”
Vedendo ciò, il possidente rimase di sasso. Che fare? Doveva sposare sua figlia, no? L'ultima volontà di sua moglie, sul letto di morte, era stata che il marito dovesse sposare quella cui si sarebbe adattato l'anello. Meglio non si poteva adattare, sembrava che fosse sempre stato su quel dito!
Allora l'uomo disse:” Che il diavolo ti porti, anello! Mi hai fatto fare il giro del mondo per tutto questo tempo!”


Burne Jones E.

Poi disse alla ragazza:” Figlia mia, preparati per le nozze, perché devo prenderti in moglie. Sul letto di morte, tua madre mi disse così e così”. E riferì alla ragazza quello che gli aveva detto sua madre. La ragazza era terrorizzata. Come era possibile che suo padre la prendesse in moglie? Non era una cosa da esseri umani! Perciò andò da sua nonna a dirglielo e a chiederle che cosa doveva fare per evitare una tale sciagura. “ Bambina mia, io non so proprio che cosa tu possa fare – disse la vecchia dopo essersi fatta il segno della croce, all'udire una cosa del genere – Per adesso digli che non lo sposerai finché non ti avrà portato un vestito che non possa essere tagliato dalle forbici né punto dall'ago.”
Il possidente fece fare un vestito di metallo e glielo portò.
“ Che facciamo, nonna?” chiese la ragazza, vedendo che suo padre le aveva portato il vestito.
“Che cosa dobbiamo fare? Digli che ti porti un altro vestito, con la luna sul dorso, il sole davanti e le stelle tutto intorno, proprio come la luna, il sole e le stelle del cielo; e anche questo, che non possa essere tagliato dalle forbici né punto dall'ago.” Il possidente, di soldi ne aveva in abbondanza. Le fece fare un vestito; poi pagò un orefice perché facesse sole, luna e stelle d'oro, d'oro puro, in modo che assomigliassero perfettamente al sole, la luna e alle stelle del cielo; quindi le portò il vestito, così come lei aveva chiesto.
Anche stavolta la ragazza corse dalla nonna. “Che facciamo, nonna?”
“Adesso, bambina mia, ecco che cosa ho pensato che dobbiamo fare, perché non c'è altro modo per saltarne fuori, ma sarà difficile.”
“Sia come sia, piuttosto che un sacrilegio di questo genere!”
“Andiamo da un bravo falegname, uno che conosco io, e commissioniamogli un baule di legno, ben decorato, nel quale nel quale tu possa entrare e coricarti, e che si chiuda dall'interno.”
“E che cosa ci dovrò fare?”
“Tu ti ci chiuderai dentro e io lo getterò nel torrente e sarà quel che Dio vorrà, perché per te è meglio morire, piuttosto che fare quello che vorrebbe quel demonio di tuo padre.”
La povera ragazza sospirò, poverina perché dopo tutto era giovane, amava la vita e non avrebbe voluto morire; ma che cosa poteva fare? Decise di fare quello che sua nonna le consigliava. Il falegname le portò il vestito proprio il giorno in cui suo padre aveva deciso di celebrare le nozze. Poco prima del matrimonio, la ragazza indossò il vestito con il sole e la luna, entrò nel baule, e si chiuse dentro. Quando si fu chiusa dentro, sua nonna cominciò a urlare e a gridare che alla ragazza era successo qualcosa di brutto, che era scomparsa di casa. Il possidente la sentì, fece cercare la ragazza, corse dappertutto, sarà qua, sarà là...
La ragazza era nel baule, con il cuore che le batteva forte per la paura di essere scoperta. Ma non la scoprì, perché non lo sfiorò neanche di lontano il sospetto che poteva essere là dentro. Anzi, camminando in fretta per la stanza, ci andò a sbattere contro e stava quasi per cadere.
”Che cos'è questa roba qui?” gridò allora irritato.
La nonna della ragazza, che era lì, gli disse:" È un baule, lo aveva comprato la ragazza. Non saprei che farne!".
" Buttatelo nel fuoco, che sia maledetto!" gridò lui. La vecchia non aspettava altro. Chiamò un servo e gli disse:" Prendi questo baule e seguimi, dài!".
Il servo lo prese e andò dietro di lei, che si incamminò verso il torrente. Quando vi giunsero, ordinò al servo di gettar dentro il baule e il servo lo gettò. Il torrente trasportò rapidamente il baule a valle e la vecchia tornò a casa piangendo.
Intanto il baule galleggiava sul torrente e viaggiò finché arrivò vicino ad alcuni pescatori che stavano pescando. Come lo videro, lo presero. Lo guardarono, lo trassero a riva, lo rigirarono.
" Che sarà mai?" chiese uno di loro.
" È un baule, non vedi?"
" Ma che baule meraviglioso!- fece un altro - Non vedi che fiori ci sono sul legno? Questo è un baule da imperatore!".
 “ Giusto! Lo sai che facciamo?- disse quello che aveva parlato per primo – Lo portiamo come omaggio all'imperatore e ci dividiamo il compenso che lui ci darà.”
“ Ben detto, compare! Portiamolo!”
Ritirarono le reti, si allontanarono dalla riva e andarono a casa ad abbigliarsi con i vestiti migliori che avevano, poi si recarono con il baule alla corte dell'imperatore.
L'imperatore era giovane. Come vide il baule, gli piacque; diede ai pescatori una ricompensa e lo fece mettere in una stanza dove egli dormiva e mangiava. Come d'abitudine, la sera gli apparecchiavano la mensa e gli preparavano il letto; poi lui andava a mangiare e si coricava quando gliene veniva voglia. Ma alla sera di quella giornata in cui aveva fatto mettere il baule nella propria stanza, andando a mangiare non trovò le vivande sulla tavola e il letto era tutto un groviglio, tanto era disfatto. Che diavoleria era questa? L'imperatore incominciò a chiamare i servi e a sgridarli duramente: che razza di letto gli avevano preparato, che razza di vivande gli avevano portato?
Le sue grida furono udite da sua madre, la quale gli voleva molto bene e non voleva che si arrabbiasse; perciò gli disse che il giorno dopo sarebbe andata a vedere lei, quando gli avrebbero portato da mangiare e gli avrebbero fatto il letto. Così l'imperatore si calmò.
Il giorno dopo, alla solita ora, la mamma dell'imperatore andò coi servi a vedere come gli rifacevano il letto e come gli sistemavano le vivande. Ma al momento della cena, il cibo non c'è più e il letto è ancora più disfatto che il giorno prima.
' Qui c'è sotto qualcosa – pensò l'imperatore – non c'è altra possibilità.' Tanto più che sua madre gli aveva detto che era stata presente quando i servi avevano portato da mangiare e gli avevano rifatto il letto. Allora decise che il terzo giorno sarebbe rimasto di guardia per vedere chi era a mangiargli il cibo e a disfargli il letto. E così fece.
Il giorno dopo, si nascose per benino sotto il letto e restò là fino al momento della cena. Vide che i servi portavano in tavola quello che dovevano portare, facevano pulizia nella stanza e rassettavano il letto. E dopo, un po' più tardi, cosa vide? Vide che il baule si apriva e ne usciva una fanciulla meravigliosa, così bella che l'imperatore dovette stropicciarsi gli occhi, perché non sapeva che cosa pensare: era un'allucinazione o che cosa? I capelli, come fili d'oro, toccavano il pavimento, al di sopra del vestito con la luna sul dorso, il sole davanti e le stelle tutt'intorno. Ma non restò sbalordito per lungo tempo e si riebbe. E riavutosi, la osservò. Per prima cosa essa mangiò per bene e bevve tutto quello che trovò sulla tavola; poi andò verso il letto, vi si coricò sopra e dormì un poco. Allora l'imperatore uscì pian piano da sotto il letto e andò a baciarla. Lei se ne accorse e, accorgendosene, si svegliò. Svegliandosi e vedendo l'imperatore vicino a sé, volle precipitarsi dentro il baule, ma l'imperatore pensò che volesse fuggire e la afferrò per il vestito. Lei cercò di sottrarsi a forza, ma non poté evitare che lui la afferrasse per bene; d'altronde il vestito non si poteva strappare, perché non lo tagliavano le forbici né lo forava l'ago. Visto che non poteva fuggire, rimase ferma; che altro poteva fare? Allora l'imperatore le domandò in che modo era venuta a trovarsi dentro quel baule nel torrente. Lei gli raccontò tutto quella che era successo. E lui si innamorò moltissimo di lei e tosto le disse che l'avrebbe presa in moglie. Lei acconsentì, badate bene, e fecero un matrimonio bello e grandioso, un matrimonio imperiale!
Dopo che si furono sposati, un anno dopo, l'imperatrice fece un figlio, un bambino bellissimo che le assomigliava.
Passò del tempo. Il bambino aveva ormai tre anni. Il padre dell'imperatrice, il possidente terriero, era decaduto, era precipitato nella totale povertà e pensava di andare a fare il servo per guadagnarsi il pane. Capitò che al palazzo dell'imperatore venne a mancare un servo e che lui lo venne a sapere; corse dunque subito a farsi assumere. E lo misero a badare alle galline. Con le galline rimase molto tempo, ci rimase all'incirca nove anni. Dopo questi nove anni accadde che si ammalò un altro servo che era al servizio dell'imperatore e dell'imperatrice e che aveva la sua stanza accanto alla loro. Chi mettere al suo posto? ” Mettiamoci quello delle galline, che si è comportato bene e ha fatto il suo lavoro come si deve.” E ci misero lui. Egli fu molto contento, perché, entrato nel palazzo dell'imperatore e veduta l'imperatrice, aveva riconosciuto in lei sua figlia e si era messo in testa che le avrebbe fatto pagare di essersene andata di casa nel giorno delle nozze. E così aveva pazientato, pensate un po', per nove anni; a lei non si era potuto avvicinare, ma quel pensiero diabolico non lo aveva abbandonato. Prendendo il posto del servo ammalato, non esitò.
Dopo due o tre giorni riuscì a rimanere solo durante la giornata; unse per bene le porte affinché non cigolassero e di notte aprì quella stanza in cui dormiva l'imperatrice con il bambino. Tagliò il collo del bambino con un coltello, asciugò il coltello insanguinato sulla camicia da notte dell'imperatrice, le infilò il coltello sotto il cuscino e poi andò a dormire.
Che successe il mattino dopo? Urla e strepiti per tutto il palazzo, ché non si sapeva chi avesse ucciso il figlio dell'imperatore. Cominciarono le indagini. Su chi doveva cadere il primo sospetto? Sul servo ultimo arrivato.

Ford H.J.

Dopo che lo ebbero portato ed egli vide che era condannato a morte, disse:” Voi mi condannate, ma non fate bene perché io sono innocente. Cercate meglio le prove per vedere chi ha commesso questo crimine; oppure lasciate che sia io a cercarle, per difendere la mia vita”. L'imperatore acconsentì. Così quello andrò dritto al letto dell'imperatrice e tirò fuori, da sotto il cuscino, il coltello insanguinato: e furono viste anche le macchie di sangue sulla camicia da notte. Così lui si salvò e tutte le colpe ricaddero sulla povera imperatrice.
Lei, poverina, cominciò a piangere e a gridare che non era colpevole, che non ci guadagnava niente a restare senza il suo bambino; e dovevano anche accusarla di averlo ucciso? Ma tutto fu vano. L'imperatore e i suoi consiglieri le diedero questa condanna: che le fossero tagliate le mammelle e le mani, che fossero messe dentro a una bisaccia, che gliela appendessero al collo e la abbandonassero in una grande foresta in preda alle bestie selvagge, perché la divorassero. La condanna venne eseguita. Dopo che le ebbero tagliate le mani e le mammelle, le misero dentro a una bisaccia, gliela appesero al collo e la consegnarono a un servo, il quale la portò in una fitta boscaglia e ve la lasciò.
Là la povera donna piangeva disperatamente e aspettava che il dolore o la fame la facessero morire, oppure che venisse qualche fiera e la sbranasse.
Ma Dio non dormiva. Lui venne a sapere, fate attenzione, che cosa le era accaduto.
Si mosse dal cielo e venne sulla terra.
Arrivato sulla terra, fece finta di passare per caso, nelle sembianze di un vecchio, per la boscaglia in cui si trovava l'imperatrice; e le domandò che cosa le era successo, per trovarsi in quelle condizioni. Lei gli raccontò tutto. Ma, raccontando, non fece come altri che bestemmiano Dio; al contrario, diceva:” Se Dio ha voluto così, io che posso farci? Dio sa che cosa deve fare con ciascuno!”.
Questo piacque molto a Dio, il quale tirò fuori dalla bisaccia le mani della donna, sputò sul punto in cui erano state tagliate e poi le riattaccò al loro posto, sicché sembrava che fossero sempre rimaste lì. Poi fece lo stesso anche con le mammelle. Poi sputò anche sul collo del bambino e prese la sua testa, perché nella bisaccia c'era anche la testa del bambino, e la attaccò al collo; poi soffiò su di lui e lo resuscitò. Quindi diede un ordine ed apparve, come se fosse uscito dalla terra, un palazzo meraviglioso, in una bella radura, al posto della fitta boscaglia.
Passò il tempo che passò ed ecco che l'imperatore andò a caccia e si recò proprio nella foresta dove si trovava il palazzo che Dio aveva fatto per quella donna innocente.
Caccia a destra, caccia a sinistra, alla fine ebbe fame. Quando ebbe fame, il suo sguardo cadde sul palazzo meraviglioso della radura in mezzo alla foresta.
“ Che cos'è quello?” chiese a un servo che era con lui.
“ Non lo so, maestà; non sapevo che in questa foresta ci fosse un palazzo.”
“ Che meraviglia! Sai che ti dico? Siccome ho fame, prendi due o tre cacciatori, vai laggiù e di' che l'imperatore di questo paese ha fame e chiede al padrone del palazzo di lasciargli arrostire due o tre uccelli nella sua cucina.”
Il servo andò e batté alla porta. La porta gli domandò:” Chi sei?”
“ Un uomo buono” rispose il servo.
“ Che cosa vuoi?” L'uomo disse quello che l'imperatore mandava a dire al padrone del palazzo. Allora la porta chiamò l'imperatrice.
L'imperatrice disse che non c'era bisogno che si affaticasse ad arrostire la selvaggina; gli rispondesse che la padrona del palazzo lo invitava e che il cibo mandato da Dio era sufficiente.
Quando gli dissero che era invitato, l'imperatore andò.
Nella padrona egli non riconobbe sua moglie. D'altronde, rifletteteci bene, come poteva pensare che quella donna lì, che aveva le mani intere e tutto quanto, era la stessa che lui aveva fatto mutilare davanti ai suoi occhi?
Adesso, nel palazzo, la mensa si apparecchiava da sola, i cibi arrivavano da soli, i tovaglioli sporchi se ne andavano via ed altri puliti arrivavano pure da soli, perché avevano un potere dato da Dio, sicché l'imperatore era rimasto a bocca aperta per lo stupore. Finalmente si mise a mangiare e dopo aver mangiato per bene rimase a far quattro chiacchiere con la padrona del palazzo. Parlando, ella lo invitò a venire ancora alla sua mensa quella settimana stessa, con tutti quelli di casa sua; con la moglie se era sposato, con i genitori se erano ancora vivi. Ma che portasse con loro anche un qualche servo vecchio e fedele, il quale possa fare ciò di cui vi sia bisogno, perché lei non aveva servi.
L'imperatore promise che sarebbe venuto con sua madre, perché altri congiunti non ne aveva, essendo vedovo. E difatti, tre giorni dopo, l'imperatore venne con sua madre; e come servo aveva preso quello che faceva la guardia alla sua camera, il padre della donna alla quale aveva fatto tagliare le mani!
Si misero a tavola a mangiare e, mentre loro mangiavano, la padrona del palazzo uscì un attimo fuori. Ordinò ad un cucchiaio, uno di quelli prodigiosi che andavano da soli, di andarsi a nascondere nello stivale dell'imperatore. Poi entrò di nuovo nella sala in cui gli ospiti stavano parlando e cominciò a parlare con loro.
Quando l'imperatore e gli altri si alzarono per andarsene, si levò un chiasso assordante. Che cosa era successo? Tutti i cucchiai si urtavano tra loro e gridavano che quel forestiero giovane aveva rubato un loro compagno.
“ Io? Dio me ne guardi Non ho mai rubato da quando sono al mondo! Come potrei mettermi a rubare cucchiai, adesso?”
“ Sia perquisito, così vediamo se ha rubato o no!” gridarono all'unisono tutti i cucchiai.
“ Perquisitemi pure!” disse l'imperatore.
Allora entrò dalla porta il figlioletto della padrona del palazzo e sua madre gli fece perquisire l'imperatore. L'imperatore non riconobbe nemmeno il bambino: primo perché era stato cresciuto da Dio, secondo perché non poteva pensare che quello potesse essere suo figlio, dato che suo figlio lo aveva visto come tutti i morti, col collo tagliato e con la testa staccata dal corpicino.
Il ragazzino lo perquisì e trovò il cucchiaio nello stivale. L'imperatore giurò di non saperne nulla, di non essere stato lui a rubare il cucchiaio, di non sapere che cosa fosse successo...
Allora suo figlio gli disse:” Allo stesso modo non è stata mia madre a uccidermi, eppure tu hai dato ascolto a un farabutto e l'hai fatta straziare, babbo!”.
Così l'imperatore venne a sapere chi erano quella donna e quel ragazzino; cadde in ginocchio e rese glorie a Dio perché li aveva aiutati col suo potere, facendoglieli ritrovare sani e salvi; baciò le mani della moglie chiedendole perdono e diede a suo figlio centinaia di migliaia di baci.
Dopo di ciò mandò a morte il vecchio servo, del quale sua moglie gli raccontò tutto per filo e per segno.
E io una nocciola mangiai 
e una fandonia vi raccontai. 

Storie e Leggende della Transilvania, a cura di Claudio Mutti, per la Mondadori

Non so cosa ci sia di prettamente rumeno in una fiaba che ricalca la Penta Manomozza (III, 2) del Basile, ma la grandissima parte delle fiabe europee deriva dal Pentamerone, che, in questo caso, si rifa, a sua volta, ad una leggenda edificante medievale, la leggenda di Sant'Uliva.

sabato 1 giugno 2013

Sulla Fiaba Rumena

Quello che oggi risulta evidente, è che la favolistica dei popoli della Transilvania ha custodito, attraverso i secoli, non solo la memoria di eventi e di personaggi storici più o meno trasfigurati in senso leggendario, ma anche una serie preziosissima di elementi mitici e rituali che talvolta risalgono addirittura al neolitico. Non esagerava dunque Ananda K. Coomaraswamy (1877-1947), allorché scriveva che le fate e gli eroi delle fiabe “erano in origine, in gran numero o per la maggior parte, degli dèi”, per cui “un autentico studioso di folclore dovrà essere non tanto uno psicologo, quanto un teologo e un metafisico” . Né esagerava Mircea Eliade (1907-1986), affermando che miti, simboli e rituali del folclore romeno “affondano (…) le loro radici in un universo di valori spirituali che preesiste all’apparizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente antico e del Mediterraneo”, sicché il rigoglioso patrimonio delle tradizioni popolari romene avrebbe conservato non solo elementi della cultura geto-dacica, ma addirittura “frammenti mitologici e rituali scomparsi, nell’antica Grecia, già prima di Omero”. Infatti, per citare Vasile Lovinescu, che fu tra l’altro un esegeta del folclore di quest’area, le tradizioni popolari dei Romeni (in Transilvania e altrove) “offrono al ricercatore un campo d’indagine di un’importanza e di un’antichità poco comuni, un campo così vasto, che ci vorrebbero volumi interi per riassumere e interpretare i racconti e le leggende”. D’altronde Lovinescu si muoveva sulle tracce di René Guénon, il quale aveva scritto: “Quando una forma tradizionale è sul punto di estinguersi, i suoi ultimi rappresentanti possono benissimo affidare volontariamente alla memoria collettiva ciò che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto” . Per rendersi conto della fondatezza di tali affermazioni, sarebbe sufficiente leggere una raccolta di favole romene e osservare come tra le figure caratteristiche vi siano, per esempio, le zâne. Il vocabolo romeno zâna rimanda al teonimo latino Diana e quindi alle numerose iscrizioni latine della Dacia dedicate a Diana regina, vera et bona, mellifica, con la quale era stata probabilmente identificata una divinità geto-tracica. Esiste una categoria particolare di zâne, le sânziene (da Sanctae Dianae) alla quale appartiene Ileana Cosinzeana, personaggio principale del folclore romeno. Se talvolta è alle zâne che viene attribuita la funzione di fissare la sorte di un essere umano al momento della sua nascita, tale funzione è altre volte assegnata alle ursitoare o ursitori, personaggi nei quali sopravvive il ruolo delle Parche latine e delle Moire greche, come è d’altronde attestato dall’etimologia stessa di ursitoare, che rinvia al verbo horìzein e richiama l’espressione horìzein moîran, usata in un frammento di Euripide col significato di “determinare il destino individuale”. Un altro motivo di notevole interesse presente in alcune fiabe romene, è quello dell’eroe (o dell’eroina) rinchiuso in una cassa e gettato in balia delle onde. È questo un motivo che si ricollega ad un archetipo attestato sia nell’Europa antica sia nel Vicino Oriente e perfino in Siberia; il Propp lo ha esemplificato tramite le storie di Mosè e di Sargon. A queste storie però se ne potrebbero aggiungere molte altre: ci limitiamo a citare quella di Danae e Perseo, quella di Auge e Telefo, quella di Neleo e Pelia, quella di Penta narrata in un cunto del Basile. Lo schema è sostanzialmente il medesimo e non staremo a rievocarlo; faremo invece notare come in tutte queste storie ricorra, accanto al motivo della regalità, il simbolismo della luce, che allude alla presenza dello spirito divino accanto al futuro regnante . Ebbene, questo simbolismo si ritrova puntualmente [...] nella "Ragazza nel Baule". Infatti la protagonista, che diventerà imperatrice, possiede un attributo specifico e significativo: allorchè entra nel baule, essa reca indosso un abito su cui sono ricamati, in oro puro, il sole, la luna e le stelle. L'eroina della fiaba romena è dunque un alter ego  di Auge e della figlia di Karaty-Khan, i cui nomi, in greco e in soioto, significano entrambi "splendore"; ma ricorda soprattutto, più che la Cortesia con le mani mozzate delle Sorelle invidiose, "La Bella dalle mani mozze" del cunto del Basile, e quella Penta che viene descritta come assai più bella della luna allorchè risplende in tutta la sua luce.


Vogeler H.


Dalla postfazione di Claudio Mutti a "Storie e Leggende della Transilvania", Mondadori.


Yuki Onna, la Signora delle Nevi Giapponese

Yuki On Na  è la Signora delle Nevi giapponese, la Regina della neve, lo Spirito dell'Inverno che con la fiaba di Andersen effettivamente ha qualche punto in comune. Talvolta essa appare con l'aspetto di donna mortale, si sposa e ha dei figli, a volte, invece, appare durante le bufere di neve o semplicemente sulle montagne innevate, attira gli uomini, li fa innamorare di sé e li fa morire congelati. [Aggiungo una curiosità: in D&D Oriental Adventures Yuki On Na è un non morto, un fantasma, oltre che la Signora delle Nevi... Probabilmente perché nell'iconografia giapponese i fantasmi sono spesso belle donne vestite di bianco e la cosa ci stava bene... ]
Ecco una leggenda che riguarda la Dama delle Nevi [...]




In un villaggio della provincia di Musashi vivevano due taglialegna: Mosaku e Minokichi. Mosaku era un vecchio e Minokichi, il suo apprendista, era un ragazzo di diciotto anni. Ogni giorno, i due si recavano in un bosco vicino al villaggio, e sulla strada si trovava un ampio fiume da oltrepassare, per cui erano costretti a farsi traghettare dall'altra parte. Qualche volta si era tentato di costruire un ponte dove si trovava il traghetto, ma ogni volta il ponte era stato portato via dalla corrente. Una notte Mosaku e Minokichi si erano attardati più del solito e stavano tornando a casa, quando furono sorpresi da una tempesta di neve. Raggiunsero il fiume, ma si accorsero che il traghettatore se n’era andato abbandonando la sua barca sulla riva opposta. Non potendo ovviamente attraversare il fiume a nuoto, i due si rifugiarono nella capanna del traghettatore. Nella capanna non c’era alcun posto per accendere un fuoco: era soltanto una baracca con una porta e nessuna finestra. Mosaku e Minokichi rinforzarono la porta e si coricarono, coprendosi alla meglio per non morire congelati. Dapprima non sentirono molto freddo, e pensarono che la tempesta sarebbe presto cessata. Mosaku si addormentò quasi subito, ma Minokichi restò sveglio a lungo, ascoltando il terribile vento e il rumore della neve contro la porta. Il vento prese ad alzarsi, e la capanna cominciò ad ondeggiare. L’aria si faceva di momento in momento più fredda. Ma alla fine, nonostante la paura, anche lui si addormentò. Fu risvegliato dalla neve che gli cadeva sul viso. La porta della capanna era stata forzata e, al chiarore prodotto dalla neve, vide una una donna tutta vestita di bianco all'interno della casupola. Stava china su Mosaku e alitava il suo fiato su di lui, e il suo fiato era come un luminoso fumo bianco. Quasi nello stesso istante, la donna si volse verso Minokichi e si chinò su di lui. Minokichi cercò di scappare ma era terrorizzato. La donna bianca si chinò sempre più giù verso di lui, finché il suo viso lo toccò. Allora egli vide che era molto bella e pensò che i suoi occhi lo spaventavano. Lei continuò a guardarlo senza però fare nulla, poi sorrise e sussurrò: “Volevo fare a te quello che ho fatto all’altro uomo, ma non posso fare a meno di provare compassione per te, perché sei tanto giovane... Sei un bel ragazzo, e non voglio farti del male. Ma se mai racconterai a qualcuno, sia pure alla tua stessa madre, quello che hai visto questa notte, io lo verrò a sapere, e allora ti ucciderò... Ricordati quel che ti dico!
Con queste parole, gli volse le spalle e oltrepassò la porta. Minokichi si accorse allora che era in grado di muoversi, saltò in piedi e guardò fuori. Ma la donna non si vedeva da nessuna parte, e la neve si introduceva con furia nella capanna. Minokichi chiuse la porta e la sprangò assicurando parecchi ciocchi di legno contro di essa. Si meravigliò che il vento avesse soffiato tanto da aprirla e pensò, senza tuttavia riuscire ad averne la certezza, che aveva soltanto sognato e che probabilmente aveva scambiato il barlume della neve sulla porta per una donna bianca. Chiamò Mosaku e si spaventò perché il vecchio non rispondeva: allungò la sua mano nell’oscurità, sfiorò il viso di Mosaku e si accorse che era fatto di ghiaccio! Mosaku era irrigidito e morto...Al cessare della tempesta, quando il traghettatore tornò alla sua capanna poco dopo il sorgere del sole, trovò Minokichi che giaceva privo di sensi accanto al corpo congelato di Mosaku. Minokichi fu subito soccorso e presto ritornò in sé, ma rimase malato a lungo per gli effetti del freddo di quella terribile notte. Aveva anche subìto un grande spavento per la morte del vecchio, ma non disse nulla della visione della donna in bianco. Non appena stette di nuovo bene, riprese la sua occupazione, recandosi ogni mattina da solo nel bosco e facendo ritorno al calar della sera con le sue fascine di legna che la madre lo aiutava a vendere.
Una sera, l’inverno dell’anno seguente, mentre si trovava sulla via di casa, oltrepassò una ragazza che stava facendo la sua stessa strada. Era una ragazza alta, snella e di bella presenza, che rispose al saluto di Minokichi con una voce piacevole a udirsi come il canto di un usignolo. Minokichi allora si mise a camminare accanto a lei e cominciò a parlare. La ragazza disse che si chiamava O-Yuki, che era da poco rimasta orfana di entrambi i genitori e che si stava recando a Yedo dove aveva alcuni parenti di umile condizione che avrebbero potuto aiutarla a trovare un lavoro come cameriera. Ben presto Minokichi restò affascinato da quella strana ragazza e, quanto più la guardava, tanto più gli appariva bella. Le chiese se era già fidanzata e lei gli rispose ridendo che era libera, domandandogli a sua volta se lui era sposato o promesso sposo. Lui le rispose che, pur avendo da mantenere soltanto una madre vedova, la questione di una “onorevole nuora” non era stata ancora presa in considerazione, dal momento che era troppo giovane... Dopo queste confidenze, camminarono per un bel po’ senza parlare, ma, come dice il proverbio, “Ki ga aréba, mé mo kuchi hodo ni mono wo iu”: “Quando c’è il desiderio, gli occhi sanno dire più della bocca”.
Quando raggiunsero il villaggio si piacevano già molto, e allora Minokichi chiese a O-Yuki di restare per un po’ a casa sua. Dopo qualche timida esitazione, lei accettò di andare a casa di Minokichi, dove la madre le diede il benvenuto e le preparò un pasto caldo. O-Yuki si comportò in modo così amabile che la madre di Minokichi provò subito simpatia per lei e la convinse a rimandare il suo viaggio a Yedo. La conclusione naturale della faccenda fu che Yuki non andò mai a Yedo e rimase in quella casa come “onorevole nuora”.
O-Yuki si dimostrò un’ottima nuora. Quando la madre di Minokichi, circa cinque anni dopo, morì, le sue ultime parole furono parole di affetto e di lode per la moglie di suo figlio. O-Yuki diede a Minokichi dieci figli, maschi e femmine, bellissimi e di carnagione molto chiara. La gente del posto trovava che O-Yuki era splendida e di natura differente dalla loro: la maggior parte delle contadine invecchiano presto, ma O-Yuki, anche dopo essere diventata madre di dieci figli, appariva giovane e fresca come il giorno in cui era arrivata per la prima volta al villaggio.
Una sera, dopo che i bambini si erano addormentati, O-Yuki era seduta al lume di una lanterna di carta, e Minokichi, osservandola, disse: “Vederti seduta lì, con la luce sul tuo viso, mi fa pensare a una strana cosa che mi capitò quando ero un ragazzo di diciotto anni. Vidi una persona bella e bianca come sei tu ora, anzi... era proprio uguale a te”.
O-Yuki, senza sollevare gli occhi dal suo lavoro, rispose: “Parlami di lei... Dov’è che la vedesti?
Allora Minokichi le narrò della terribile notte nella capanna del traghettatore e della Donna Bianca che si era chinata su di lui, sorridendo e sussurrando, e della morte silenziosa del vecchio Mosaku. E aggiunse: “Sia che stessi dormendo o che fossi sveglio, quella fu l’unica volta in cui vidi una creatura bella come te. Naturalmente non era un essere umano, ed ebbi paura di lei, molta paura, ma era così bianca che... Veramente, non ho mai avuto la certezza se quello che ho visto era un sogno... o la Signora della Neve”.
O-Yuki fece cadere la sua sedia e balzò in piedi, curvandosi verso il punto dove stava seduto Minokichi e gridandogli in faccia: “Quella ero io... io... io! Quella era Yuki! E ti dissi che ti avrei ucciso se avessi mai fatto una sola parola dell’accaduto!... Ma in nome di quei bambini che là stanno dormendo, non ti ucciderò in questo momento! D’ora in avanti dovrai avere tantissima cura di loro, perché se mai avranno motivo di lamentarsi di te, allora ti riserverò il trattamento che meriti!...
Dopo che ebbe urlato ciò, la sua voce divenne sottile, come il pianto del vento, quindi si dissolse in una brillante nebbia bianca che si sollevò verso le travi del tetto e spirò via tremolante attraverso il camino. Mosaku non la rivide mai più.

da "La Torre di Vetro".

Qui si conclude il post della Torre.
Ho aggiunto l'illustrazione di Yaroslav Gerzhedovich.

Yuki Onna, letteralmente "Donna della Neve", appartiene alla categoria (amplissima) degli Yokai, démoni, spettri, spiriti giapponesi (a questa categoria appartengono anche i Kappa)
La sua assegnazione al Regno degli Spettri è spiegata da leggende che raccontano come sia lo spirito di una fanciulla morta assiderata durante una tempesta di neve.
Tende veri e proprii tranelli ai viandanti, oppure seduce gli uomini fino alla morte, oppure succhia la linfa vitale alle sue vittime, oppure irrompe nei rifugi montani. Bellezza, sensualità demoniaca, "occhi selvaggi" che abbiamo visto anche nelle seduttrici soprannaturali italiane. Veste di bianco (con il nero, il colore della Morte), la sua carnagione è candida, i capelli lunghissimi e neri (ma in qualche rappresentazione sono bianchissimi), non ha piedi, essendo uno spirito, e così vengono spesso rappresentati gli spettri giapponesi.
Nessuno la incontrerà due volte nel corso della vita, a meno che Yuki Onna non si invaghisca di lui e si incarni come donna mortale, interpretando perfettamente il ruolo della Sposa Soprannaturale. E ne riparlerò.

Eccola, nella visione di Akira Kurosawa.