domenica 15 ottobre 2017

Il Dragone, Pentamerone, G.B. Basile (Giornata Quarta, Trattenimento Quinto)

Miuccio è mandato, per opera di una regina, a diversi pericoli, e da tutti, per l'aiuto di un uccello fatato, esce con onore. Alla fine, la regina muore, ed esso, scoperto figlio del re, fa liberare la propria madre, che diventa moglie di quella corona.

'era una volta un re d'Altamarina, al quale, per le crudeltà e tirannie che usava, fu, mentre con la moglie era andato per diletto a un castellotto lontano dalla città, occupato il seggio reale da una maga. Egli fece allora pregare una statua di legno, che dava oracoli per enigmi, e ne ebbe per risposta che allora ricupererebbe lo stato quando la maga perdesse la vista.
Ma la maga non solo si era circondata di buona guardia, si anche conosceva al fiuto la gente che quegli le mandava contro per insidiarla, e ne eseguiva subito giustizia spietata.
Ciò vedendo, il re entrò in disperazione, e quante femmine di quella città poteva avere tra le mani, a tutte, per dispetto della maga, toglieva l'onore, e con l'onore la vita. E, tra le cento e cento, che la loro cattiva sorte portò a rimanere sturate di riputazione e sfasciate dei giorni loro, capitò una giovane chiamata Porziella, che era la più gentile cosa che si potesse vedere sopra tutta la terra. I suoi capelli erano vere manette degli sbirri di amore; la fronte, tavola dove stava scritta la tariffa alla bottega delle grazie dei gusti amorosi; gli occhi, due fanali che assicuravano i vascelli dei desideri a voltare la prora al porto dei contenti; la bocca, un'arnia di miele tra due siepi di rose.
Caduta in potere del re, questi, dopo che l'ebbe passata in rivista come le altre, la volle ammazzare; ma, nell'atto che alzava il pugnale, un uccello gli fece cascare sul braccio non so quale radice, e gliene venne tale un tremito che l'arma gli scorse di mano. Era l'uccello una fata, che, pochi giorni innanzi, dormendo in un bosco, dove sotto la tenda delle ombre si giocava l'ardore alla galera dello spavento, stava per subire l'onta da un satiro, quando fu svegliata da Porziella; e per questo beneficio seguiva sempre i suoi passi, pronta a rendergliene ricambio.
Il re, all'inatteso impedimento, pensò che la bellezza di quella faccia avesse messo il sequestro al braccio e ingiunto un mandato al pugnale, vietandogli di trafiggerla come di tante altre aveva fatto. Considerò dunque che bastava un pazzo per casa e che non conveniva tingere di sangue l'ordigno della morte come ne aveva tinto Io strumento della vita; e dispose che Porziella fosse murata in una soffitta del suo palazzo, e lasciata colà, l'afflitta e dolorosa giovane, senza aver né da mangiare né da bere, affinché perisse d'inedia.
L'uccello, che la vide a questi cattivi termini, la confortò con parole umane, che stesse di buon animo perché esso, per gratitudine di un favore da lei ricevuto, l'avrebbe aiutata col proprio sangue. Non volle, peraltro, quantunque assai Porziella ne lo pregasse, svelarle mai chi fosse; e soltanto le ripetè che le si sentiva obbligato, e tornò ad assicurarla che non avrebbe tralasciato cosa per servirla.
E poiché la povera giovane languiva per la fame, volò fuori e tornò con un coltello appuntito, che tolse dal riposto del re, e le disse di aprire a poco a poco un buco in un angolo del solaio, che sarebbe andato a rispondere nella cucina, dalla quale avrebbe preso sempre qualcosa per sostentarle la vita. Porziella ubbidì, e, affaticatasi per un buon pezzo, tanto scavò che apri l'entrata all'uccello; il quale, profittando del momento che il cuoco era andato ad attingere una secchia d'acqua alla fontana, discese pel buco e si portò via un pollastro, che stava in caldo, e lo dette a Porziella. Non sapendo poi come rimediare alla sete, volò alla dispensa, dove era appesa molta uva, e gliene porse un grappolo. Cosi continuò per più giorni.
Più tardi, Porziella, che era rimasta incinta, diè alla luce un bel figlio maschio, che essa allattò e crebbe con la continua assistenza dell'uccello. E, diventato il figliuolo grandicello, l'uccello consigliò alla madre di allargare l'apertura del solaio, levandone altrettante assicelle, in modo che potesse entrarvi Miuccio (tale era il nome che essa aveva dato al figliuolo) e di calarlo, per mezzo di certe cordicelle che esso stesso le aveva procurate, rimettendo a loro posto i panconcelli in guisa che non si vedesse per dove era disceso.
Cosi fece Porziella, e comandò al figlio di non dir mai donde fosse venuto, né di chi fosse figlio. Quando il cuoco, che era uscito per faccende, tornò e vide in mezzo alla cucina quel bel garzoncello, gli domandò chi era, come era entrato e che cosa era venuto a fare in quel luogo; e Miuccio, ricordando l'istruzione della madre, rispose che si era sperduto e che andava cercando padrone.
Tra questo dialogo sopravvenne lo scalco, che, veduto un fanciullo di tanto spirito, pensò che sarebbe stato adatto per paggio del re, e lo condusse nelle camere regali. Piacque subito al re, che lo vide cosi bello e grazioso, e lo tenne al servigio per paggio, al cuore per figlio, e gli fece insegnare tutti gli esercizi che convengono a un cavaliere; tanto che diventò il più virtuoso della corte.
Il re gli voleva bene più che al figliastro; onde la regina cominciò a prenderlo in uggia e a guardarlo con occhio di odio. L'invidia e la malevolenza guadagnavano tanto maggior terreno quanto più spianavano loro la strada i favori e le grazie che il re faceva a Miuccio. E la regina si propose di mettere tanto sapone alla scala della fortuna di quel giovane che alfine sdrucciolasse dall'alto giù al fondo.
Una sera che, dopo aver accordato in pieno i loro strumenti musicali, facevano una musica di discorsi tra loro, la regina disse al re che Miuccio si era vantato di poter fare tre castelli nell'aria. Il re, sia perché era curioso, sia per dar gusto alla moglie, quando al mattino la Luna, maestra delle Ombre, concede feria alle discepole per la festa del Sole, chiamò a sé Miuccio e gli ordinò che, per ogni conto, avesse fatto i tre castelli in aria, come se n'era vantato; altrimenti, avrebbe fatto fare a lui tre salti in aria. Miuccio, a tale richiesta, se ne andò nella sua camera e cominciò un amaro lamento sulla grazia dei principi, fragile come vetro, e sulla poca durata dei loro favori; e, mentre piangeva a calde lacrime, ecco l'uccello, che gli disse:
"Fa' cuore, o Miuccio, e non dubitare, perché hai con te persona come son io, capace di cavarti dal fuoco".
E gli ordinò di prendere molto cartone e colla, e, lavorati a quel modo tre grandi castelli, fece venire tre grossi grifoni, e a ciascuno legò ai piedi un castello, e quelli volarono per l'aria.


Goble W.


Miuccio chiamò il re, che accorse con tutta la corte a questo spettacolo, e che, ammirando l'ingegno del giovane, gli pose maggiore affetto e gli fece feste e carezze dell'altro mondo. Ciò fu aggiunta di neve all'invidia e di fuoco allo sdegno della regina, che, vedendo che il colpo non le era riuscito, non vegliava il giorno che non cercasse modo, e non dormiva la notte che non pensasse maniera, di levarsi dinanzi questo stecco degli occhi suoi, sicché, dopo pochi altri giorni, disse al re:
"Marito mio, ora è tempo di tornare alle grandezze passate e ai piaceri degli anni lontani, perché Miuccio si è offerto di accecare la fata e, con una spesa di occhi, farti ricomprare il regno perduto".
II re, che si senti toccare sul punto doloroso, immediatamente chiamò Miuccio e gli parlò:
"Resto assai meravigliato, o Miuccio, che, volendoti tanto bene e potendomi tu rimettere nel seggio dal quale sono capitombolato, te ne stai cosi spensierato e non procuri di togliermi dalla miseria in cui mi trovo, ridotto come sono da un regno a un bosco, da una città a un povero castelluccio e dal comandare a tanti ad esser appena servito da pochi domestici affamati, che affettano pane e scodellano broda. Perciò, se non vuoi cadere in disgrazia presso di me, corri subito ad accecare la maga che è in possesso della roba mia; e tu, serrando le botteghe di quegli occhi, aprirai il fondaco delle grandezze mie; spegnendo quelle lucerne, accenderai le lampade dell'onor mio, che stanno ora smorzate e fumose".
A questa proposta, Miuccio stava per rispondere che il re era mal informato e l'aveva tolto in iscambio, che egli non era corvo che cavasse gli occhi, né latrinaio che sturasse buchi; quando il re concluse:
"Non più parole! Cosi voglio, cosi sia fatto. Fa' conto che alla zecca del mio cervello ho messo in bilico la bilancia: di qua il premio, se fai quello che devi; di là il castigo, se lasci di fare quello che ti comando".
Miuccio, che non poteva cozzare con un sasso e aveva da fare con un uomo che guai a chi ci capitava, se ne andò a gemere in un angolo.
Ma sopraggiunse l'uccello e gli disse:
"È possibile, Miuccio, che ti perdi sempre in un bicchier di acqua? E, se io fossi stato ucciso, potresti fare un lamento pari a questo? Non sai che io ho più cura della tua vita che della mia stessa? Perciò, non ismarrirti e vienimi dietro, che vedrai che cosa sa fare Meniello",
E, preso a volare, con Miuccio che lo seguiva, si fermò in un bosco; e là si mise a cinguettare, e subito fu attorniato da una schiera di uccelli. Come se li vide intorno, esso domandò chi tra loro si confidasse di spegnere la vista alla maga; che gli avrebbe dato una salvaguardia contro gli artigli degli sparvieri e degli astori, e una carta franca contro gli schioppi, gli archetti, le balestre e i vischi dei cacciatori. Tra quegli uccelli. c'era una rondine, che, avendo fatto il suo nido a una trave della casa reale, aveva preso ad aborrire la maga, la quale, per eseguire i suoi maledetti incantamenti, più volte l'aveva cacciata dalla camera sua coi suffumigi. E quella, in parte per vendetta, in parte allettata dal premio che 1'uccello prometteva, si offerse ad eseguire la cosa.
Volò, dunque, la rondine, come una folgore, alla città, entrò nel palazzo reale, e qui vide la maga, che se ne stava distesa sopra un lettuccio, facendosi fare fresco col ventaglio da due damigelle. Subito la rondine le si mise a perpendicolo sugli occhi, e, lasciandovi cascare dentro il suo sterco, le tolse la vista. La maga, che vide a mezzogiorno la notte, e ben sapeva che con quella serrata di dogana terminava la mercanzia del suo regno, gettò strida da anima dannata e rinunziò allo scettro, correndo a rintanarsi in certe grotte, dove tanto batté la testa nella roccia, che fini i suoi giorni.
Andata via la maga, i consiglieri inviarono ambasciatori al re, che venisse a godere la casa propria, perché l'accecamento di quella gli aveva dato la luce del buon giorno; e, nello stesso punto che gli ambasciatori arrivarono, giunse anche Miuccio, che, istruito dall'uccello, cosi disse:
"T'ho servito di buona moneta: la maga è accecata, il regno è tuo; ma, se io merito ricompensa per il servigio che ti ho reso, non ne voglio altra se non che tu mi lasci stare coi miei malanni senza mettermi un'altra volta a pericoli".
Il re, dopo averlo abbracciato con grande amorevolezza, lo fece coprire e sedere accanto a sé; e se la regina ne crepò di rabbia, ve lo dica il Cielo, tanto che nell'arcobaleno di diversi colori, che si mostrò sul suo volto, si conobbe il vento delle rovine che macchinava nel cuore contro il povero Miuccio. Poco lungi dal castello, era un dragone ferocissimo, che nacque allo stesso parto con la regina, e gli astrologi, chiamati dal padre a strologare questo fatto, sentenziarono che tanto sarebbe campata la figlia sua quanto campava il dragone, e che, morendo l'uno, sarebbe morta necessariamente anche l'altra; e solo una cosa avrebbe potuto risuscitarla, cioè se le avessero unto le tempie, lo sterno, le nari e i polsi col sangue dello stesso dragone.



Von Bayros



Ora la regina, che conosceva la forza e la furia di quest'animale, pensò di mandargli Miuccio nelle granfie, sicura che se ne sarebbe fatto un sol boccone, e gli sarebbe stato come la fragola in bocca all'orso. Cominciò, dunque, a dire al re:
"Affé, che Miuccio è il tesoro della casa tua, e saresti ingrato se non l'amassi; tanto più che ha lasciato intendere di voler ammazzare il dragone, il quale, quantunque mi sia fratello, ti è cosi nemico, che io voglio piuttosto un pelo di mio marito che cento fratelli".
Il re, che odiava mortalmente il dragone e non sapeva come liberarsene, subito chiamò di nuovo Miuccio:
"So - gli disse - che tu metti il manico dovunque vuoi, e perciò, avendo fatto tanto e tanto per me, bisogna che mi faccia un altro piacere, e poi disponi di me a tua voglia. Va' in questo punto stesso e ammazza il dragone, che mi renderai un servigio segnalato e io te ne darò buon merito".
Miuccio stava per uscire fuori di sé, e, appena potè spiccicare parola, rispose:
"Cotesta, ora, è doglia di testa; ora, mi avete preso a vessare; è forse, la mia vita, latte di capra nera, che si può farne strapazzo? Non si tratta di una pera sbucciata, che mi si metta dinanzi alla bocca: si tratta di un dragone, che con le branche sbrana, con la testa sfonda, con la coda fracassa, coi denti stritola, con gli occhi infetta, col fiato uccide. Ora, perché volete mandarmi a morte? E questa la provvisione che mi è data per avervi dato un regno? Chi è quell'anima dannata che ha gettato sulla tavola questo dado? Chi è stato il figlio dell'inferno, che vi ha spinto a questi salti e gonfiato di queste parole?".
Il re, che era leggero come pallone a farsi balzare, ma duro più d'una pietra a sostenere quello che aveva detto una volta, puntò i piedi e disse:
"Hai fatto e fatto, e ora ti perdi al meglio. Ma non più parole! Va', togli questa peste dal regno mio; se no, ti tolgo la vita"
Miuccio sventurato, che si sentiva fare ora un favore ora una minaccia, ora una carezza alla faccia ora un calcio al deretano, ora una calda e ora una fredda, considerò quanto mutevoli fossero le fortune delle corti, e avrebbe voluto esser più che digiuno della conoscenza del re. Ma, sapendo che replicare agli uomini grandi è cosa da bestia, ed è come se si volesse pelare la barba al leone, si ritirò in disparte, maledicendo la sorte sua che l'aveva ridotto alla corte per fare corte le ore della propria vita. E, mentre, seduto sul gradino di una porta, con la faccia in mezzo alle ginocchia, lavava le scarpe col pianto e scaldava i contrappesi coi sospiri, ecco l'uccello con in becco un'erba, che gli gettò in grembo, dicendogli:
"Alzati, Miuccio, e assicurati che non giocherai a scarica l'asino dei giorni tuoi, ma a sbaraglino della vita del dragone. Prendi quest'erba e, arrivato alla grotta di quel brutto animale, gettala dentro, che subito gli verrà tal sonno sbardellato, che si piegherà a dormire; e tu, con un bel coltellaccio sotto le anche, fagli subito la festa, e vieni via, che le cose ti riusciranno meglio che non pensi. Basta, io so bene quel che dico, e abbiamo più tempo che danaro, e chi ha tempo ha vita".
Miuccio si alzò e, postosi tra i panni un grosso coltello e presa l'erba, si avviò alla grotta, la quale si apriva sotto una montagna di cosi buona statura che i tre monti, che fecero scala ai giganti, non le sarebbero arrivati alla cintura. E, quando fu all'entrata, gettò l'erba e, appiccato il sonno al dragone, cominciò a tagliare.
Nel tempo stesso che batteva col coltellaccio le carni dell'animale, la regina si sentiva intaccare il cuore; e, vistasi a mal termine, si accorse del suo errore, per essersi comprata a danari contanti la morte. Chiamò allora il marito e gli disse quello che avevano prognosticato gli astrologi, e che dalla vita del dragone pendeva la vita sua, e come sospettava che Miuccio avesse ucciso il dragone, giacché essa si sentiva mancare a poco a poco.
"Se sapevi - le disse il re - che la vita del dragone era puntello della tua e radice dei tuoi giorni, perché mi facesti mandare Miuccio? Chi ne ha la colpa? Tu ti sei fatto il male e tu lo piangi; tu hai rotto il gotto e tu lo paghi!".
"Non credevo mai - rispose la regina - che un mingherlino avesse tant'arte e tanta forza da gettare a terra un animale che faceva poca stima d'un esercito; e avevo in mente che vi avrebbe lasciato gli stracci. Ma, poiché ho fatto il conto senza l'oste e la barca dei miei disegni è andata a picco, fammi un piacere, se mi vuoi bene. Appena sarò morta, prendi una spugna, intrisa nel sangue del dragone, e ungimi tutte le estremità della persona prima di seppellirmi".
"Questa è poca cosa all'amore che ti porto - disse il re - e, se non basterà il sangue del dragone, vi metterò il mio per darti soddisfazione".
La regina voleva ringraziarlo, ma gli usci lo spirito con le parole, perché, in quel momento stesso, Miuccio aveva terminato il macello del dragone.
Quando egli giunse innanzi al re per dargli l'annunzio dell'opera eseguita, il re gli comandò che fosse tornato a raccogliere il sangue del dragone; e, curioso di vedere da vicino la prova che quello aveva compiuta con le mani, gli tenne dietro non visto.
All'uscita dal palazzo, l'uccello si fece incontro a Miuccio e gli domandò:
"Dove vai?".
"Vado dove mi manda il re, che mi fa andar su e giù come spola, e non mi lascia riposare un'ora".
"A che fare?".
"A prendere il sangue del dragone".
"Oh sciagurato te per cotesto sangue di dragone, il quale sarà per te sangue di toro, che ti creperà dentro! Con quel sangue rinascerà la mala semenza di tutti i tuoi travagli; che colei ti ha posto sempre a nuovi pericoli affinché tu vi lasci la vita; e il re, che si fa mettere la barda da una brutta strega, ti manda, come un trovatello, ad arrischiare la persona, che pure è sangue suo, che pure è broccolo di quella pianta. Lo scuso, perché non ti conosce, ma pure il moto del cuore dovrebbe essere spia della parentela, e i servigi che gli hai resi, e il guadagno che ora egli farebbe di un bello erede, dovrebbero costringerlo a prendere in grazia quella sventurata di Porziella, tua madre, che da quattordici anni oramai sta murata in una soffitta, dove sembra un tempio di bellezza, fabbricato in un camerino".
Il re, che aveva ascoltato ogni cosa, si trasse subito innanzi per udire con più particolarità come il fatto era andato, e, appreso che Miuccio era figlio di Porziella, rimasta incinta di lui, e che Porziella era ancora viva nella soffitta, subito ordinò che fosse smurata e condottagli davanti.
E, quando la vide più bella che mai per la buona cura che ne aveva avuta l'uccello, l'abbracciò con amore grande e non si saziava di stringere ora la madre ora il figlio, chiedendo perdono a quella del crudele trattamento che le aveva usato, e a questo dei pericoli a cui lo aveva posto.
E fece subito rivestire Porziella con le più ricche vesti della regina morta, e la prese per moglie. Offerse poi lo stato e tutto se stesso all'uccello, che aveva mantenuto in vita la povera giovane procurandole il cibo, e che aveva col consiglio aiutato il figliuolo a uscire dai pericoli.
Ma l'uccello disse che non voleva altro premio che Miuccio per marito, e si trasformò, nel dir cosi, in una bellissima giovane.
La richiesta fu accolta con grande gioia dal re e da Porziella, e, mentre la regina morta fu gettata in un tumulo, la coppia degli sposi colse piaceri a tomoli, e, per celebrare in modo più solenne le feste, si avviarono al loro regno, dove erano aspettati con gran desiderio.
E sempre riconobbero che la loro buona fortuna era venuta dalla fata pel beneficio resole da Porziella, perché alla fine delle fini:

Mai non si perde il bene che s'è fatto



Dalle note della traduzione dal Napoletano di Benedetto Croce:

"Una particolare attenzione - scrive Iacopo Grimm - merita la somiglianza che questa fiaba del Basile ha con la saga di Siegfried. La nascita secreta di Mluccio e il suo umile ufficio presso il cuoco ricordano la fanciullezza dell'eroe; l'uccello, che lo assiste di aiuto, ricorda quegli uccelli, dei quali il nordico Sigurd intende il linguaggio e da cui riceve e accetta consigli. La regina nemica si confronta con Brunhild, ed è insieme Reigen, che eccita alla lotta col dragone. Il dragone è anche qui il fratello della regina, la cui vita è legata alla sua. Essa vuole essere appunto spalmata col sangue di lui, al modo stesso che Reigen aspira al sangue del cuore di Dafner"

Il testo in lingua originale è nella Pagina: "G.B. Basile".