domenica 30 marzo 2014

La Vecchia dell'Orto (La vecchia di l'ortu), G. Pitrè n.20

E' la fonte della omonima fiaba (n.181) della raccolta di Calvino.
"Di tutte le varianti di Prezzemolina questa siciliana ha l'inizio più curioso, con quell'orecchio-fungo, e per questo la riportiamo, nonostante il non ricco sviluppo da fiabuccia infantile. ( E' narrata dalla Sanfratello di cui il Pitrè scrive:' La sancta simplicitas de' poveri di spirito è una dote sua particolare, per cui la narrazione si fa ingenua'). La ragazza che si vergogna a dire:'Sono ancora piccolina' è una mia aggiunta".

E, infatti, Calvino le fa dire:"Sono già grandina" autorizzando, secondo i misteriosi riti fiabeschi, la vecchia a rapirla.
La rimanda a "Prezzemolina" e a "Hansel e Gretel", alla quale la seconda parte è assolutamente identica, inclusa l'incomprensibile "cecità" della vecchia. (E ci dice molto sulla precarietà del personaggio-Hansel).
Solo nelle note a "Prezzemolina", Calvino ricorda l'augusta progenitrice "Petrosinella" (Basile II,1). Molto più povera e popolare "La Prezzemolina" di Imbriani, ricalcata comunque sulla più sontuosa antenata.


'era una volta un orto di cavoli: di annate un po' scarse ce ne sono spesso; c'erano due donne:
"Comare, andiamo a raccogliere qualche cavolo?"
"E se c'è qualcuno? Che ne sappiamo!"
"Eh be'! Ora mi affaccio e guardo chi fa la guardia".
S'affacciò: "Non c'è nessuno, andiamoci!".
Andarono ed entrarono nell'orto; colsero due bei fasci di cavoli e se ne andarono; i cavoluzzi se li mangiarono allegramente. L'indomani mattina ci tornarono. Ma l'altra comare aveva paura che ci fosse il giardiniere; non videro nessuno ed entrarono. Colsero altri due fasci di broccoli, se li mangiarono e fine.

E. Von Blaas

Lasciamo loro mangiarsi i cavoli e prendiamo la vecchia che era la padrona dell'orto. Quando si affacciò sull'orto: 
"Gesù! Tutti se li sono mangiati i miei cavoluzzi! Ora ci penso io... Adesso prendo un cane, l'attacco davanti alla porta e quando quelli vengono, sa lui cos'ha da fare..." 
Lasciamo la vecchia che attacca il cane per la guardia e ripigliamo le comari. Una delle comari disse all'altra: 
"Andiamo a pigliar cavoli?" 
"No, comare. C'è il cane." 
"Figurati! Pigliamo due soldi di pane secco e li tiriamo al cane, così poi facciamo quello che vogliamo." 
Comprarono il pane, prima che il cane abbaiasse, gli gettarono il pane; il cane si zittì, colsero i cavoli e se ne andarono. S'affacciò la vecchia, vide quella rovina : "Ah! Così gli hai lasciato cogliere i cavoli! Non sei buono a far la guardia, tu; levati di qua!". E mise per guardiano un gatto e la vecchia nascosta dentro in casa, che, come il gatto faceva miu!miu! lei aveva da prenderli per la gola, i ladri. L'indomani, disse la comare:
"Comare, andiamo a prender cavoli?" 
"No, comare, c'è il guardiano e per noi son guai..." 
"Figurati! Andiamo." Come videro il gatto, pigliarono due soldi di polmone e prima che il gatto facesse miu glielo gettarono e il gatto non disse nulla. Si colsero i cavoli e se ne andarono. Quando il gatto finì di mangiare il polmone fece miu! miu! La vecchia si affacciò ma non vide nessuno. Allora pigliò il gatto e gli spaccò la testa. Poi disse : 
"Ora ci metto il gallo, per guardiano; col cantare che fa io mi affaccio e così li ammazzo 'sti ladri". 
Disse l'indomani la comare intraprendente: "Andiamo a raccogliere cavoli?" "Nossignora che c'è il gallo". 
La comare allora: "Non fa niente, pigliamo un po' di becchime, glielo gettiamo e il gallo non canta". E così fecero. Mentre il gallo mangiava il becchime, quelle raccolsero i cavoli e se ne andarono. Quando il gallo finì di mangiare il becchime cantò cucurucù ! La vecchia si affacciò e vide i cavoli raccolti; pigliò il gallo, gli tirò il collo e se lo mangiò. Poi chiamò un contadino e gli disse: "Scavami un fosso lungo quanto son lunga io". E si mise lunga lunga dentro la buca, con l'orecchio di fuori. L'indomani mattina le comari andarono nell'orto, non videro neanche un'anima. La vecchia si era fatta scavare il fosso nel viottolo su cui dovevano passare le comari. Passarono e non se ne accorsero; raccolsero i broccoli e al ritorno, quella gravida, guardò in terra e vide un fungo che era l'orecchia della vecchia: 
"Comare, guarda che bel fungo". 
Si chinò e tirò, e tira e tira con un gran strattone tirò su la vecchia. 
"Ah - disse la vecchia - siete voialtre che m'avete raccolto i cavoli! Aspettate che vi faccio vedere io!". 
Prese quella gravida, quell'altra con belle gambe se l'era svignata, come la vecchia l'abbrancò: "Ora ti mangio viva, viva!" 
"No! Vi prometto che quando partorisco...quando mio figlio ha sedici anni ve lo mando...mantengo la promessa..." 
"Allora va bene - disse la vecchia - cogliti pure i cavoli che vuoi e vattene ma pensa alla promessa che m'hai fatto!" 
Poverina, più morta che viva se ne tornò a casa: 
"Ah! Comare voi ve ne siete scappata e io son rimasta nei guai, ho promesso alla vecchia che non so chi mi nasce, ma a sedici anni glielo devo dare alla vecchia..." "E io che ci posso fare?" 
Dopo due mesi il Signore a quella gravida fece la grazia di una femminella : 
"Ah! Figlia mia - diceva quella alla bambina - io t'allevo, ti do le mammellucce e un'altra ti deve mangiare..." E piangeva la povera madre! 
Quando la ragazzina arrivò a sedici anni uscì perché doveva comprare l'olio per la madre. La vecchia la incontrò: 
"A te, ragazzina, di chi sei figlia?" 
"Della signora Sabedda " (per esempio, dico il mio nome ma io mica c'ero laggiù).
"Devi dire a tua madre: e la promessa? Tu ora ti sei fatta bella grandicella (le diceva), sei gustosa (e la accarezzava). Tieni, pigliati questi fichi e portali a tua madre ". 
La ragazzina andò dalla madre e le raccontò la cosa: "Mi ha detto la vecchia, e la promessa?
"Cosa le ho promesso?!"disse la madre e si mise a piangere. 
"Perché piangete mamma?" Ma sua madre non le diceva niente. 
Dopo un po di questo pianto disse alla figlia: 
"Se incontri la vecchia digli: 'È ancora piccoletta'...". 
L'indomani la piccoletta andò di nuovo a pigliare l'olio e incontrò la vecchia che fece le stesse cose del giorno prima. Allora sua madre pensò: "Adesso o nel giro di due anni da questa figlia mi dovrò separare', si rivolse alla figlia e le disse:
"Se incontri la vecchia dille: 'Comare, dove l'ha vista se la prenda, la promessa". Dunque spuntò la vecchia: "Che ti ha detto tua madre?" 
"Quando la vede se la prenda." 
"Allora vieni con nonna che ti dà tante cose". 
Si prese la ragazzina con sé. Quando arrivarono dentro la chiuse in una casetta e le disse: "Mangia quello che c'è". 
Passato un bel po' di tempo la vecchia: "Voglio vedere se si è ingrassata". 
C'era un buchetto nella porta: "Dai (Pina, per esempio), porgimi il ditino." 
La ragazzina che era furba, passò un topo, gli tagliò la coda e la porse alla
vecchia: 
"Ah! Come sei magra, figlia mia; mangia a nonna, mangia che sei magra". 



Passò un altro po' di tempo: "Esci figlia mia che ti guardo." 
La ragazza uscì di là dentro: "Ah! Come sei bella grassa, andiamo a fare il pane." "Sissignora nonna che io so fare ogni cosa". 
Come finirono il pane, la vecchia le fece riscaldare il forno: 
"Accendi a nonna." 
La ragazzina si mise per scaldare il forno, lo sgombrò tutto: 
"Dai a nonna - disse la vecchia - inforniamo." 
"Ma io, nonna, non so infornare. Tutte le altre cose le so fare ma infornare no." "Allora inforno io, tu passami il pane." 
La ragazza pigliò il pane e glielo porse; la vecchia disse: 
"Piglia il lastrone che chiudiamo il forno." 
"Io, nonna, mica ce la faccio a prendere il lastrone."


A. Rackham

"Allora lo sollevo io." Come la vecchia si chinò la ragazza la prese per il sedere e la spinse nel forno, pigliò il lastrone e lo chiuse. 
'Ora che ci sto a fare qui? Adesso chiedo dov'è mia madre.' 
Una vicina la vide: "Allora, sei viva?!" 
"E che? Morta dovrei essere? Sapete che vi dico? Cercatemi mia madre che la voglio vedere". La donna prese e chiamò la madre. La madre andò a casa della vecchia e la figlia le raccontò tutto; una gran contentezza le prese e restarono là, padrone di ogni cosa.
E loro restarono felici e contente 
E noialtri qua senza niente.

Dalle note al testo originale:
"La novellatrice si chiama Gna Sabbedda. Essa nel dare la risposta della ragazza interrogata dalla vecchia non va lontano a cercare un nome; presta il suo: figlia di la gnà Sabbedda; e aggiunge che si mentova (m'ammuntua) essa stessa, ma che però essa non era là dove avvenivano questi fatti.
Gnà, contr. di gnura, signora".
E, sempre a proposito di questa sua fonte, il Pitrè scrive, nell'introduzione alla raccolta:
"Elisabetta Sanfratello, detta la Gnura Sabedda, di Vallelunga, sta a' servigi de' fratelli Gugino. La sancta simplicitas de' poveri di spirito è una dote sua particolare, per cui la sua narrazione si fa ingenua. La Sanfratello s'avvicina a' 55 anni, e dice di aver appresi i racconti da una sua nonna, che morì a cento."


Raccontata da "Sabedda" (Elisabetta Sanfratello)", nativa di Vallelunga (Pa).
Raccolta da Giuseppe Pitrè.
Tradotta dalla lingua Siciliana da Cecilia Codignola.

Il testo in Siciliano è nella Pagina: "Fiabe Popolari - Italia".

venerdì 28 marzo 2014

Petrosinella di G.B. Basile, Cunto Primo, Giornata Seconda

'era una volta una donna incinta chiamata Pascadozia che, affacciata ad una finestra che dava sul giardino di un'orca, vide una bella aiuola di prezzemolo, di cui le venne una tale voglia che si sentiva svenire: tanto che, non riuscendo a resistere, facendo attenzione a quando l'orca usciva, se ne colse una manciata. Ma, rincasata l'orca e volendo fare la salsa, si accorse che c'era stata la menata della falce e disse:
"Mi si possa svitare l'osso del collo se non acciuffo questo manico d'uncino e non lo faccio pentire, così che impari a mangiare nel proprio tagliere e a non succhiare nelle pentole altrui".
Ma la povera donna continuava a scendere nell'orto e una mattina fu sorpresa dall'orca che, tutta arrabbiata e invelenita, le disse:
"Ti ho acchiappata, ladra mariuola! forse paghi l'affitto di quest'orto e vieni con così poca discrezione a rubare le mie erbe? parola mia che non ti manderò a Roma a fare penitenza!"
La povera Pascadozia cominciò a scusarsi dicendo che non per gola o per ingordigia corporale il diavolo l'aveva accecata per commettere quest'errore, ma perché era incinta e temeva che la faccia del bambino venisse seminata di prezzemolo; anzi avrebbe dovuto esserle grata perché non le aveva mandato neanche un orzaiuolo.
"Altro che parole vuole la sposa! - replicò l'orca - non mi prendi all'amo con queste chiacchiere! tu hai finito il cottimo della vita se non prometti di darmi la creatura che farai, maschio o femmina che sia."
La povera Pascadozia, per scampare al pericolo incombente, giurò con una mano sull'altra, così l'orca la lasciò libera. Ma, al momento del parto, fece una bambina così bella che era un gioiello, che fu chiamata Petrosinella perché aveva sul petto un bel ciuffo di prezzemolo e che, crescendo di un palmo al  giorno, quando ebbe sette anni, cominciò ad andare dalla maestra.
E ogni volta che per strada incontrava l'orca, questa le diceva:
"Di' a tua madre di ricordarsi della promessa!"
E tante volte ripeté questa lamentela che la povera madre alla fine, non riuscendo più a sopportare quella musica, le disse una volta:
"Se incontri la solita vecchia e se ti chiede di quella maledetta promessa, tu rispondile: Prenditela!"
Petrosinella, che non sapeva di che cosa si trattasse, incontrò l'orca e, appena questa le disse la solita frase, le rispose innocentemente come aveva detto la mamma e l'orca, afferratela per i capelli, se la portò in un bosco dove non entravano mai i cavalli del Sole, per non pagare l'affitto per quei pascoli delle ombre - chiudendola in una torre che fece sorgere per incantesimo, senza porta, senza scale, solo con una finestrella, dalla quale, lungo i capelli di Petrosinella che erano lunghissimi, saliva e scandeva come suole fare il mozzo nella nave sulle sartie dell'albero.

A. Berenzy

Allora capitò che, mentre l'orca era lontana dalla torre, Petrosinella aveva messo la testa fuori da quel buco e aveva sparso le trecce al sole e passò il figlio di un principe che, vedendo due bandiere d'oro che chiamavano le anime ad arruolarsi nell'esercito di Amore e scorgendo in mezzo a quelle onde preziose una faccia da Sirena, si incapricciò oltre misura di tante bellezze; e, dopo averle inviato un memoriale di sospiri, fu decretato che la piazza si arrendesse alla sua grazia.
E la trattativa riuscì in tal maniera che il principe ebbe cenni del capo in cambio di baci sulle mani, strizzatine d'occhi in cambio di riverenze, ringraziamenti in cambio di offerte, speranze in cambio di promesse, buone parole in cambio di salamelecchi. La qual cosa, continuata per più giorni, familiarizzarono tanto che decisero di incontrarsi; il che doveva avvenire di notte - quando la Luna gioca a passera muta con le Stelle - lei avrebbe dato un sonnifero all'orca e l'avrebbe fatto salire con i capelli.

A. Berenzy

E rimasti così d'accordo, giunse l'ora stabilita e il principe arrivò alla torre, dove, fatte calare con un fischio le trecce di Petrosinella, e afferratosi a due mani, disse:"Alza!"; e tirato sopra, gettatosi attraverso la finestrella nella camera, si fece un pranzetto di quel prezzemolo della salsa d'Amore e - prima che il Sole insegnasse ai suoi cavalli a saltare nel cerchio dello Zodiaco - se ne scese per la stessa scala d'oro per fare i fatti suoi.

A. Berenzy

E continuando a fare così per molte volte, una comare dell'orca se ne accorse, e, prendendosi il fastidio del Russo, volle ficcare il muso nella merda e disse all'orca di stare attenta perché Petrosinella faceva l'amore con un certo giovane e sospettava che le cose fossero andate molto avanti perché vedeva il ronzio e il traffico che c'era e sospettava che, se fosse fatta una retata, sarebbero state sfrattate da quella casa prima di maggio*.
L'orca ringraziò la comare del buon consiglio e disse che sarebbe stato pensiero suo chiudere la strada a Petrosinella; a parte il fatto che non avrebbe potuto fuggire perché le aveva fatto un incantesimo: se non avesse avuto in mano tre ghiande nascoste in una trave della cucina era lavoro sprecato quello di tentare di scappare.
Ma, mentre facevano questi ragionamenti, Petrosinella, che stava con le orecchie tese e temeva un poco la comare, sentì tutto; e - appena la Notte stese i vestiti neri per preservarli dalle tarme - venuto come al solito il principe, lo fece salire sulle travi e, trovate le ghiande, che sapeva come adoperare perché era stata fatata dall'orca, fatta una scala di spago, se ne scesero tutti e due e cominciarono a correre in direzione della città.
Ma, visti dalla comare mentre uscivano, questa cominciò a strillare chiamando l'orca e tanto clamoroso fu il gridare che quella si svegliò e, sentendo che Petrosinella se n'era fuggita, se ne scese per la stessa scala che era legata alla finestrella e cominciò a correre dietro agli innamorati
Questi, quando la videro arrivare verso di loro più veloce di un cavallo imbizzarrito, pensarono di essere perduti; ma ricordandosi Petrosinella delle tre ghiande, ne gettò subito una a terra ed ecco spuntare un cane corso così terribile, che, mamma mia! con tanto di bocca aperta abbaiando corse incontro all'orca per farne un sol boccone. Ma quella, che era più maliziosa del diavolaccio, messa una mano in tasca tirò fuori una pagnotta e, dandola al cane, gli fece calare la coda e calmare la furia.
E ricominciò a correre dietro a quelli che scappavano. Petrosinella, visto che si avvicinava, gettò la seconda ghianda ed ecco uscire un feroce leone che, sbattendo la coda a terra e scuotendo la criniera, con due palmi di golaccia spalancata si era preparato a metterci dentro l'orca. E l'orca, tornando indietro, scorticò un asino che pascolava in mezzo a un prato e, indossata la sua pelle, corse di nuovo incontro a quel leone che, credendo che fosse un asino, ebbe tanta paura che scappa ancora.
Per questo, saltato questo secondo fosso, l'orca tornò ad inseguire quei poveri ragazzi che, sentendo lo scalpiccio e vedendo la nuvola di polvere che s'alzava fino al cielo, ne dedussero che l'orca arrivava di nuovo.
La quale, sospettando che il leone la inseguisse ancora, non si era tolta la pelle d'asino, e quando Petrosinella gettò la terza ghianda, ne uscì un lupo, che senza dar tempo all'orca di cercare un'altra soluzione, la inghiottì come un asino.
E gli innamorati, uscendo dai guai, se ne andarono pian piano nel regno del principe, dove, con buona licenza del padre, la prese per moglie e provarono dopo tante tempeste di difficoltà che

Un'ora di buon porto
Fa scordare cent'anni di tempesta

Traduzione di Angela Matassa

*A maggio, secondo una tradizione risalente al '600, e precisamente il 4 maggio,  si decideva il cambiamento di casa e si effettuavano i traslochi.

Testo Originale nella pagina: G.B. Basile.

martedì 11 marzo 2014

Il Principe Pettirosso, Luigi Capuana

Credo sia l'unico caso di prequel fiabesco che abbia mai letto. E ricordo che, pur chiamandolo "antefatto", mi piacque molto anche da bambina. Quindi, dopo aver postato "Cingallegra", è inevitabile la rilettura de "Il Principe Pettirosso".

'era una volta... Sì, sì, non ho dimenticato la promessa; parola di Raccontafiabe è parola di Re; ed ecco la storia del principe Pettirosso. Dunque c'era una volta un Principe e una Principessa giovani e sposati da qualche anno; lui, buono, gentile, caritatevole; lei, bella, ma piena di capricci e talvolta superbiosa e crudele. Comandava, e voleva essere subito obbedita; esprimeva un desiderio e pretendeva che fosse immediatamente soddisfatto. Se qualcuno dei servitori, dei dipendenti, non intendeva bene i suoi ordini, o li eseguiva male, diventava una furia. Invano il marito tentava di rabbonirla:
"Principessa!... Principessa!... "

Sonrel E.


Si rivoltava contro di lui, gli rispondeva con parolacce che non stavano punto bene in bocca di una dama sua pari. Una volta si era incapriccita di una pianta del giardino che circondava il castello dove essi abitavano. L'annaffiava lei, la ripuliva lei; guai se il giardiniere si permetteva di levar via una foglia avvizzita e cascata per terra! Una pianta comune, ma la Principessa si era messa in testa che dovesse far fiori e frutti rari. Una sera, scende in giardino e scorge tra i rami fili di paglia, con alcune piumine e il groviglio di un po' di refe. Le parve un delitto.
"Giardiniere, che significa questo?"
"Qualche coppia di uccellini si prepara il nido, Principessa".
"Buttate via ogni cosa; non voglio nidi su la mia pianta".
E il giardiniere, presi quei fili di, paglia, quelle piumine, quel po' di refe, ne fece un batuffolo e lo buttò via. Fra i rami di un'alta pianta vicina due uccellini svolazzavano e strillavano, quasi piangessero di veder dispersi quei primi materiali del loro nido.
"Poverini!", esclamò sotto voce il giardiniere.
E, il giorno dopo, vedendoli andare e venire affannosamente, portando coi becchi fili di paglia, piume, foglie secche, grovigli di refe, biòccoli di lana e cose simili, per ricostruire con ostinatezza il nido nel posto già scelto, il giardiniere li compiangeva:
"Verrà la Principessa e vi disfarà ogni cosa! Mancano piante e rami, poverini!" Ma gli uccelletti non intendevano le parole del giardiniere, e andavano e venivano affannosamente: verso sera, il loro nido era già bell'e finito. Appena la Principessa lo scòrse tra i rami, se la prese col giardiniere.
"Che colpa ne ho io? Poverini, hanno fretta di depositarvi le ova".
"Ah sì? Domani ne farò una frittatina pel gattino".
Attese che la femmina avesse terminato di deporre le ova, e ordinò al giardiniere: "Portatemele in cucina, e disfate quel nido!"
Il giardiniere obbedì a malincuore: aveva le lacrime agli occhi sentendo gli strilli degli uccellini che parevano un pianto. La crudele Principessa ruppe di sua mano gli ovicini in un tegamino, vi aggiunse cacio e pane grattato, e ne fece, come aveva detto, una frittatina pel gattino che le stava tanto a cuore. Il gattino esitava a mangiarla, miagolava, si ritirava indietro. Ma quando la Principessa si era ficcata in testa una cosa, non c'era verso di farla desistere.
"Il gattino non ha fame", gli disse il Principe.
"Fame o non fame, deve mangiare questa frittata, l'ho fatta apposta per lui"
Il gattino, preso pel collo, col muso nel tegamino, dovette mangiare per forza. Ma aveva appena ingoiato l'ultimo boccone, che Meo! Meo! Meo! stirava le gambe e moriva, quasi avesse preso un veleno. La Principessa rimase scossa da quella disgrazia: il gattino era la sua bestiolina prediletta. E la notte dopo fece un brutto sogno. Si destò atterrita:
"Ah, Principe, se sapeste che cosa ho sognato!"
"Che cosa, Principessa?"
"Tante piume, tante piume fioccavano giù dal cielo come falde di neve, ed io mi trovavo appesa al collo una padellina di rame. Le piume mi toglievano il respiro: la padellina pesava, pesava... È un triste presagio, certamente".
"Si sognano tante sciocchezze, Principessa!"
"No, Principe! Bisogna consultare coloro che spiegano i sogni".
"Li consulteremo,.. Intanto non vi affliggete per così poco!"
Furono chiamati parecchi sapienti. Stettero a sentire, seri, con le sopracciglia corrugate, sfogliarono a lungo i libroni che avevano portati con loro. Chi diceva una cosa, chi un'altra, e ognuno affermava che la sua spiegazione era la vera. "Mettetevi d'accordo, signori miei!"
Il Principe non poteva persuadersi che quelle piume fioccanti dal cielo e quella padellina di rame appesa al collo di sua moglie significassero tante opposte cose.
"Mettetevi d'accordo, cari miei!"
"Invece di mettersi d'accordo, quei sapienti finivano col darsi vicendevolmente dell'asino, e con lo scaraventarsi addosso i loro grossi volumi. La Principessa non si dava pace.
"Bisogna consultare un gran Mago! La cosa è troppo intrigata, se nessuno di questi sapienti è riuscito a spiegarla".
"Si sognano tante sciocchezze, Principessa!"
"No, Principe! Questa volta ho un grande sgomento nel cuore".
"Consulteremo il mago Barba-d'oro. Lo manderò a chiamare al castello".
E spedì persona fidata con ricchissimi doni. Il mago Barba-d'oro accettò i doni, ma quando sentì di che cosa si trattava, rispose sdegnato:
"Non sono il servitore di nessuno.

Sia signore, sia vassallo, 
Né in carrozza, né a cavallo 
Chi non viene coi suoi piedi, 
Barba-d'oro non riceve"

Il messaggero tornò con questa risposta. Per arrivare alla abitazione del Mago bisognava camminare tre giorni e tre notti attraverso luoghi incolti, infestati da bestie feroci, forteti, boscaglie, orridi sentieri. Il messaggero aveva temuto di non tornare vivo al castello.
"Mi sembra un bel modo di dirci: Non venite; è proprio inutile".
"No, Principe, a qualunque costo!"
Se la Principessa era testarda per cosine da nulla, figuriamoci ora che viveva sotto lo strano terrore del suo sogno! Invano il Principe si sforzava di convincerla che i sogni non hanno né capo né coda. Le voleva bene, e vedendola ostinata a intraprendere il pericoloso viaggio, cominciò a sentirsi penetrare nell'animo lo stesso sgomento di sua moglie. Quel sogno doveva essere un cattivo presagio! E decisero d'andare a piedi dal mago Barba-d'oro. Si misero in viaggio all'alba e camminarono tutta la giornata. La Principessa era così impaziente di avere la spiegazione del suo sogno, che non si curava della fatica e dei disagi del cammino.
"Riposiamoci un po', Principessa!"
"Più in là, Principe, più in là".
Forteti, boscaglie, orridi sentieri; e la notte, sotto il cielo stellato senza luna, urli di bestie feroci, vicini, lontani, che li atterrivano e non permettevano ch'essi chiudessero un occhio. Un giorno e una notte; e poi daccapo, un altro giorno e un'altra notte. Per quegli orridi sentieri non s'incontrava anima viva. Il povero Principe non ne poteva più.
"Riposiamoci un po', Principessa!"
"Più in là, Principe, più in là!"
Finalmente, il terzo giorno, verso sera, ecco tra gli alberi la casa del Mago. Con la facciata annerita dal tempo, tutta coperta di macchie di umido e di muffa verdastra, coi vetri delle finestre appannati dalla, polvere e dai ragnateli, quella casa ispirava ribrezzo. La Principessa, col fiato al denti, con le gambe che le si piegavan sotto, fece uno sforzo, giunse davanti alla porta e picchiò. Comparve il mago Barba-d'oro.

Stegg A.

"Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!"
Il Principe e la Principessa allibirono.
"Entrate, ristoratevi, e andate a letto. Domani, con comodo, riparleremo del sogno".
Il Principe e la Principessa allibirono. Quel Mago sapeva tutto! Il giorno dopo il sole era già alto ed essi dormivano ancora. Se non la svegliava il Principe, la Principessa avrebbe dormito fino a tarda sera. Il Mago li attendeva nel suo laboratorio.
"Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!"
"Perché, mago Barba-d'oro?"
"Non lo sapete che i nidi sono cosa sacra? Distruggere un nido è come appiccare il foco a una casa. Voi avete impedito di nascere a sei creature di Dio e per malvagità, non per altro. Ne sarete gastigata. In che modo io non so dirvelo. Ve lo dirà la fata Cicogna".
"E dove si trova la fata Cicogna?"
"Guardate da questa finestra: laggiù, laggiù, su quel tetto. Badate però di non chiamarla fata Cicogna, ma fata Splendore. Le piume e la padellina di rame del sogno significano il vostro gastigo. Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!"
"Grazie, mago Barba-d'oro!"
E all'alba del giorno dopo partirono. Cammina, cammina, cammina, e al tetto della fata Cicogna, che dalla finestra era parso così vicino, non si arrivava mai. La Principessa non osava di rifiatare, pensando che tutti quei disagi il Principe li soffriva per colpa di lei. Ma forse essi erano niente, in confronto dei guai che li attendevano. Il mago Barba-d'oro aveva ripetuto più volte:
"Ah, Principessa, Principessa, quanto vi costa una frittatina!"
Giunsero alfine, stanchi morti. La fata Cicogna stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un'ala: dormiva. Attesero che si svegliasse. Abbassò l'altro piede, distese il collo, sbatté le ali e mandò fuori un rauco grido, che parve sbadiglio.
"Fata Cicogna, fata Cicogna, ci manda il mago Barba-d'oro".

Stegg A.

Nello sbalordimento, la Principessa aveva dimenticato di chiamarla fata Splendore.

"Ha fatto mala bisogna 
Chi cerca fata Cicogna: 
Fra le piume nasce un giglio, 
È figlio e non è figlio. 
Padella preparata 
Frittata e non frittata"

Aperse le ali, tese i piedi e la fata Cicogna volò via.
"E ora come faremo? Bisognava dire fata Splendore!"
"Torniamo dal Mago; ci consiglierà".
E rifecero la strada.
"Ah, mago Barba-d'oro! Mi scappò detto fata Cicogna!"
"Non vi perdete d'animo. Fate fare un gran nido d'oro e portateglielo; non c'è altro rimedio, Principessa".
"Faremo fare un gran nido d’oro - disse il Principe. - Ma che cosa significano le parole: È figlio e non è figlio? Frittata e non frittata?"
"Ve lo deve dire soltanto fata Cicogna".
Tornarono al castello, che erano quasi irriconoscibili, ed ordinarono subito un gran nido di cicogna tutto d'oro. Quando fu pronto, dopo un mese, Principe e Principessa si rimisero in cammino, ma questa volta a cavallo, e andarono direttamente da fata Cicogna. Stava sul tetto, ritta sopra un piede, col collo nascosto sotto un'ala: dormiva. Attesero che si svegliasse.
"Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barba-d'oro".
"lo mi chiamo Cicogna e non Splendore!"
Principe e Principessa si guardarono in viso, contristati.
"Accettate, vi preghiamo, questo povero nido".
Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco il nido d'oro e lo ripose sul tetto.

"Ha fatto mala bisogna 
Chi non cerca fata Cicogna. 
Tra piume nasce un giglio, 
È figlio e non è figlio. 
Padella preparata, 
Frittata e non frittata". 

Aperse le ali, tese ì piedi e fata Cicogna volò via.
Principe e Principessa non se l'aspettavano. La Principessa non aveva sbagliato. "Ho detto: fata Splendore, è vero?"
"Sì, fata Splendore".
"O dunque?"
"Torniamo dal Mago, ci consiglierà".
"Non vi perdete d'animo - disse il Mago - Fate fare due ova d'argento grosse quanto le ova di cicogna e portategliele".
"Ma come bisogna dire: fata Cicogna o fata Splendore?"
"Sempre fata Splendore ".
E un mese dopo furono di ritorno con le due ova d'argento.
"Fata Splendore, fata Splendore, ci manda il mago Barba-d'oro. Accettate queste due ova".
Fata Cicogna stese il collo, afferrò col becco prima uno poi l'altro ovo e li collocò nel nido d'oro e vi si accoccolò come per covarli.

"Ha fatto buona bisogna 
Chi ha cercato fata Cicogna. 
Tra piume nasce un giglio, 
È figlio e non è figlio. 
Padella preparata, 
Frittata e non frittata.

Quando avrò covato quest'ova, tornate e saprete".
"Quanto ci vorrà?"
"Il sole ora spunta da quel monte, dovrà spuntare da quella collina".
Il Principe calcolò che ci volevano tre mesi. E, passati i tre mesi, rifecero il cammino. Trovarono la fata Cicogna accoccolata nel nido d'oro, quasi per covare le ova d'argento.
"Fata Splendore, fata Splendore, spiegatemi il sogno, se vi piace".
"Avrete presto un figlio, e sarà uomo e sarà uccello..."
"Che disgrazia, fata Splendore!"
" ... fino ai vent'anni, Principessa. Poi diventerà un bel giovane, ma dopo aver trovato la sposa".
"E la padellina che cosa significa?"
"Significa la sposa… Non dovete saper altro".
"Ma che uccello sarà nostro figlio?", domandò il Principe.
"Quel che la Principessa vorrà; passerotto o pettirosso".
"Pettirosso, fata Splendore".
"E pettirosso sia, Principessa. Principe Pettirosso è un bellissimo nome".
"Che disgrazia, fata Splendore!"
"Avrebbe potuto accadervi di peggio: i nidi sono cosa sacra".

Erko V.


La Principessa era in grande angoscia, pensando che suo figlio fino ai vent'anni sarebbe stato un pettirosso. E quando partorì e fece un bel bambino non credeva ai suoi occhi.
"Fata Cicogna...!
"No, fata Splendore", la corresse il Principe.
"Fata Splendore ha voluto metterci paura. Tanto meglio che sia finita così"
"Però..."
"Però?"
"Non son, però, rassicurato del tutto".
"Non siate il corvo del malaugurio pel bambino".
"Stiamo a vedere".
"Stiamo a vedere".
Una mattina la Principessa, mutando i pannolini al bambino, diè un grido di orrore. Tutto il corpicino della sua creatura era coperto di una peluria gialliccia come quella dei pulcini appena nati. E il corpicino pareva già un po' dimagrito, quasi rattrappito.
"Figliolino, figliolino mio!"
La Principessa aveva fin ribrezzo di toccarlo. Di giorno in giorno la trasformazione diveniva più evidente. I braccini prendevano la forma di ali e si coprivano di piume, le gambine si assottigliavano e le dita dei piedi si allungavano in zampine con ugne aguzze. E di mano in mano che le piume invadevano tutto il corpicino che si rattrappiva, si rattrappiva, nasino e labbra si foggiavano in becco. In meno di due mesi, il bambino era diventato il più bel pettirosso che si potesse vedere. Principe e Principessa avevano vergogna di far sapere che il loro figliolino era diventato un pettirosso. Dissero che lo avevano mandato a balia, lontano. Ma questa finzione non valse. Quando il bambino avrebbe dovuto poter dire:
"Babbo! Mamma!", lo disse il pettirosso, che la Principessa teneva posato su un dito, e n'ebbe paura e gioia quasi nello stesso momento. Non lo potevano più tenere in gabbia: voleva volare qua e là, fare il chiasso con gli altri uccellini su pei rami degli alberi del giardino.
"Non aver paura, mamma! Non aver paura, babbo!"
E volava via, e li chiamava dalla cima di un albero, dalla grondaia di un tetto:
"Mamma! Babbo!"
E spesso portava con sé uno stormo di altri uccellini, passerotti, capinere, cardellini, raperini, pettirossi come lui. Entravano con un gran frullio d'ali, s'inseguivano di stanza in stanza, si posavano sulle cornici dei quadri e degli specchi, sui tavolini, sui letti, indisturbati, perché il Principe e la Principessa avevano paura d'incappare in qualche guaio peggiore di quello sofferto e per cui soffrivano ancora. Anzi la Principessa, visto che quell'invasione ormai accadeva ogni giorno, buttava qua e là miglio, midolle, bricioli, canapuccia, scagliòla, insalatina tritata, e teneva preparati beverini con acqua, ciotoline per potervisi bagnare. Si sarebbe divertita anzi, vedendosi trattata con tanta familiarità da tutti quegli uccellini che, prima, al suo apparire in una stanza, scappavano, se essi, in compenso, avessero badato un poco alla pulizia. Invece, sporcavano da per tutto, cantando, trillando, pigolando, quasi fossero in piena campagna.
"Ah, figliolo, figliolo! Dovresti farglielo capire".
"Compatiscili, mamma, non sanno di far male".
E in aprile e maggio, il castello era pieno di nidi. Non c'era stanza dove i passerotti, i cardellini, le capinere, i pettirossi non ne avessero collocati due, tre, come se il castello fosse stato casa loro. La Principessa ne trovava su le mensole, su i tavolini, negli angoli per terra, su i cassettoni, su gli armadi, su i canapè, su le poltrone, appesi alle branche delle lùmiere, dei saloni, e dei salotti, fin sul cielo del cortinaggio di camera. Ed era un andare, un venire, un pigolare di uccellini appena scovati e affamati con le testine in aria e i beccucci spalancati.
"Ah, figliuolo, figliuolo!"
"Quando sarò cresciuto, non avverrà più, mammina!..."
E quantunque fossero già trascorsi dodici anni, e il Principino parlasse spesso con lei, la povera Principessa non sapeva ancora difendersi da un'impressione di paura. Erano passati dodici lunghi anni, che al Principe e alla Principessa erano parsi dodici secoli! Ora il principino Pettirosso scappava via due volte al giorno e non si sapeva dove andasse. Andava certamente lontano, perché non si udiva più nei dintorni il gorgheggio del suo canto.


Stegg A.

"Principino, dove andate?"
"Vado in cerca della sposa".
"Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità".
"E più buona che bella. Principessa o no, non importa".
"Sì, mamma! Sì babbo!".
E scappava via, e quando tardava a ritornare, Principe e Principessa passavano ore di angoscia mortale.
"Che gli sia capitata qualche disgrazia?"
"Non gli facciamo il cattivo augurio ...."
Appena,arrivava:
"Dove siete stato, Principino?"
"Avete trovato, Principino?"
"Sono stato in cento posti, ma non ho ancora trovato nulla".
"Come? Non ci sono più Principesse a questo mondo?"
"Ce ne sono, mamma, anche troppe, ma non fanno per me".
"E le altre donne?"
"Babbo, le buone non sono belle, e le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò, ho ancora tempo un anno".
"Principessa come voi, non dimenticate la vostra qualità".
"E più buona che bella. Principessa o no, non importa".
"Sì, mamma! Si, babbo!"
E scappava via. La Principessa non poteva sopportare che il Principe dicesse al figlio: "Principessa o no, non importa".
"Come, non importa? Deve dunque abbassarsi fino al fango della terra?"
"Chi ha mai detto questo? Più buona che bella non significa fango, mi pare". "Vedrete che il Principino commetterà qualche sciocchezza".
"Ne commettiamo tutti"
"Ah! Mi rinfacciate ancora?! .... "
E continuavano a bisticciarsi, fino al ritorno del principino Pettirosso.
"Avete trovato?"
"Non ho trovato!"
"Mancano Principesse?"
"Manca quella che vorrei io".
"E le altre donne?"
"Le buone non sono belle, le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò ancora, babbo!"
"Principessa, come voi!"
"E più buona che bella. Principessa o no, non importa".
"Sì, mamma! Sì, babbo!"
E scappava via. Un giorno, finalmente, lo videro tornare con volo così impetuoso che lo credettero inseguito da qualche uccello di rapina. Volava per la stanza, facendo giri, intrecci: sembrava ammattito. Ci volle un pezzetto prima che si calmasse.
"Che cosa accade, Principino?"
"Ho trovato, mamma! Ho trovato!"
"Una Principessa?"
"Una più buona che bella?"
"Principessa, e più buona che bella! Sposerò Cingallegra".
"Ah, figlio, figlio mio!"
La Principessa dètte in un pianto che mai. Chi era Cingallegra? Egli dunque s'immaginava di dover restare pettirosso per tutta la vita! Ci mancava quest' altra disgrazia!
"Chi è Cingallegra?", gli domandò il Principe, angustiato anche lui.
"Colei che canta nell'orto del ramaio".
"È dunque una giovane?"
"Più buona che bella, come tu la volevi".
"Ed è figlia di un ramaio?"
"È più Principessa di me che ora sono pettirosso", rispose ridendo.
"Ah figlio! Figlio mio!"
E la Principessa, sentendogli dire queste cose, dava in un pianto più dirotto. Ora il principino Pettirosso andava via avanti l'alba e tornava col sole non ancora alto.
"Donde venite, Principino?"
"Da Cingallegra, mamma cara".
"Se mi volete bene, lasciatela andare. Cingallegra non fa per voi".
"Se la sentiste cantare, non direste così".
Ripartiva col sole vicino al tramonto e tornava prima che fosse sera inoltrata.
"Donde venite, Principino? "
"Da Cingallegra, babbo caro".
"E come canta Cingallegra?"
"Canta così".
Ma non gli riusciva di cantare con voce umana; gorgheggiava, gorgheggiava, e, dopo un pezzetto, si interrompeva:
"No, non è proprio così!"
E in camera, o su un ramo d'albero del giardino, gorgheggiava, gorgheggiava, provando, riprovando, interrompendosi all'ultimo:
"No, non è proprio così!"
La Principessa era inconsolabile. Pensava: 'Se non avessi distrutto il nido e rotto quegli ovicini, tutto questo non sarebbe accaduto! Ah, figlio mio, figlio mio!'
Né lei, né il Principe, intanto, si ricordavano che il principino Pettirosso era già sul punto di compire i vent'anni. Una mattina, che lo credevano volato via avanti l'alba, non vedendolo ritornare all'ora solita, Principe e Principessa stavano in gran pensiero.
"Che gli sia accaduto, qualche disgrazia?"
"Non gli facciamo il cattivo augurio! "
E si misero alla finestra, guardando verso il punto d'onde pel solito lo vedevano spuntare. Sentirono rumor di passi alle spalle... Principe e Principessa credettero impazzire dalla gioia.
"Sono io, mamma! Sono io, babbo!"
Il Principino aveva cessato di essere pettirosso, ed era un bel giovane, biondo come la madre, alto e ben fatto come il padre. I baci e gli abbracci non finivano più. La Principessa si immaginava che ora il Principino non avrebbe più parlato di Cingallegra. Invece ne riparlò subito. La madre ne fu desolata. II padre, più condiscendente, diceva:
"Poiché è più buona che bella!"
"La figliola di un ramaio! Non acconsento! Non acconsento!"
Il Principe, per calmarla, le disse:
 "Andiamo a prender consiglio dal mago Barba-d'oro".
"Andiamo a prender consiglio dalla fata Cicogna, che ne sa più di lui!"
Si decisero per la fata Cicogna. Ma la mattina che stavano per partire, alzano gli occhi e che cosa veggono? La fata Cicogna su una torretta del castello: il nido d'oro luccicava al sole sotto di essa, e tra l'intreccio delle barrette che figuravano da sterpi, si scorgeva il bianco degli ovi d'argento.
"Oh, fata Cicogna, noi venivamo da voi!..."

"Ha fatto mala bisogna
Chi ha detto fata Cicogna". 

"Fata Splendore! Fata Splendore! - gridò allora la Principessa.

"Tra le piume è nato un giglio, 
Non era figlio ed ora è figlio. 
Padella preparata, 
Frittata e non frittata!"

Aperse le ali, tese piedi, e la fata Cicogna volò via.
"Volete una risposta più chiara?", disse il Principe.
La Principessa chinò il capo, abbattuta.
"Padella preparata, è evidente, significa la figlia del ramaio".
"E frittata e non frittata che vorrà significare?"
"Significa, credo, che tutto andrà pel suo meglio. Ci ha lasciato il nido d'oro e le uova d'argento: è il buon augurio agli sposi".
Come il principe Pettirosso sposasse Cingallegra voi lo sapete da un pezzo e sapete anche che il ramaio e Reginotta furono accolti nel castello e beneficati da loro. Apprenderete oggi il resto, e le due fiabe saranno compiute.
Quando il principe Pettirosso rispondeva, ridendo, al padre:
"È più Principessa di me, che ora sono pettirosso", sapeva bene quel che diceva. In uno di quei giorni che volava attorno da mattina a sera in cerca di una sposa, Principessa come voleva sua madre, o più buona che bella come gli suggeriva suo padre, il Principino aveva incontrata la fata Cicogna.
"Dove vai, piccolo pettirosso?"
"Cerco la mia fortuna, una moglie".
"Vieni con me, te la trovo io".
"Principessa?"
"Principessa".
"Più buona che bella?"
"Più buona che bella! Eccola là". E gli mostrò Cingallegra che cantava, sciorinando i panni nell'orto.
"Più buona che bella può darsi, ma Principessa..."
"Principessa quanto te e più di te".
"Come mai?"
"L'hanno scambiata a balia, e i parenti non se ne sono accorti. La figlia del ramaio aveva una voglia di fragola sotto l'ascella, e Cingallegra non l'ha. Cingallegra è figlia di Principi. Ti basti di saper questo".
Infatti un giorno, a tavola, il principe Pettirosso disse al ramaio:
"Vostra figlia dovrebbe avere una voglia di fragola sotto l'ascella".
"Certamente; sembrava una fragoletta davvero".
"Ma Cingallegra non l'ha".
"Non l'ha?"
E così fu confermato quel che aveva detto fata Cicogna. Ma ora alla Principessa non importava più che Cingallegra fosse o non fosse figliola di ramaio. Non vedeva lume che per gli occhi di lei. Accade spesso così.

Frittata e non frittata, 
La fiaba è terminata.

Da:
"Chi Vuol Fiabe, Chi Vuole?", di Luigi Capuana

giovedì 6 marzo 2014

Cingallegra, Luigi Capuana

'era una volta un ramaio vedovo, che aveva due figliole: una, la maggiore, bella, bionda, alta e snella, con aria così superba, da sembrare che volesse tener discoste le persone; l'altra, bruttina ma piacente, e così modesta così buona, che bastava vederla e sentirla parlare per volerle subito bene.
Il padre era orgoglioso della figliola maggiore, e non nascondeva la sua predilezione. Stava tutta la giornata su l'uscio della bottega, battendo col martello caldaie, pentole, paioli, padelle sopra la incudinetta a palo fissata nel suolo; e continuando a lavorare, dava la voce ai passanti di sua conoscenza, e li faceva ridere con le sue barzellette. Qualcuno, curioso, gli domandava:
"Ramaio, quando mariterete le figliole?"
"Presto. La maggiore la darò a un Reuccio; l'altra a chi vuol pigliarsela".
E quella, approfittando della debolezza paterna, se la passava senza far niente per non sciuparsi le mani, ben pettinata, bene agghindata, affacciata alla finestra quasi stesse davvero in attesa del Reuccio, mentre la sorella doveva affaticarsi a tener pulite le stanzette del mezzanino, a preparare il desinare e la cena, a fare il bucato nell'orticello a pianterreno, a sciorinarvi i panni lavati, con l'unico svago di coltivare, nelle ore libere, una aiuola di fiori in un cantuccio.
E spazzando, spolverando, accendendo il fuoco nei fornelli, risciacquando il bucato e innaffiando i fiori, cantava, cantava, cantava. Aveva una vocina sottile, intonata, che faceva fermar la gente ad ascoltarla dalla via con grande rabbia della sorella maggiore. Le vicine per ciò l'avevano soprannominata la Cingallegra del ramaio.
Alla superbiosa che se ne stava tutto il santo giorno alla finestra, ben pettinata, bene agghindata, con le mani in mano per non sciuparsele, nessuno badava; gli operai, perché sapevano che non si sarebbe mai degnata di sposare uno di loro; i signori perché non volevano abbassarsi a prendere per moglie la figlia d'un ramaio, e neppure farla insuperbire di più, mostrando di ammirarne la bellezza.


Von Blaas E.


Gli anni passavano, e inutilmente il ramaio ripeteva:
"La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela".
Qualcuno, per ripicco, gli rispondeva:
"Ho paura, ramaio, che vi spighiscano in casa".
E lui, picchiando più forte sull'oggetto che aveva per le mani, pentola, paiolo, padella o caldaia, rispondeva:
"La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela".
'La vanità gli ha fatto andar il cervello a spasso', pensava la gente.
Nell'orticello a pianterreno c'era un albero di pesco. Da qualche tempo in qua, appena Cingallegra - anche il padre e la sorella la chiamavano così, ma con tono di sprezzo - appena Cingallegra si metteva a cantare, ecco un frullìo di ali che le faceva alzare gli occhi. Un pettirosso le volava sulla testa, quasi a portata di mano; si allontanava, ritornava, si posava in cima al pesco, riprendeva a volare cinguettando, trillando. Pareva volesse imitare il canto della figlia del ramaio, e che si stizzisse di non riuscirvi. E siccome essa, distratta dall'arrivo dell'uccellino, cessava di cantare, questi, dondolandosi su una rama, se ne stava zitto aspettando.
"Vuoi sentirmi cantare, bell'uccellino?"
Il pettirosso con un trillo faceva intendere: si! si!
E Cingallegra cantava. L'uccellino ascoltava, continuando a dondolarsi allegramente; e, appena essa taceva, riprendeva a provarsi di modulare il canto, tentando di imitarla, ma finiva sempre con un trillo di stizza, e volava via.
Ora che Cingallegra aveva questo svago, a ogni momento di libertà, scendeva sùbito nell'orticello e si metteva a cantare. Il pettirosso però veniva a ore fisse, due volte al giorno, la mattina prima della levata del sole, la sera verso il tramonto. Quando egli non era là, Cingallegra si sentiva sola più dell'ordinario, e faceva di malavoglia le faccende di casa.
La sorella, che se ne stava a grogiolarsi nel letto, non poteva soffrire il canto mattiniero di Cingallegra.
"La vuoi smettere di cantare all'alba? Mi impedisci di dormire".
"La vuoi smettere di dormire fino a tardi? Mi impedisci di cantare".
Ah! Diventava impertinente? E la maggiore se ne lagnò col padre.
"Ed anche si burla di me chiamandomi Reginotta!"

Von Blaas E.


Il padre, che non ci vedeva dagli occhi per lei, rimproverò Cingallegra.
"Le faccio la serva: non basta? Io spazzare, io spolverare, io fare il bucato, io sciorinare i panni, io preparare da mangiare!... E non è vero che voi dite: La maggiore la darò al Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela? Dunque Reginotta le sta bene. Lasciatemi un po' sfogare col canto!"
E la mattina, prima del levare del sole, scendeva nell'orticello, si sedeva sotto il pesco e cominciava a cantare. Da li a poco, ecco un frullio d'ali: era il pettirosso che arrivava cinguettando, trillando, gorgheggiando. Si allontanava, ritornava, si posava in cima al pesco dondolandosi su una rama, e pareva che stesse ad ascoltare. E Cingallegra cantava, cantava cantava, piano, quasi volesse fargli la lezione e dargli agio di apprenderla bene. E appena ella taceva, il pettirosso riprendeva a provarsi di imitarla; ma finiva sempre con un trillo di stizza, e volava via.
Intanto, di giorno in giorno, scendeva a dondolarsi su una rama più bassa. Le volte, però, che Cingallegra si rizzava in piedi e alzava un braccio per afferrarlo, scappava, senza mostrarsi molto spaurito, e tornava subito allo stesso posto.
"Pettirosso, perché non ti lasci prendere?"
E il pettirosso rispondeva con un rapido trillo, quasi dicesse:"Questo no!" "Pettirosso, mi vuoi bene?"
E il pettirosso rispondeva con un lieve gorgheggio, quasi volesse dire: "Tanto! Tanto!"
"Pettirosso, dovresti venire a posarti su questo dito; ti darei un po' di zucchero".
E glielo mostrava. Il pettirosso faceva le viste di accorrere, aliava attorno alla mano con l'indice teso, e via su la rama a dondolarsi e a trillare.
"Pettirosso, sei cattivo. Non canterò più".
Il ramaio, dalla bottega, le dava la voce:
"Cingallegra, con chi parli?"
"Parlo da me! vi dispiace?"
Ah! Diventava impertinente! Indispettito della risposta, il ramaio la minacciò:
"Per le matte c'è il bastone".
E salito su, disse alla figlia maggiore:
"Quando Cingallegra è nell'orto, affacciati alla finestra di cucina senza farti scorgere da lei. Guarda che cosa fa e con chi parla".
Il giorno dopo egli fu stupito di sentire che Cingallegra parlava con un pettirosso. "Cingallegra ha trovato marito!", la schernì a cena la sorella.
"Meglio di Reginotta, che non trova un cane che la voglia".
Il ramaio le allungò un ceffone: "Non si risponde così alla sorella maggiore!" L'indomani, il sole era alto, e Cingallegra non si era levata dal letto.
"Cingallegra, c'è da. fare il bucato".
"Reginotta ha le mani come me".
"Cingallegra, e il desinare?"
"Reginotta ha le mani come me".
Ma che cosa era accaduto da farla diventare tutt'a un tratto così impertinente? - "Cingallegra, c'è tuo marito nell'orto. Ah ah!"
Il pettirosso trillava forte e gorgheggiava: pareva che chiamasse e si spazientisse di attendere. Alla intonazione di scherno e alla risata della sorella, Cingallegra balzò giù dal letto, dicendo:
"Il Reuccio non è mai venuto a cantare per te!"


Von Blaas E.


E, appena vestitasi, corse ad affacciarsi alla finestra, che dava nell'orticello.
Il pettirosso si sgolava; volava attorno, saltellava da un ramo all'altro, e Cingallegra godeva di vederlo stizzito a quel modo.
Gli aveva detto:
"Pettirosso, sei cattivo! Non canterò più."
E voleva mantenere la parola. Ma ecco che l'uccellino va a posarsi sul davanzale e si lascia prendere e accarezzare, e risponde alle carezze con delicati colpettini di becco sulle dita.
"Ti sei finalmente deciso? Ora ti metto in una gabbia e starai sempre con me". Così erano due che cantavano da mattina a sera, con gran fastidio di Reginotta. Cingallegra, intanto che spazzava, o spolverava, o faceva bollire il bucato, o sciorinava i panni, o preparava il desinare e la cena, e il pettirosso che dalla sua bella gabbia l'accompagnava con tali acuti trilli e gorgheggi da sembrare che facessero a gara a chi cantasse più forte. La gente si fermava ad ascoltarli dalla via. "Brava, la Cingallegra del ramaio! Brava! Brava!"
Reginotta masticava bile; e se qualcuno tornava a domandare, scherzando:
"Ramaio, quando mariterete le figliole?", ella rispondeva, prima di suo padre:
"Badate ai fatti vostri, e non vi curate di quelli degli altri!"
Il ramaio però, cocciuto, soggiungeva subito:
"Presto. La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela".
"Me la piglio io!"
Il ramaio si voltava di qua, e di là, per scoprire se qualcuno nascosto in fondo alla bottega avesse risposto in quel modo.
"Chi sei tu, che vuoi pigliartela?"
"Io! Io! Io! Io! Io! Io!"
Era il pettirosso che sembrava rispondesse così, con uno dei suoi più squillanti trilli. Possibile?
"Hai inteso?", disse il ramaio alla figlia maggiore che, non contenta di starsene ben pettinata, ben agghindata, alla finestra, scendeva, da un pezzo, a sedersi davanti all'uscio della bottega, per mettersi più in mostra.
"Hai inteso? Ti par naturale che un pettirosso risponda cosi?"
E ripeté:
"Chi sei, che vuoi pigliartela?"
"Io! Io! Io! Io! Io! Io!"
A quel trillo squillante del pettirosso, Reginotta si rizzò a sedere inviperita, e corse su per afferrarlo e torcergli il collo. Ma appena toccò la gabbia per aprire la porticina: Ahi! Ahi! Ahi! - le dita delle mani le si contorsero orribilmente; più non parevano di creatura umana, ma di qualche bestia mostruosa, con le ugne aguzze, e tutte coperte di scaglie. Sentendo strillare e piangere la sua prediletta, il ramaio accorse, furibondo, ma, alla vista di quelle mani miseramente deformate, rimase di sasso.
Accorse anche Cingallegra che non sapeva niente di quel che era accaduto.
"Scellerata! Scellerata! Guarda che cosa ha fatto il tuo pettirosso!"
"La colpa non è mia, babbo!"
"Voleva ammazzarmi!"
Anche Cingallegra fu spaventata sentendo parlare il pettirosso. Era dunque un uccellino fatato? Cingallegra ne aveva avuto qualche sospetto; ora però non ne poteva dubitar più. E non osava accostarsi alla gabbia, né rivolgere la parola al pettirosso. Le mani contorte e scagliose di Reginotta le fecero gran pietà. Era stata punita giustamente del tentativo feroce, ma Cingallegra pensava che sua sorella aveva l'animo irritato dal non vedersi richiesta da nessuno, e che per ciò era degna di compatimento e di perdono, se non aveva saputo frenarsi. Si fece animo, si chinò sulla gabbia dove il pettirosso saltava da uno stecco all'altro, e mormorò teneramente:
"Te ne prego, pettirosso mio!" E intendeva dire: "Restituiscile le mani bianche e belle come prima".
La porticina della gabbia si aperse da sé, e il pettirosso venne fuori, volò sulle mani di Reginotta, e cominciò a beccargliele delicatamente. In meno che si dice, erano diventate belle bianche come prima. La superbiosa non ringraziò neppure con un cenno del capo; voltò le spalle e andò ad affacciarsi alla finestra, come se niente fosse stato. E il mezzanino e l'orticello tornarono a risonare dei canti di Cingallegra e del pettirosso, e la bottega del ramaio dei colpi di martello con cui egli batteva, su l'incudinetta a paio, caldaie, pentole, paioli, padelle. Sempre di buon umore, dava la voce ai passanti di sua conoscenza, ma se qualcuno gli domandava: "Ramaio, quando mariterete le vostre figliole?", invece di rispondere al solito, picchiava rabbiosamente col martello su l'oggetto che aveva per le mani: pentola, padella, paiolo o caldaia, e brontolava le parole così sottovoce, da non far intendere quel che diceva. Diceva: "Pur troppo ho paura che mi spighiscano in casa!"

Von Blaas E.


E intendeva particolarmente la maggiore.
Il pettirosso di Cingallegra, dopo quel che aveva visto e udito, lo faceva fantasticare. Chi era quell'uccellino fatato? Forse il Reuccio destinato alla figliola maggiore. Vedendo nell'orticello soltanto Cingallegra, l'aveva sbagliata, e forse anche si era lasciato lusingare dalla voce di lei.
"Perché non canti tu pure? Chi sa non venga un pettirosso fatato anche per te". Reginotta alzò sdegnosamente le spalle e non rispose.
"Ne ho pensato un'altra. Comprerò una gabbia e un pettirosso identici a quelli di Cingallegra, li scambieremo, e..."
Reginotta, senza neppure lasciarlo finire di parlare, alzò sdegnosamente le spalle e non rispose. Il padre, che le voleva troppo bene, si angustiava di vederla continuamente triste a quel modo; e malediva il momento in cui gli era venuto in testa di dire alla gente: "La maggiore la darò al Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela!"
Una mattina entrò nella bottega un giovane, di aspetto rozzo, vestito da contadino, con scarpe grosse e cappellone di paglia.
"Compare, che cosa cercate?"
"Una pentola e una moglie".
"La pentola eccola qui. La moglie... Sentite? Ho una figlia che canta meglio d'una cingallegra; se la volete pigliatevela".
"Non compro gatta in sacco".
"Ve la faccio vedere. Ohe, Cingallegra!"
Invece di Cingallegra, si presentò Reginotta.
"Questa non è per voi".
"Allora... tornerò domani".
"E la pentola?"
"Pentola e moglie tutto a una volta".
E appena colui era andato via, accorse Cingallegra.
"Dov'eri? Che cosa facevi?"
"Governavo il pettirosso".
"Hai perduto la fortuna: un marito".
"Il marito che mi vuole sarà qui fra otto giorni".
Il ramaio e la Reginotta si guardarono stupiti. E questa fece subito:
"Dovrà sposare prima di me?"
Era diventata verde dalla bile. Otto giorni dopo, il contadino tornava.
"Compare, che cosa cercate?"
"Una pentola e una moglie".
"La pentola eccola qui. La moglie... Oh! Cingallegra! Se la volete pigliatevela". Invece di Cingallegra si presentava Reginotta.
"Questa non fa per me. Tornerò domani".
"Aspettate: ecco l'altra mia figliola".
Il contadino quasi cantilenando disse:

"Manine che per gli altri vi sciupate, 
D'oro e brillanti coperte sarete.
Piedini che per casa troppo andate, 
Su bei cuscini vi riposerete; 
Vocina che nell'orto ora cantate, 
Gioia di casa mia diventerete.
Cingallegra, mi volete?"

"Vi voglio se vuole mio padre".
"Ne riparleremo, compare, quando avrò maritata la maggiore".
Reginotta aveva dato al padre un'occhiataccia, per questo il ramaio rispondeva così.
"Allora... tornerò tra un mese".
"E la pentola?"
"Pentola e moglie tutto a una volta".
Reginotta, dalla bile, era diventata ancora più verde. Quel zoticone, aveva osato dire: "Questa non fa per me!"
Cingallegra intanto era tornata su, e cantava, cantava, sventolando il fuoco sotto i fornelli. Il pettirosso che già aveva imparato bene, cantava insieme con lei, e si facevano udire per tutta la via. E la gente: "Brava Cingallegra e il suo pettirosso!"

Stegg A.


Un mese dopo, riéccoti il giovane contadino.
"Compare, che cosa cercate?"
"Una pentola e una moglie".
"La pentola eccola qui... La moglie..."
"Eccola qua! Mi volete, Cingallegra?"
"Vi voglio, se vuole mio padre".
"E pigliatevela e portatela via! Ma senza dote né niente!", rispose il ramaio che non ne poteva più.
"La sola gabbia del pettirosso!"
"E una pentola, Cingallegra!"
"Niente, neppure una padellina!", disse il ramaio.
"Tenetevi pentole, paioli, padelline, caldaie, sono tutti bucati e non servono!..."
Il ramaio non aveva badato a queste parole. Ma non appena Cingallegra e il suo sposo erano andati via portando con sé soltanto la gabbia vuota, perché il pettirosso una mattina era scomparso, il ramaio cominciò a disperarsi.
Quando era sul punto di dar l'ultimo colpo a una pentola, a un paiolo, a una padellina, a una caldaia, gli accadeva di picchiare così forte col martello, da farvi un buchino. E più egli tentava di rimediare quel guasto, e più il buchino si allargava. Gli avventori venivano, guardavano bene, e accorgendosene non compravano; e così la bottega si screditava. Di Cingallegra e di suo marito non si sapeva nessuna notizia. Ora il ramaio rimpiangeva quella figliola da lui maltrattata per dar ragione alla sorella maggiore; la casa era divenuta un sudiciume, non ostante che egli avesse dovuto prendere una donna per i servigi. Si desinava male, si cenava peggio: e per giunta gli affari andavano a rotta di collo con quelle caldaie, pentole, padelle, e quei paioli tutti bucati che nessuno voleva comprare.
Intanto, Reginotta continuava a menare la stessa vita di prima: si levava da letto tardi, e poi pettinata, bene agghindata, se ne stava alla finestra o giù in bottega per mettersi in mostra, e non si accorgeva che gli anni passavano e che lei, dalla bile, imbruttiva. Ma un giorno ci mancò poco che non le cogliesse un accidente. Era venuto un giovane signore a comprare molti oggetti di rame. Sceglieva questo e quello, senza osservarli bene e faceva mettere da parte gli oggetti di suo gradimento: un gran cumulo.
Il ramaio si sentiva tremare il cuore pensando:
'E se si accorge dei buchini?'
Quel signore continuava a scegliere senza osservare bene gli oggetti; sembrava che volesse proprio portar via tutta la bottega.
"E questa quando la mariteremo? L'altra è stata fortunata, sposando un cugino del Re!"
"Un contadino, volete dire!"
"Un cugino del Re, ragazza mia. Come? non lo sapete?"
"E dove si trovano?", domandò il ramaio.
"Come? Non lo sapete? Si cammina un giorno e una notte e si arriva a piè di una montagna coperta di boschi. In alto, a mezza costa, c'è il gran castello del cugino del Re. Per ora si trovano colà... Facciamo il conto, ramaio".
Il ramaio volle mostrarsi onesto, e gli disse:
"Prima di pagare, signore, riguardate bene gli oggetti".
Guarda, volta, rivolta, con stupore del ramaio, non c'era in nessuno di essi il minimo buchino.
"Mettete ogni cosa da parte; manderò un servitore domani".
Pagò e andò via.
"Perché piangi, figliola?"
"Perché sono disgraziata!"
"Non disperare. Com'è venuta la fortuna per tua sorella, verrà un giorno o l'altro anche per te".
Una mattina il ramaio vide fermarsi davanti alla bottega un ragazzaccio col vestito a sbrendoli e i piedi scalzi; sembrava mezzo scemo.
"Che cosa vuoi? Come ti chiami?"
"Mi chiamo Reuccio".
Il ramaio trasalì. E senza chieder altro, lo invitò a entrare, a sedersi e corse su dalla figliola.
"È arrivato il Reuccio! Travestito, per non farsi riconoscere; i grandi sogliono fare così".
Reginotta, fuor di sé dalla gioia e dalla vanità, si alzò, si agghindò, e scesa giù, si fece avanti con un grand'inchino:
"Ben venuto, Reuccio!"
"Questa è mia figlia, Reuccio!"
Un grand'inchino anche lui, e soggiunse:
"Comandate, ordinate, fate come se foste in casa vostra".
"Datemi una bella fetta di pane. Non mangio da ieri".
"Altro che pane, Reuccio!"
E mandò la donna a far spesa larga. A Reginotta quegli sbrendoli parevano una ricchezza. Pensava che il Reuccio, travestendosi a quel modo, le dava una gran prova di affezione. E vedendolo divorare come un lupo, a tavola, pensava che doveva costargli molto il fingere di essere affamato. Più Reuccio mostrava in viso il gran stupore di vedersi trattato così, e più il ramaio e la figlia si confermavano che fosse venuto in incognito per conoscerla meglio.
"Ti ha detto niente?", domandava il padre.
"Niente. E a te? Aspettiamo!"
"Aspettiamo!"
Reuccio mangiava, beveva, dormiva, ingrassava a vista d'occhio, ma di chiedere la mano della figlia del ramaio non se ne ragionava. Il ramaio tentava di portare il discorso intorno alle nozze, ma Reuccio non capiva o fingeva di non capire. La figlia fu meno paziente del padre, e una mattina disse a Reuccio:
"Se siete venuto per sposarmi, sposiamoci subito".
"Ah! Ah! Ah!", Reuccio si contorceva dalle risa.
"Perché ridete, Reuccio?"
"Ahi Ah! Ah!.. Sposiamoci pure!"
"Così, con codesti cenci?"
"Fatemi voi un bel vestito. Ah! Ah! Ah!", Reuccio rideva come un matto. Reginotta era dispiacente di dover sposarsi senza carrozze, senza festa, come una popolana qualunque; ma, pur di diventare Reginotta davvero, si rassegnava.
La festa e il resto verrebbero poi; e allora toccava alla Cingallegra di crepare di invidia e di rabbia. Sposarono alla chetichella. Ma trascorsi parecchi giorni, e vedendo che le cose andavano come prima, cioè che colui mangiava, beveva, dormiva, ingrassava, e non accennava a condurla al palazzo reale del suo regno, Reginotta non si ritenne più:
"Insomma, Reuccio, quando andiamo al palazzo reale?"
"Quando voi volete, moglie mia".
La prese sotto il braccio e la condusse davanti al palazzo reale.
"Non entriamo?"
"Non s'entra, ci sono le guardie".
"E voi non siete il Reuccio? Non comandate ad esse?"
"Mi chiamo Reuccio ma non sono Reuccio".
"Non siete Reuccio? Ah furfante!"
E gli si gettò addosso, per accopparlo. Ma Reuccio le assestò certi pugni sul viso da illividirle le guance. Accorse gente, e li divisero. Tutti domandavano: "Che cosa è stato? Niente. La figlia del ramaio che letica col marito!"
Tornò a casa sola, mezza pazza dal gran disinganno.
"Questa è una infamità di mia sorella Cingallegra!"
"Non era il Reuccio?"
"No babbo: si chiamava Reuccio! Che vergogna! Che vergogna! Bisogna andar via da questo paese, o m'impicco a una trave!"
Il padre che ora, vedendola così disgraziata, le voleva più bene, fece caricare tutta la roba su due carri. Partirono di nottetempo. Dopo un giorno e una notte, arrivarono a piè di una montagna coperta di boschi. A un punto della strada, incontrarono un cacciatore.
"Non proseguite, buona gente. È straripato il fiume e ha inondato la campagna".
"Grazie, cacciatore. E dove potremo ricoverarci?"
"Venite con me. Starete bene".
Potevano mai immaginarsi di capitare nel castello dov'era sposa felice Cingallegra, e che quel cacciatore fosse il principe Pettirosso? Ma Cingallegra li accolse con tanta cordialità che la superbiosa Reginotta sentì spezzarsi il cuore e pianse dolcissime lacrime di ravvedimento. Il ramaio poi non stava nei panni dalla contentezza di aver ritrovato sua figlia Principessa come si ostinava a chiamarla, non ostante che lei e il Principe gli ripetessero:
"Siamo sempre Cingallegra e Pettirosso".
Quel che avvenne dopo, e perché il Principe si chiamasse Pettirosso, ve lo racconterò un'altra volta, se vi piacerà di saperlo. Per oggi, al solito:

Larga la foglia, stretta la via
Dite la vostra che ho detto la mia.

Da:
"Chi Vuol Fiabe, Chi Vuole?", Luigi Capuana.

martedì 4 marzo 2014

Maschere & Maschere

Severini G.


"Paulo Ritratto come Arlecchino", Paulo Picasso


Victor Nizovtsev 


B. Martin Vidal


P.Picasso


A. Remnev






Toshiaki Kato




Moebius


Kinuko Y Craft


V. Francés



Himitsuhana



Moebius


C. Wess




Alexander Yakovlev


Victor Nizovtsev 

Per altre "Maschere", QUI, sulla pagina Facebook

lunedì 3 marzo 2014

La Barca della Signora Di Shalott Arriva a Camelot

Le mie preferite sono quelle in cui è sola. Arriva morta a Camelot. Tennyson ne descrive la fine come se le si dissanguassero lentamente le vene e l'anima attraverso il canto sempre più flebile.


Anderson S.


Hughes A.



Grimshaw John Atkinson



Giancola D.



Unknown

sabato 1 marzo 2014

La Mammadràa (La Mamma-Draga) Così Come la Descrive il. Pitrè


"Le draghe o mammadraghe portano il nome dei mariti, e pari ad essi hanno la leggerezza nel segreto e la imprudenza del parlare là ove meno dovrebbero: di che le conseguenze peggiori per loro. Ma tra esse e i mariti v'è una certa differenza di istinti; chè quello de' draghi è di malfare, sebbene le loro minacce facciano temere di peggio, e quello delle draghe è di mangiar carne umana e di cercarla ad ogni costo. La draga è sanguinaria, e si pasce rubando, come il mostro della novella-mito di Polifemo, pecore, capre e buoi, sempre alla ragione sommettendo il talento. Una ragazza, un giovane che capiti nelle sue mani, può esser certo di dover morire se non verrà in suo soccorso il figlio e la figlia, veri o adottivi, di lei, presi di pietà del malcapitato giovane. I quali, maschio o femmina che sieno, affin di contentare l'antropofaga e di salvare l'innocente, non trovano altro espediente che quello di far nascondere agli occhi, non all'odorato, della sedicente madre o del padre che è di là da venire, quelle povere creature. In altre versioni di queste novelle le draghe son sostituite dalle streghe, che come quelle si presentano sotto vesti di vecchie tapine e brutte quanto sia dato immaginare. In un altro ciclo di novelle le mammedraghe sono fate premiatrici di buone, e punitrici di cattive opere."

Dall'Introduzione a "Fiabe, Novelle e Racconti Popolari Siciliani".

lanLlanas. deviantArt

La Mammadraga, come ho già scritto nel post "Tutto Quello che Non Dovreste Leggere sui Troll", a proposito delle consorelle Trollesse, Orchesse e Ghoule (QUI), non è automaticamente la moglie del Drago - che, al contrario, è spesso una femmina umana (forse, chissà, una Principessa senza lieto fine), ma è spesso, nelle fiabe "sudiste", madre nubile di bellissimi figli ancorché suocera malefica. Ironia delle ironie, ruba il ruolo di Afrodite, nella storia di Amore e Psiche.

La Mammadraga, G. Pitrè, Traduzione Mia

na volta, c'era una madre, e aveva una figlia femmina che si chiamava Rusidda [1]. Un giorno le disse:
"Rusidda, Rusidda, prendi il secchio [2] e va' a gettare la monnezza".



Prinsep V.C.



La ragazzina prese il secchio e andò a gettare la monnezza. C'era un fosso pieno d'acqua [3] e Rusidda andò a gettarla in quel fosso. Versando la monnezza, le scappò di mano il secchio.
A 'sta picciridda [4] ci avevano raccontato che dentro a quel fosso c'era la
Mammadraga, e dice:
"Mammadraga, ridammi il secchio"
"Scendi e pigliatelo", le rispose la Mammadraga.
"No, che tu mi mangi", le rispose la picciridda.
"No che non ti mangio; per l'animuccia di mio figlio Cola, non ti mangio!".
"E come scendo?"
"Metti un piede qua, un piede là e scendi".
Rusidda, per paura che la madre la bastonasse se non le riportava il secchio, scese. Come la Mammadraga la vide, se l'abbracciò tutta:
"Ah, ma quanto sei bella, Rusidda mia, quanto sei bella! Mo', scopami casa".
La picciridda si mise a scopare.
"Che trovi dentro 'sta casa?"
"Monnezzuccia, terruccia, come da tutti i cristianucci [5]".
"Cercami in testa. Che ci sta dentro 'sta testa?"
La picciridda si mise a cercare e disse:
"Pidocchiucci e lendinucci come da tutti i cristianucci".
"Mo' cercami dentro al letto. Che cosa ci trovi?"
"Cimicette e pulcette, come da tutti i cristianucci".
"Quanto sei bella, Rusidda! Che su 'sta bella fronte ti spunti una stella che per tanto splendore chi ti guarda deve abbassare gli occhi. Quant'è bella 'sta testa! Che su 'sta testa ti nascano capelli come fili d'oro, e, quando ti pettini, da una parte ti cadano perle e diamanti, e, dall'altra, frumento e oro!".
Poi la portò in una stanza, dove c'erano panni vecchi e panni nuovi. E cominciò dalle calze, un paio buono e un paio che non valeva niente.
"Quali vuoi?"
Rusidda le disse che voleva quelle più scadenti.
"E io ti voglio dare le più fini", le disse la Mammadraga. Poi la camicia, e lei si prese la più consumata. Poi la veste: lei voleva la più vecchia e la Mammadraga le diede quella più nuova. E poi tutto il resto, finché la Mammadraga la rivestì a nuovo e con abiti tanto belli che sembrava una bambola di porcellana [6].



Van Blaas E.



Infine, le regalò una bella sommetta e Rusidda se ne risalì. Appena la madre la vide:
"Ah, bellezza mia! E come diventasti così bella?"
E Rusidda le raccontò tutto quanto. Ma sapete com'è con i vicini!



Van Blaas E.



Una comare cominciò a fare tante e tante domande che la madre di Rusidda le raccontò tutto per filo e per segno [7]. 'Sta comare aveva una figlia orrenda quanto gli sfregi d'un coltello, e le disse:
"Senti a mamma, hai visto quante cose ha dato la Mammadraga a Rusidda? Vai a gettare la monnezza, butta il secchio nel fosso e poi cerca di fartelo ridare dalla Mammadraga".
Quella così fece; prese il secchio e lo gettò dritto nel fosso con tutta la monnezza:
"Mammadraga, Mammadraga, ridammi il secchio!"
"Scendi giù e vieni a pigliartelo".
Senza farsi pregare, quella scese nel fosso. La Mammadraga le fece scopare casa e poi le disse:
"Che trovi dentro 'sta casa?"
"Monnezzaccia e terraccia, come da tutti i cristianacci"
"Cercami in testa. Che ci sta dentro 'sta testa?".
La picciridda si mise a  cercare e disse:
"Pidocchiacci e lendinacci, come da tutti i cristianacci".
"Mo' rifammi il letto. Che ci sta dentro?"
"Cimiciacce e pulciacce, come da tutti i cristianacci"
"Ma quanto sei brutta! - le disse la Mammadraga - Che su questa fronte ti possa spuntare un corno fetente. Che da quei capelli ti possa cadere, da una parte, sterco, e, dall'altra, letame fetente!". Restò proprio contenta la picciridda!
Poi la fa entrare in una stanza, dove c'erano panni vecchi e panni nuovi; le mostra le calze e dice:
"Quali vuoi?"
"Quali voglio? Quelle buone!"
"E io ti  do le più meschine!". Poi, la camicia: di nuovo, la stessa cosa; poi il vestito: lo stesso; finché non la rivestì da brutta servaccia [8]. Infine, le dà un ceffone:
"Vattene!" e quella risalì.
Appena la madre la vide spuntare:
"Madre mia! [9] E chi ti ha fatto 'sta cosa?".
"La Mammadraga!".
E cominciarono le baruffe tra le comari, ma la madre di Rusidda restò ricca, e l'altra, brutta e pezzente. E così il Signore castiga l'invidia.

Raccontata da Rosa Brusca in "Fiabe, Novelle e Racconti Popolari Siciliani", di G. Pitrè.

[1]  Rosetta o, anche, Rosina.
[2] "lu munnidduzzu", un contenitore che è anche un'unità di misura.
[3]  "un puzzàngaru", una buca nel terreno piena di acqua stagnante. Impossibile, come ho letto, tradurre con "pozzo". Fosso, fossa, buca, forra...
[4]  Per i pochissimi che non afferrano il significato di picciridda, ho tradotto una prima volta ragazzina (o bambina, creatura), per poi conservare il termine siciliano per tutta la fiaba, in linea con  Rusidda, 'sta (questa) o ci (gli/le).
[5]  Cristiani, ovvero persone, esseri umani, uomini e donne.
[6]  " 'na pupidda di Girmania".
[7]  "lu 'nchinu di la 'mpanata". La 'mpanata è un rotolo di pasta riempito con carne e/o verdure, e/o uova, ecc. Quindi, metaforicamente, la madre vuota il sacco, descrivendole persino il "ripieno" della 'mpanata.
[8]  Ho seguito il suggerimento in una nota al testo.
[9]  "Figghioli, figghioli!", tradotta alla lettera non avrebbe mai la stessa valenza, mentre Madre! (mia) - così come Maria!- è più comprensibile.

Traduzione: Mab's Copyright

La fiaba in Siciliano è nella pagina, "Fiabe Popolari - Italia".