giovedì 20 febbraio 2014

Il Guardiano di Porci, H.C. Andersen

'era una volta un Principe povero, sovrano di un regno molto piccolo. Tuttavia, il suo reame era grande abbastanza per poter prender moglie, e sposarsi era proprio ciò che desiderava con tutto il cuore. In effetti, ci voleva un bell'ardire a chiedere alla figlia dell'Imperatore: Mi vuoi per marito?, ma egli osò ugualmente, perché la sua casata era  rinomata, e almeno un centinaio di principesse gli avrebbero risposto: Sì, grazie! Vediamo un po' cosa gli rispose, invece, la figlia dell'Imperatore. Ascoltate!



Sulla tomba del padre del Principe cresceva un rosaio: una vera meraviglia. Fioriva solo ogni cinque anni e  dava un'unica rosa, ma che rosa! Il suo profumo era così dolce che, aspirandone la fragranza, si dimenticavano afflizioni e dolori. Oltre a ciò, Il Principe aveva anche un usignolo, e questo usignolo cantava così soavemente da far ritenere che la sua piccola gola contenesse le più dolci melodie del mondo. La Principessa doveva assolutamente ricevere in dono sia il rosaio che l'usignolo: così il Principe li sistemò in due grandi astucci d'argento e glieli inviò. L'Imperatore ordinò che venissero portati nel salone in cui la Principessa stava giocando "alle signore" con le sue Dame di Corte. Quando ella vide i due astucci con i doni, batté la mani per la gioia.
"Speriamo che sia un gattino! ", disse, ma trovò la magnifica rosa.
"Oh, ma com'è ben fatta!" esclamarono in coro le Dame di Corte.
"È più che ben fatta, - esclamò l'Imperatore - è un capolavoro!"
Ma la Principessa la toccò e per poco non scoppiò in lacrime.
"Oh, papà - disse la fanciulla - non è artificiale: è vera!"
"Guardiamo un po' l'altro dono prima di abbandonarci al cattivo umore!", disse l'Imperatore, e comparve l'usignolo, e cantò così melodiosamente che fu impossibile dirne male.
"Superbe, charmant!", sospirarono le cortigiane, che parlavano tutte in Francese, ma una peggio dell'altra.
"Quanto mi ricorda il carillon della nostra amata Imperatrice!" disse un vecchio Cavaliere.
"Oh, si, proprio la stessa tonalità, la stessa perfezione."
"Sì, sì!", esclamò l'Imperatore, e scoppiò a piangere come un bambino, ricordando la sposa.
"Tuttavia, voglio sperare che non sia un vero uccellino!", disse la Principessa.
"Ma sì, è proprio un uccellino in carne ed ossa!" risposero coloro che lo avevano portato.
"Sì?! Lasciatelo volar via, se le cose stanno così!", esclamò la Principessa, e si rifiutò categoricamente di ricevere il Principe.

Artus Scheiner

Ma il Principe non si arrese; si camuffò i lineamenti pitturando il viso di nero, si mise in testa un cappellaccio e si presentò alla reggia.
"Buongiorno, Imperatore - disse - Vorrei entrare al Vostro servizio".
"Boh! In molti vorrebbero lavorare qui! - rispose l'Imperatore - Fammi pensare un po': in effetti, ho bisogno di un guardiano di porci. Di porci ne abbiamo tanti!"
E così il Principe venne assunto come reale guardiano di porci.
Gli assegnarono un misero sgabuzzino accanto al recinto dei porci; lavorò tutto il giorno, e, quella stessa sera, aveva già finito di fabbricare un pentolino molto grazioso, tutto contornato da campanelli: non appena l'acqua bolliva, suonavano tutti insieme e in modo incantevole quel vecchio motivo:

Ach, Du lieber Augustin, 
Alles ist weg, weg, weg! 

Ma la cosa più straordinaria accadeva se si immergeva un dito nel vapore: si poteva riconoscere il profumo del cibo che cuoceva su ogni fornello della città, casa per casa! Altro che la rosa!
La Principessa, scortata dalle Dame di Corte, si trovò a passare da quelle parti, e quando udì il ritornello, si fermò, tutta entusiasta. Anche lei sapeva suonare Ach, Du lieber Augustin - per la veritàera l'unico motivo che fosse in grado di suonare... e con un dito solo!
"È quello che so suonare anch'io! - esclamò - Questo guardiano di porci deve avere una certa educazione. Presto, va' a chiedergli quanto vuole per quello strumento".
E così una delle Dame dovette entrare nel porcile, ma, prima, calzò un paio di alti zoccoli.
"Quanto vuoi per quel pentolino?", chiese la Dama.
"Voglio dieci baci dalla Principessa!", rispose il guardiano dei porci.
"Dio, proteggici!" esclamò la dama.
"Non lo vendo per meno", affermò il guardiano dei porci.
"Allora, che ha detto?" chiese la Principessa.
"Non oso ripeterlo, - rispose la Dama - è troppo orribile!"
"Dimmelo in un orecchio." E lei fece così.
"Che sfacciato!" disse la Principessa, e fece per andarsene, ma aveva fatto solo pochi passi che i campanellini ricominciarono a suonare deliziosamente:

Ach, Du lieber Augustin 
Alles ist weg, weg weg!

 "Ascolta, - disse la Principessa - va' e chiedigli se non si accontenta di dieci baci dalle mie Dame."
"No, grazie!- rispose il guardiano dei porci - dieci baci dalla Principessa, o mi tengo il pentolino."
"Che testardo! - sbottò la Principessa, spazientita - ma  voi dovete mettervi tutte intorno perché nessuno possa vedere!"

Postma L.

E le Dame la circondarono, e allargarono le ampie gonne, così il guardiano ebbe i dieci baci e lei il pentolino. E quanto si divertì! L'acqua doveva bollire giorno e notte nel pentolino: sapeva ciò che veniva cucinato in ogni cucina, dal palazzo del Ciambellano alla casetta del calzolaio.
Le Dame ballavano e battevano le mani:
"Sappiamo chi mangerà la zuppa e chi le frittelle, chi la farinata e chi le bistecche! Com'è interessante!"
"Proprio interessante!" disse l'Intendente.
"Sì, ma non dirlo a nessuno. Io sono la figlia dell'Imperatore!"
"Dio ci salvi!" esclamarono tutte.
Il guardiano dei porci, o meglio il Principe, anche se tutti lo credevano un vero guardiano di porci, non stette con le mani in mano, ma fabbricò una raganella: quando la si faceva ruotare, suonava tutta la musica da ballo che era stata composta dalla creazione del mondo!
"Ma è superbe! - esclamò la Principessa passando nelle vicinanze - non ho mai ascoltato musica più bella! Andate a chiedergli quanto costa quello strumento, ma attente, io non ho intenzione di dargli altri baci!"
"Vuole cento baci dalla Principessa!" disse la Dama che era entrata nel recinto dei porci.
"E' proprio matto!" esclamò la Principessa, e se ne andò, ma, fatti pochi passi, si fermò di botto e disse:
"L'arte va incoraggiata! Io sono la figlia dell'Imperatore! Ditegli che riceverà dieci baci da me, come ieri. Il resto lo avrà dalle mie Dame."
"Sì, ma noi non vogliamo baciare un porcaio!" esclamarono le Dame di corte.
"Uffa, quante storie! - disse la Principessa - Se lo bacio io, allora potete farlo anche voi! Ricordatevi che campate a spese mie!"... e così la Dama dovette tornare dal guardiano di porci.
"Cento baci dalla Principessa! - ripetè lui - Altrimenti, amici come prima." "Mettetevi tutt'intorno!" gridò la Principessa, e, subito,  le Dame la circondarono e la Principessa baciò il guardiano di porci.

Axel Mathiesen

"Che cosa ci fa tutta quella gente al recinto dei porci?" si chiese, intanto, l'Imperatore che si era affacciato al balcone. Si stropicciò ben bene gli occhi, e inforcò gli occhiali.
"Ma sono le Dame di Corte! Che staranno combinando? È meglio che scenda a controllare di persona!" E, calzate per bene le ciabatte, che, in realtà, erano un vecchio paio di scarpe, si precipitò nella corte. Si avvicinò pian pianino, e le Dame non si accorsero di lui, tutte intente com'erano a contare i baci: lo scambio doveva essere onesto, il guardiano di porci non doveva ricevere un bacio in più, né uno in meno di quelli pattuiti. L'Imperatore si alzò sulle punte dei piedi.
"Ma che succede qui?" gridò quando vide che la Principessa baciava il porcaio. E li colpì in testa con una ciabatta proprio mentre il guardiano di porci stava ricevendo il suo ottantaseiesimo bacio.
"Via! Fuori!" gridò l'Imperatore, perché era davvero molto arrabbiato, e così sia la Principessa che il guardiano di porci furono cacciati dal Regno.
Lei scoppiò in lacrime e il guardiano di porci la rimproverava. Cominciò anche a diluviare.
"Ah, me disgraziata!- si disperava la Principessa - Se solo avessi accettato quel bel principe! Ah, come sono infelice!"
Il guardiano di porci, intanto, si nascose dietro un albero, si ripulì il viso, gettò via gli stracci da porcaio e le si ripresentò davanti nei suoi abiti regali. Era talmente bello che la Principessa si inchinò.
"Non provo che disprezzo per te, ormai!- le disse il Principe - Non hai voluto un principe, non hai saputo apprezzare la rosa né l'usignolo, ma per una carabattola qualsiasi hai baciato il guardiano dei porci. Ti sta bene!"
E così dicendo, rientrò nel suo Regno e si chiuse a doppia mandata, e alla Principessa non restò altro da fare che star seduta fuori e cantare:

Ach, Du lieber Augustin, 
Alles ist weg, weg, weg!

H. C. Andersen

Fiaba letteraria che dimostra una volta di più:
Che da La Superbia Punita di G.B. Basile derivano direttamente almeno due fiabe, "Il Re Bazza di Tordo" e  il tipo baci in cambio di... (con la partecipazione straordinaria - a volte - degli augusti genitori. Il tutto per vincere una scommessa ed evitare alla principessa un matrimonio degradante. Superbia affiancata da Avidità. Insalate e fichi magici, apportatori di corna ramificate o nasi surreali, in alcune varianti,  danno il colpo finale).
Che Andersen è un insopportabile moralista.
Che il suo, come tutti i moralismi, è ipocrita ed incoerente q.b.:
se la Principessa, viziata e superficiale, disdegna la rosa, l'usignolo e il principesco donatore, ma, per levarsi un capriccio, è disposta a baciare il guardiano di porci... che dire di un principe che, per soddisfare il proprio orgoglio ferito, "accudisce", con annessi e connessi, i suddetti suini?

martedì 18 febbraio 2014

La Superbia Punita, G.B. Basile, Giornata Quarta, Cunto Decimo

Il Re di Belpaese, disprezzato da Cinziella, figlia del Re di Solcolungo, dopo aver preso di lei gran vendetta riducendola a mali termini, la fa sua moglie.


'era una volta un Re di Solcolungo, che aveva una figlia chiamata Cinziella, bella come una Luna, ma nella quale ogni dramma di bellezza era contrappesato da una libbra di superbia. Cosicché, non facendo essa stima di persona alcuna, non era possibile che il povero padre, il quale desiderava collocarla, trovasse marito, per buono e grande che fosse, che riuscisse a lei di soddisfazione. Fra tanti principi, che erano concorsi a chiederla in moglie, ci fu il Re di Belpaese, il quale non tralasciò cosa alcuna per cattivarsi l'amore di Cinziella. Ma non tanto esso le faceva buon peso di servitù, quanto quella gli ricambiava cattiva misura di premio; non tanto esso le dava buon mercato dei suoi affetti, quanto quella gli mostrava carestia di volontà; non tanto le era liberale dell'anima, quanto quella gli era scarsa di cuore.

"Sabina", M. Cheval

E non c'era giorno che il pover'uomo non le dicesse:
"Quando, o crudele, fra tanti cocomeri di speranze, che, al coglierli, mi sono riusciti zucche, ne troverò uno rosso? Quando, o cagna spietata, cesseranno le tempeste della tua crudeltà, e io potrò con vento prospero dirizzare il timone dei disegni miei al tuo bel porto? Quando, dopo tante scalate di scongiuri e di preghiere, pianterò lo stendardo dei desideri miei sulle mura di cotesta bella fortezza?".
Ma erano tutte parole gettate al vento, che essa aveva bensi occhi da traforare le pietre, ma non orecchi da sentire i lamenti di chi, ferito, gemeva; e anzi gli mostrava cattiva céra, come se le avesse tagliato la vigna. Talché, infine, quel povero Signore, sperimentate le crudeltà di Cinziella, che di lui faceva quel conto che altri fa di un qualsiasi furfante, si ritirò con le sue entrate, e, con impeto di disdegno, disse: "Mi chiamo fuori del fuoco d'amore!"
Ma, insieme, fece giuramento di vendicarsi di quella mora saracina, in tal maniera che si dovesse chiamar pentita di averlo tanto tormentato. Partito da quel paese, e fattosi crescere la barba e datosi una tinta alla faccia, a capo di alcuni mesi, travestito da villano, tornò a Solcolungo, dove, a forza di mance, procurò di entrare per giardiniere del Re. Lavorando in quel giardino come meglio poteva, un giorno stese sotto la finestra di Cinziella una roba all'imperiale, tutta puntali d'oro e diamanti. Le damigelle, che la videro, subito la additarono alla padrona, che mandò a dire al giardiniere se la volesse vendere; e colui rispose che non era né mercante né rivenditore di spoglie vecchie, ma che l'avrebbe donata a patto che lo avessero lasciato dormire una notte nella sala della Principessa.
Le damigelle dissero a Cinziella:
"Che ci perdi, signora, a dare questa soddisfazione al giardiniere, e beccarti quella roba, che è cosa da regina?".
E Cinziella, fattasi uncinare dall'amo che pesca ben altri pesci che questi, si contentò, e si prese la roba e gli die quel gusto.
La mattina dopo, fu vista nello stesso luogo stesa un gonna della medesima fattura; e, ripetendo Cinziella la domanda, ne ebbe uguale risposta, con la richiesta di dormire nell'anticamera della Principessa.
E anche questa volta Cinziella si fece tirare dalla gola e, per acquistare il vestito, accordò al giardiniere quel contento. La terza mattina, prima che il Sole venisse a battere il focile sull'esca dei campi, il giardiniere mise in mostra nel medesimo luogo un bellissimo giubbone, che andava di concerto col vestito; e Cinziella, mirandolo, disse:"Se non ho quel giubbone, non sarò contenta".
Chiamò, dunque, il giardiniere, e gli parlò:"E' necessario, brav'uomo mio, che tu mi venda quei giubbone che ho veduto nel giardino, e prenditi il mio cuore".
Il giardiniere rispose:
"Io non lo vendo; ma, se vi piace, vi do il giubbone, e anche una catena di diamanti, e voi fatemi dormire una notte nella camera vostra".
"Ora hai del villano ! - esclamò Cinziella - Non ti basta che hai dormito nella sala, e poi nell'anticamera: ora vuoi la camera! A poco a poco, vorrai dormire nel mio letto!".
Il giardiniere disse: "Signora mia, io mi tengo il giubbone mio, e voi la camera vostra: se avete voglia di stringere l'affare, conoscete la strada. Io mi contento di dormire per terra, cosa che non si negherebbe a un turco; e, se vedeste la catena che voglio darvi, forse mi dareste un peso più giusto".
Cinziella, in parte tirata dall'interesse, in parte sospinta dalle damigelle, che aiutavano i cani alla salita, si lasciò andare a contentarlo. E, venuta la sera, quando la Notte, come corsaro, getta l'acqua di concia sulla pelle del Cielo, onde essa diventa nera, il giardiniere, presi la catena e il giubbone, andò all'appartamento della Principessa, e, consegnatele queste cose, fu introdotto nella camera.
La Principessa lo spinse in un angolo e gli disse:
"Ora sta' costà, fermo, e non muoverti, per quanto stimi la grazia mia", e, tirata per terra una linea col carbone, soggiunse: "Se questa passi, la vita ci lasci", e, fatto attorniare della tenda il suo letto, si coricò.

"Fury Path", M. Cheval

Tosto che il giardiniere-Re la sentì addormentata, sembrandogli tempo di lavorare i campi dell'amore, le si coricò a lato, e, prima che la padrona del luogo si svegliasse, colse i frutti amorosi. Costei, destatasi e visto quel che le era accaduto, non volle, per rimediare a un male, farne due, e, per rovinare il giardiniere, mandare in rovina lo stesso giardino; e, traendo di necessità vizio, si contentò del disordine e senti piacere dell'errore; ed essa, che aveva tenuto a disdegno le teste coronate, non si trattenne dall' assoggettarsi a un villanzone, che tale pareva il Re e per tale essa lo stimava. La pratica continuò e Cinziella venne incinta; e, vedendosi di giorno in giorno ingrossare la persona, disse al giardiniere che si conosceva rovinata, se il padre s'accorgeva della cosa, e perciò pensassero tra loro a rimediare al pericolo.
Quegli rispose che non sapeva trovare altro rimedio al male che avevano fatto che di andarsene insieme, e l'avrebbe condotta in casa di una sua antica padrona, la quale le avrebbe dato qualche comodità nel prossimo parto.
E Cinziella, ridotta a mal partito, tirata dal peccato della sua superbia, che la gettava di scoglio in scoglio, si lasciò persuadere da quelle parole, e, abbandonando la propria casa, si commise all'arbitrio della fortuna.
Dopo lungo cammino, colui la condusse a casa sua, e, informata di ogni cosa sua madre, la pregò che dissimulasse, perché voleva farsi pagare la passata boria di Cinziella. E cosi, adattatala in una stalluccia del palazzo, la tenne in vita miserabile, mandandole il pane con la balestra. E un giorno che le serve di casa facevano forno, egli disse loro che chiamassero Cinziella ad aiutarle, e nel tempo stesso insinuò a Cinziella di trafugare qualche ciambelletta per rimedio alla loro fame. La sventurata Cinziella, nel cavare il pane dal forno, profittando dell'istante, tra occhi e occhi, sottrasse una ciambelletta e se la nascose in tasca.
Ma in questo sopravvenne il Re, vestito da quel che era, e disse alle ragazze:
"Chi vi ha dato il permesso di far entrare cotesta donnicciuola guitta in casa? Non vedete alla faccia che è una ladra? Mettetele le mani in tasca e troverete il delitto in genere".
E, frugatala, le trovarono il pane nella tasca, e le lavarono il capo di buona maniera, che tutto il giorno durò la baia e la beffa. Il Re riprese il suo travestimento, andò da Cinziella e la trovò scornata e triste per l'affronto ricevuto. Ma egli le disse che non si desse tanta pena per quel caso, giacché la necessità è tiranna degli uomini, e, come disse quel poeta toscano [1]:

... '1 poverel digiuno 
viene ad atto talor che in miglior stato
avria in altrui biasmato." 

E, se la fame caccia il lupo dal bosco, essa doveva tenersi scusata se faceva quello che non starebbe bene ad altri. E le insinuò di salire ora dove la signora stava tagliando certe tele, e, offrendosi di aiutarla, vedesse di agguantarne qualche pezzo, perché, essendo prossima a partorire, le bisognava tutto.
Cinziella, che non sapeva contrariare il marito (che per tale lo teneva), salì all'appartamento della Regina e, frammischiatasi alle damigelle a tagliare lenzoletti, fasce, berrettini e dande, trafugò un pannolino e se lo mise sotto le vesti. Ma, tornato il Re e fatto un altro rimprovero come già pel pane, e trovatole addosso il furto, ne ebbe un'altra sciroppata d' ingiurie, come se le avessero scoperto sotto un intero bucato; e, rossa di vergogna, se ne ridiscese alla stalla. Anche questa volta il Re ricomparve travestito, e, vedendola afflitta e disperata, la confortò a non lasciarsi vincere dalla malinconia, che tutte le cose del mondo sono opinione, e perciò vedesse ancora se potesse guadagnarsi qualche cosetta, perché ormai il parto era imminente.
"In questo momento, c'è piovuta una bella occasione. La padrona ha fidanzato il figlio con una signora forestiera, alla quale vuol mandare un dono di vesti di broccato e di tela d'oro, belle e fatte, e la fidanzata è giusto della tua statura. Sarà facile dunque, che ti venga nelle mani qualche bel ritaglio, e tu mettilo in corbona [2], che lo vendiamo e campiamo la vita".
Cinziella, eseguendo il comando del marito, s'era chiuso in petto un buon palmo di broccato riccio, quando capitò il Re, e, fatto un gran fracasso, ordinò di frugare Cinziella; e, trovato il furto, la scacciò con vergogna grande.
Ma poi, travestitosi da giardiniere, scese di corsa a consolarla; che, se con una mano la pungeva, con l'altra, per l'amore che le portava, si compiaceva di ungerla, per non spingerla alla disperazione. La sciagurata Cinziella, pel cruccio di quello che le era accaduto, e che teneva castigo del Cielo a causa dell'arroganza e superbia già mostrata, sicché essa, che trattava da stracci pei piedi tanti principi e re, ora era trattata da vile donnicciuola, e avendo avuto il cuore duro ai consigli del padre, ora faceva il viso rosso alle baiate delle serve; per la collera, dico, che provò della vergogna inflittale, si senti venire le doglie.
La Regina, subito avvisatane dal figliuolo, la fece salire nel suo appartamento, e, mostrando compassione dello stato suo, la mise in un letto tutto ricamato d'oro e di perle, in una stanza tappezzata di tela d'oro: cosa che fece strasecolare Cinziella, vedendosi trasportata da una stalla a una camera reale, dal letame a un letto tanto prezioso, e non sapeva rendersi conto di quel che le era accaduto. E le fu attorno gente premurosa, e le dettero brodi e biscottini per ingagliardirla al partorire. Ma, come volle il Cielo, senza troppo affanno, die alla luce due bellissimi maschiotti, che erano la più vaga cosa che si potesse vedere.
Non appena ebbe partorito, che entrò il Re, il quale disse:
" E dove se n' è andato il vostro giudizio, che avete messo la gualdrappa all'asino? È letto cotesto per una brutta donnaccola? Presto, fatela saltare a colpi di randello da questo luogo, e spandete suffumigi di rosmarino nella camera, perché se ne tolga il puzzo".
La Regina allora disse:
"Non più, figlio mio; basta, basta il tormento che hai dato a questa povera giovane! Dovresti ora esser sazio di averla ridotta, con tanti strazi, a berretto di notte; e, se non ancora sei soddisfatto del disprezzo che ti mostrò alla corte sua, a pagarti il debito valgano queste due belle gioie, che essa ti dona".
E fece portare i bambini, ch'erano la più bella cosa del mondo. Il Re, al vedere quei due pacioncelli, si senti tutto intenerire; e, abbracciata Cinziella, si die a conoscere per quel che era, dicendole che quanto le aveva fatto era stato per sdegno di veder trattato a quel modo un re pari suo, ma che da ora in poi l'avrebbe tenuta in palma di mano. E la Regina, dall'altro canto, abbracciandola come nuora e figlia, le dette, insieme col Re, cosi buona mancia per quei figli maschi, che le parve assai più dolce questo istante di consolazione che tutti i passati affanni: benché sempre, d'allora in poi, ebbe in mente di tener basse le vele, ricordando come
figlia della superbia è la rovina.

Traduzione e note di Benedetto Croce
Dalle note:
[1] Petrarca
[2] Testo: miettelo ncorbona, cioè propriamente nella borsa in cui si raccolgono nei templi le offerte.

Il testo originale è nella pagina G.B. Basile.

domenica 16 febbraio 2014

The Lady of Shalott, A. Tennyson








On either side of the river lie
Long fields of barley and of rye,
That clothe the wold and meet the sky;
And thro' the field the road runs by 
To many-towered Camelot; 
And up and down the people go, 
Gazing where the lilies blow 
Round an island there below, 
The island of Shalott.

Willows whiten, aspens quiver,
Little breezes dusk and shiver
Thro' the wave that runs for ever
By the island in the river
Flowing down to Camelot.
Four grey walls, and four grey towers,
Overlook a space of flowers,
And the silent isle embowers
The Lady of Shalott.




By the margin, willow-veil'd,
Slide the heavy barges trail'd
By slow horses; and unhail'd
The shallop flitteth, silken-sail'd
    Skimming down to Camelot
Yet who hath seen her wave her hand?
Or at the casement seen her stand?
Or is she know in all the land,
    The Lady of Shalott?

Only reapers, reaping early,
In among the beared barley
Hear a song that echoes cheerly
From the river winding clearly
Down to tower'd Camelot;
And by the moon the reaper weary,
Piling sheaves in uplands airy,
Listening, whispers " 'tis the fairy
The Lady of Shalott."

There she weaves by night and day
A magic web with colours gay,
She has heard a whisper say,
A curse is on her if she stay
To look down to Camelot.
She knows not what the curse may be,
And so she weaveth steadily,
And little other care hath she,
The Lady of Shalott.

And moving through a mirror clear
That hangs before her all the year,
Shadows of the world appear.
There she sees the highway near
Winding down to Camelot;
There the river eddy whirls,

And there the surly village churls
And the red cloaks of market girls
Pass onward from Shalott.

But in her web she still delights
To weave the mirror's magic sights,
For often thro' the silent nights
A funeral, with plumes and lights
And music, went to Camelot;
Or when the Moon was overhead,
Came two young lovers lately wed.
"I am half sick of shadows," said
The Lady Of Shalott.




Sometimes a troop of damsels glad,
An abbot on an ambling pad,
Sometimes a curly shepherd lad,
Or long-hair'd page in crimson clad,
    Goes by to tower'd Camelot; 

And sometimes through the mirror blue
The knights come riding two and two:
She hath no loyal knight and true,
The Lady of Shalott.

A bow-shot from her bower-eaves,
He rode between the barley sheaves,
The sun came dazzling thro' the leaves,
And flamed upon the brazen greaves
Of bold Sir Lancelot.
A red-cross knight for ever kneel'd
To a lady in his shield,
That sparkled on the yellow field,
Beside remote Shalott.

The gemmy bridle glitter'd free,
Like to some branch of stars we see
Hung in the golden Galaxy.
The bridle bells rang merrily
As he rode down to Camelot:
And from his blazon'd baldric slung
A mighty silver bugle hung,
And as he rode his armor rung
Beside remote Shalott.

All in the blue unclouded weather
Thick-jewell'd shone the saddle-leather,
The helmet and the helmet-feather
Burn'd like one burning flame together,
As he rode down to Camelot.
As often thro' the purple night,
Below the starry clusters bright,
Some bearded meteor trailing light,
Moves over still Shalott.

His broad clear brow in sunlight glow'd;
On burnish'd hooves his war-horse trode;
From underneath his helmet flow'd
His coal-black curls as on he rode,
As he rode back to Camelot.
From the bank and from the river
he flashed into the crystal mirror,
"Tirra Lirra," by the river
Sang Sir Lancelot.

She left the web, she left the loom,
She made three paces thro' the room,
She saw the water-lily bloom,
She saw the helmet and the plume,
She looked down to Camelot.
Out flew the web and floated wide;
The mirror cracked from side to side;
"The curse is come upon me," cried
The Lady of Shalott.

In the stormy east-wind straining,
The pale yellow woods were waning,
The broad stream in his banks complaining.
Heavily the low sky raining
Over towered Camelot;
Down she came and found a boat
Beneath a willow left afloat,
And round about the prow she wrote
"The Lady of Shalott".

And down the river's dim expanse
Like some bold seer in a trance,
Seeing all his own mischance -
With a glassy countenance
Did she look to Camelot.
And at the closing of the day
She loosed the chain and down she lay;
The broad stream bore her far away,
The Lady of Shalott.


Lying, robed in snowy white
That loosely flew to left and right-
The leaves upon her falling light-
Thro' the noises of the night,
She floated down to Camelot:
And as the boat-head wound along
The willowy hills and fields among,
They heard her singing her last song,
The Lady of Shalott.

Heard a carol, mournful, holy,
Chanted loudly, chanted lowly,
Till her blood was frozen slowly,
And her eyes were darkened wholly,
Turn'd to tower'd Camelot.
For ere she reach'd upon the tide
The first house by the water-side,
Singing in her song she died,
The Lady of Shalott.

Under tower and balcony,
By garden-wall and gallery,
A gleaming shape she floated by,
Dead-pale between the houses high,
Silent into Camelot.
Out upon the wharfs they came,
Knight and Burgher, Lord and Dame,
And round the prow they read her name,
The Lady of Shalott.

Who is this? And what is here?
And in the lighted palace near
Died the sound of royal cheer;
And they crossed themselves for fear,
All the Knights at Camelot;
But Lancelot mused a little space
He said, "She has a lovely face;
God in his mercy lend her grace,
The Lady of Shalott!"


sabato 15 febbraio 2014

Biancoviso, G.B. Basile, Pentamerone, Cunto Terzo della Terza Giornata

Renza, chiusa dal padre in una torre, per esserle stato predetto dagli astrologi che sarebbe morta a causa di un osso maestro, s'innamora di un principe, e con un osso, portatole da un cane, fora il muro e fugge. Ma, vedendo l'amante suo ammogliato baciare la sposa, muore di crepacuore, e il principe, per l'angoscia, si ammazza.



'era una volta un re di Fossostretto. che aveva una bella figlia, e, desiderando conoscere la sorte scritta per lei nel libro delle stelle, chiamò tutti i necromanti, astrologi e zingari di quel paese. Venuti costoro alla corte reale, chi scrutò le linee della mano, chi i segni della faccia, chi i nei sulla persona di Renza (che cosi si chiamava la figlia del re), e ognuno disse il suo parere. La maggioranza dei convenuti, per altro, concluse che essa correva pericolo, per un osso maestro [1], di sturare la chiavica maestra della vita.
Avuto quest'oroscopo, il re volle gittarsi innanzi per non cadere, e fece fabbricare una bella torre, dove rinchiuse la figliuola con dodici damigelle e una donna di governo, che la servissero: ordinando, pena la vita, di porgerle sempre, per evitare l'avverso pianeta, carne senz'osso.


Strudwick J.M.


Ora, essendo Renza cresciuta come la Luna, un giorno che guardava dalla finestra della torre, attraverso un cancello di ferro, passò Cecio, figlio della regina di Vignalarga, il quale, a vedere una cosa cosi bella, subito si senti tutto rimescolare. E, poiché quella gli rese il saluto e accennò un bocchino a riso, prese animo e, fattosi più sotto la finestra, le disse:"Addio, protocollo di tutti i privilegi della natura; addio, archivio di tutte le concessioni del Cielo; addio, tavola universale di tutti i titoli della bellezza!".
Renza, all'udirsi dare queste lodi, per la vergogna si fece più bella, e, buttando nuove legna sul fuoco di Cecio, gli versò, come disse quello, sulle scottature acqua bollente. E, non volendo essere vinta di cortesia da Cecio, rispose:"Sii il benvenuto, o dispensa del companatico delle Grazie, o magazzino delle mercanzie della Virtù, o dogana dei traffici di Amore!"
Cecio replicò:"Come mai sta in una torre rinchiuso il castello delle forze di Cupido? Come sta cosi carcerata colei, che è la prigione delle anime? Come sta dietro un cancello di ferro un pomo di oro?".
Renza gli raccontò allora come la cosa andava; e Cecio le disse com'egli fosse figlio di regina, ma vassallo della bellezza sua, e che, se si fosse contentata di svignarsela al regno suo, le avrebbe posto sul capo la corona. E quella, che, sentendo di aver preso odor di chiuso tra quelle quattro mura, non vedeva l'ora di sciorinarsi all'aria aperta, accettò il partito; e gli die appuntamento per la mattina, quando l'Alba chiama gli uccelli a testimoni della macriata [2] che le ha fatto l'Aurora, per scappar via insieme. Cosi, gettatogli un bacio dall'alto della finestra, rientrò, e il principe si ritrasse al suo alloggiamento.
Renza stava pensando al modo di scapolarsela e gabbare le damigelle, quando un certo cane corso, che il re teneva per guardia della torre, entrò in camera sua con un grande osso maestro in bocca, e, mentre se lo rosicchiava sotto il Ietto, Renza, chinandosi, vide l'osso. Subito pensò che fosse strumento che la Fortuna le mandava ai casi suoi; e, scacciando il cane dalla camera, glielo strappò. Die poi a intendere alle damigelle che le doleva il capo, e che perciò la lasciassero riposare senza disturbarla; e puntellò la porta. Cosi sola, si mise con l'osso a lavorare come un muratore di mestiere; e, scantonando una pietra dal muro, tanto fece che la distaccò e sfabbricò in modo che si poteva senza fatica passare per l'apertura. Stracciò poi un paio di lenzuola e le attorcigliò come una corda; e, quando fu rimossa la tela delle ombre dalla scena del Cielo perché l'Aurora usciva a fare il prologo della Tragedia della Notte, avendo udito il fischio di Cecio, attaccò il capo delle lenzuola a uno stipite, e si lasciò scivolare giù nella via. Cecio l'abbracciò teneramente e, postala sopra un asino sul cui dosso aveva gittato un tappeto, s'avviarono alla volta di Vignalarga. A sera, giunsero in un luogo chiamato Viso e alloggiarono in un bellissimo palazzo, dove Cecio appose i termini al bel podere che aveva acquistato, come segnali della possessione amorosa. Ma la Fortuna ha il vizio di arruffar la matassa, di guastare il giuoco e di dar di naso in tutti i buoni disegni degli innamorati; e questa volta, nel meglio dei loro diletti, fece arrivare un corriere con una lettera della madre di Cecio, la quale gli diceva di partire sull'istante per rivederla, altrimenti non l'avrebbe ritrovata viva; giacché essa tirava quanto più poteva, ma si trovava già sul punto di arrivare al rum e bus dell'alfabeto della vita.
A questa cattiva notizia, Cecio disse a Renza:"Cuor mio, il negozio è d'importanza, e bisogna che io corra per le poste per giungere in tempo. Tu trattieniti cinque o sei giorni in questo palazzo, che io torno subito o mando gente a prenderti".
Scoppiò in pianto Renza, al triste annunzio, e rispose:"Oh sciagurata la mia sorte, come presto è calata alla feccia la botte dei miei piaceri ! Come è scesa al fondigliolo la pignatta dei miei spassi! Com'è ridotta al rimasuglio la cesta delle mie contentezze! Me misera, che se ne scorrono con l'acqua le mie speranze; mi vanno in crusca i disegni, e si risolve in fumo ogni mia soddisfazione! Appena ho cominciato a gustare questa salsa reale, che il boccone mi si è fermato in gola; appena ho appressato le labbra a questa fontana di dolcezza, che mi si è intorbidato il diletto; appena ho visto spuntare il sole, che posso dire: Buonanotte, zio pagliericcio!".
Queste e altrettali parole uscivano dagli archi turcheschi di quelle labbra a trafìggere l'anima di Cecio, quando questi le disse:"Sta' zitta, o bel palo della mia vita, o chiara lanterna di questi occhi, o giacinto confortativo [3] di questo cuore,che presto sarò di ritorno. Le miglia di lontananza non potranno fare ch'io mi scosti un palmo da questa bella persona; non potrà la forza del tempo sbalzar via l'immagine tua da questa testa. Calmati, riposa il cervello, asciuga gli occhi, e serbami nel cuore".
Con queste parole, montò a cavallo e prese a galoppare verso il suo regno.
Renza, che si vide piantata come un cetriuolo, s'avviò appresso a lui, dietro le orme di lui; e, spastoiato un cavallo che trovò a pascere in un prato, si mise a correre sulla via che egli aveva percorsa.

                                                                  Strudwick J.M.


Nel cammino, si scontrò col garzone di un romito; e subito scese da cavallo e fece cambio delle sue vesti, che erano tutte guarnite d'oro, col sacco e con la corda che quegli portava. Si gettò addosso il sacco, si cinse la corda, essa che cingeva le anime col laccio d'amore, e tornò a cavalcare, spronando con le calcagna il cavallo, tanto che in poco tempo raggiunse Cecio, e gli disse:"Ben trovato, gentiluomo mio!".
"Ben venuto, padricello mio, - rispose l'altro - donde si viene e dove siete avviato?".
E Renza:
"Vengo da parte dove sempre in pianto 
si sta una donna, e dice: Oh bianco viso! 
Deh, come ti perdei, che m'eri accanto!".

Cecio, che non la riconosceva e credeva che fosse un ragazzo, esclamò: "O bel giovane mio, quanto mi è cara la tua compagnia! Perciò fammi un piacere, e prenditi le mie pupille: non ti partire mai dal mio fianco e, di volta in volta, ripetimi questi versi, che, proprio, mi solletichi il cuore!".
Cosi, col ventaglio delle chiacchiere sventolandosi pel caldo della via, giunsero insieme a Vignalarga. Colà trovarono che la regina aveva dato moglie a Cecio, e per questo lo aveva mandato a chiamare con un'astuzia; e la moglie già stava in ordine e l'aspettava. Cecio pregò la madre di tenere in casa e trattare come suo fratello il giovane che l'aveva accompagnato; e, poiché la madre acconsenti, lo fece stare sempre accanto a sé e mangiare a una stessa tavola con la sposa. Considerate che cuore faceva la sventurata Renza e se inghiottiva noce vomica! Con tutto ciò, essa di volta in volta ripeteva i versi che tanto piacevano a Cecio. Ma, quando si fu levata la mensa e la sposa si ritirò in una cameretta per parlare da sola a solo con Cecio, Renza, per aver campo di sfogare la passione del cuore, entrò in un orto che era in piano colla casa, e, postasi sotto un gelso, cosi prese a lamentarsi: "Oimè, Cecio crudele, questo è il 'mille grazie' dell'amore che ti porto? Questa è la 'gran mercé' del bene che ti voglio? Questo è il beveraggio dell'affezione che ti mostro? Ecco che ho piantato mio padre, abbandonato la mia casa, calpestato il mio onore, e mi son data in potere di un cane feroce per vedermi tagliato il passo, serrata la porta in faccia e levato il ponte, quando credevo di prender dominio di cotesta bella fortezza; per vedermi scritta alla gabella dell'ingratitudine tua, mentre mi pensavo di stare alla Duchesca [4] della grazia tua; per vedermi fatto il giuoco di fanciullo: 'Bando e comandamento da parte di mastro Chiomento ', mentre immaginavo di giocare con te ad ' Anca Nicola ' !, Ne ho seminate, di speranze; e ora raccolgo caciocavalli; ne ho gittati di razzi del desiderio, e ora tiro dalla pesca arena d'ingratitudine; ne ho fatti di castelli in aria, e, pùnfete, ho battuto col corpo in terra! Ecco il ricambio che ricevo; ecco la pariglia che m'è data; ecco il pagamento che ottengo! Ho calato la secchia nel pozzo delle voglie amorose e m'è rimasto il manico in mano; ho steso il bucato dei disegni miei e mi vi è piovuto sopra a cielo aperto; ho messo a cucinare la pentola dei pensieri al fuoco del desiderio, e c'è cascata dentro la fuliggine delle disgrazie. Ma chi credeva, o voltabandiera, che la fede tua dovesse scoprirsi rame? che la botte delle promesse scendesse alla feccia? che il pane della bontà prendesse muffa? Bel tratto d'uomo da bene! Belle prove di persona onorata! Bei termini da figlio di re: burlarmi, impastocchiarmi, imbrogliarmi, farmi larga la cappa per darmi corto il giubbone, promettermi mari e monti per gettarmi dentro un fosso, lavarmi la faccia, perché mi trovassi il cuore nero! O promesse di vento, o parole di crusca, o giuramento di milza soffritta! Ecco che tu hai detto quattro prima che fosse nel sacco; ecco che sei cento miglia discosto, quando credevi di essere arrivata a una casa di barone: ben si prova che parole di sera il vento le mena! Oimè, quando pensavo di essere carne ed unghia con questo crudele, sarò con lui come cane e gatto; dove m'immaginavo di essere scodella e cucchiaio con questo cane rabbioso, sarò con lui come biscia e rospo; perché non potrò sopportare che un altro, con un cinquantacinque di buona fortuna, mi tolga di mano la primiera passante delle speranze mie; non potrò sopportare che mi sia dato scacco matto. O Renza male avviata, va' e ti fida, va' e ti gonfia di parole d'uomini! uomini senza legge e senza fede, povera chi vi si mescola, trista chi vi si attacca, sventurata chi si corica al largo letto, che essi ti sogliono fare! Ma non ti curare: tu sai che chi gabba fanciulli, fa la morte dei grilli; sai che alla banca del Cielo non ci sono scrivani marranchini, che imbroglino le carte; e, quando meno te l'aspetti, verrà la giornata tua, tu che hai fatto questo giuoco di mano a chi ti ha dato se stessa in credenza per ricevere una mala azione in contanti. Ma io non m'avvedo che dico le mie ragioni al vento e sospiro al vuoto; sospiro in perdita, e mi lamento, ma sola. Esso stasera salda i conti con la sposa e rompe la taglia; e io faccio i conti con la Morte e pago il debito alla natura. Esso starà in un letto bianco e odoroso di bucato; io dentro un'oscura bara, che puzza d'ammazzato. Esso giocherà a 'scarica - la - botte' con quella fortunata, ed io farò: 'Compagno mio, ferito sono', vibrandomi uno stecco appuntito alle costole per dare fondo alla vita".
Dopo queste e altre parole di dolore e di rabbia, Renza, venuta l'ora di lavorare coi denti, fu chiamata a tavola, dove gl' ingratinati e gli spezzati le erano arsenico e titimalo avendo altro pel capo che il pensiero di mangiare, altro andandole per lo stomaco che l'appetito di riempirlo. Tanto che Cecio, a vederla cosi pensosa e avvilita, le disse: "Che cos'è che non fai onore a queste vivande? Che hai? che pensi? che senti? ".
"Non mi sento niente bene - rispose Renza - né so se è indigestione o vertigine". "Fai bene a lasciare il pranzo - replicò l'altro, - perché la dieta è il miglior tabacco [5] d'ogni male; ma, se ti bisogna il medico, manderemo a chiamare un tal dottore di urina [6] che, alla sola faccia, senza toccare il polso, conosce le malattie della gente".
"Non è male da ricette - disse Renza - e nessuno sa i guai della pignatta fuori del mestolo!".
"Esci un po' a prender aria", aggiunse Cecio.
E Renza: "Quanto più muovo in giro gli occhi, più mi si rompe il cuore".
Cosi parlando, terminò il pranzo e venne l'ora di dormire; e Cecio, per udire sempre quella canzone, volle che il compagno si ponesse in un lettuccio nella camera stessa in cui egli si doveva coricare con la sposa. E ad ora ad ora lo chiamava a ripetere quei versi, che erano pugnalate al cuore di Renza e intronamenti alia testa della sposa. La quale stette e stette, e alla fine, scoppiando, disse: "Mi avete rotto tutto il di dietro con cotesto ' bianco viso ' ! Che trista musica è questa? Oramai è una vera dissenteria, che non finisce più! Basta, poffar il mondo! E che cosa è? un dirizzone di testa, che replicate sempre la stessa cosa? Io credevo, coricandomi con te, di sentire musica di strumenti e non repetii di voce. E vedi come l'hai presa meticolosa a toccare sempre lo stesso tasto! Di grazia, non più, marito mio; e tu, caglia, che senti d'aglio, e lasciaci in pace un po'".
"Sta' zitta, moglie mia! - rispose Cecio -  che ora spezziamo il filo del parlare".
E, nel dir questo, le dette un bacio cosi forte che se ne senti un miglio lontano lo schiocco. Quel rumore di labbra fu tuono al petto di Renza, la quale ne provò tanto dolore che, essendo corsi tutti gli spiriti a dar soccorso al cuore, accadde, come dice il proverbio, che il soperchio rompe il coperchio, perché tale e tanto fu il concorso del sangue che, soffocatala, le fece stendere i piedi.
Cecio, somministrati che ebbe quattro vezzi alla sposa, chiamò sottovoce Renza, perché gli ripetesse quelle parole che gli piacevano tanto; e, non sentendosi rispondere come aspettava, tornò a pregarla, che gli desse quel po' di gusto; e, vedendo che rimaneva in silenzio, levandosi pian piano, la tirò per un braccio; e, poiché nemmeno rispondeva, le mise la mano al volto; e, a toccare il naso freddo freddo, s'accorse che era spento il fuoco del calore naturale di quel corpo. Sbigottito, atterrito, chiamò subito le candele, e, scoprendo quel corpo, riconobbe Renza a un bel neo che aveva in mezzo al petto. E allora alzò le strida: « Che cosa vedi, o sciagurato Cecio? Che t'è accaduto, sventurato? Quale spettacolo ti sta dinanzi agli occhi? Quale rovina ti cade sulle giunture? O fiore mio, chi ti ha còlto? O lucerna mia, chi ti ha spenta? O pignatta dei gusti d'amore, come ti sei rovesciata fuori? Chi ti ha abbattuta, o bella casa delle mie contentezze? Chi ti ha stracciata, o carta franca dei miei piaceri? Chi ti ha mandata a picco, o bella nave degli spassi di questo cuore? O bene mio, che, al chiudere dei tuoi begli occhi, è fallita la bottega della bellezza, sono state interrotte le faccende delle Grazie, e Amore è andato a buttare le ossa al ponte! [7]. Al partire di questa bell'anima si è persa la semenza delle belle, si è guastata la stampa delle vezzose, e non si trova più la bussola pel mare delle bellezze amorose. Oh danno senza riparo, oh strazio senza comparazione, oh rovina senza misura! Va' e vantati, madre mia, che hai fatto una bella prova a maritarmi a forza, perch'io perdessi questo bel tesoro! Che farò, disgraziato, scempio d'ogni piacere, netto di consolazione, nudo di spasso, squattrinato di contentezza! Non credere, vita mia, ch'io voglia senza di te restarmene in questo mondo, perché ti voglio perseguitare e assediare dovunque vai, e, a dispetto del dispetto della morte, ci congiungeremo insieme; e, se ti aveva presa a compagna di uffizio al mio letto, ti sarò caratarlo alla tomba, e un solo epitaffio narrerà l'infortunio di entrambi noi!".
Disse e die di mano a un chiodo e si fece una cura sconfortativa sotto la mammella mancina, per la quale lasciò scorrere col sangue la vita sua.
La sposa restò atterrita e gelata; e, quando le fu possibile sciogliere la lingua e mandar fuori la voce, chiamò la regina, che accorse al rumore con tutta la corte. Al vedere morti il figlio suo e Renza, e all'apprendere la causa della sciagura, essa si strappò i capelli, e, dibattendosi come un pesce fuor dell'acqua, gridò crudeli le stelle che avevano piovuto alla casa sua tante disgrazie e maledisse la trista vecchiezza, che l'aveva serbata a tanta rovina. Fatto cosi un grande strillatorio, battitorio, strappatorio e schiamazzatorio, fece collocare i due insieme in una stessa fossa e scrivervi sopra la storia delle loro fortune.
In quel tempo stesso arrivò il re, padre di Renza, il quale, andando pel mondo in cerca della figlia fuggita, s'era incontrato col ragazzo del romito, che offriva in vendita le vesti di quella e che lo informò del caso; e cosi, perseguitando il principe ereditario di Vignalarga, giunse proprio nel punto che, mietute le spighe degli anni suoi, si stava per calarle nella fossa. E, vedendo e conoscendo Renza sua, e piangendola e sospirandola, bestemmiò l'osso maestro, che aveva dato il grasso alla minestra delle sue rovine. Quell'osso egli aveva ritrovato a terra nella stanza della figliuola, e lo riconosceva ora strumento dei crudele caso, avverandosi a questo modo, in genere e in ispecie, il triste augurio di quei saltimbanchi, che avevano predetto che Renza sarebbe morta per un osso maestro, e dimostrandosi chiaramente che
quando un malanno c'è segnato in sorte, 
entra per le fessure delle porte.

[1] Il femore degli animali.
[2] Imbrattamento di rosso alla parte esterna delle case, che era atto di grave offesa che s'intendeva arrecare a colui che vi abitava, e perciò causa di fatti di sangue, e severamente represso dalle leggi...
[3] Forse non è qui il fior di giacinto, ma la gemma giacinto, la quale, portandosi addosso in anello, tra le altre virtù, faceva "l'uomo allegro, conservando il cuore in vigore", e conciliava il sonno; come si legge nel Donzelli, Teatro farmaceutico [4] Si chiama cosi un luogo di Napoli (prossimo alla stazione centrale della ferrovia), dove, circa il 1487, il duca di Calabria, Alfonso d'Aragona, aveva costruito un palazzo e un giardino (...). Per dono di Carlo V passò poi al viceré Toledo e agli eredi di costui, i quali abbatterono palazzo e giardini e censirono il luogo per case, e in quei vicoli "della Duchesca" si raccolsero prostitute e gente di mala vita. A ciò alludono le parole di Renza, che vogliono dire: una donna credeva di star libera a godere alla Duchesca, e fu iscritta alla gabella delle meretrici e assoggettata alla polizia e al fisco.
[5] Il tabacco, che allora proprio entrava nel costume generale, si adoprava o si stimava rimedio a molte e diverse infermità...
[6] Com'è noto, allora si distinguevano i "medici di urina", che erano propriamente i medici, e i "medici di piaga", che erano i chirurgi.
[7] Testo: "ed è iuto a votare (= voltare) ossa a lo ponte Ammore". Mi par da correggere nel modo in cui ho tradotto; e vorrebbe dire che Amore butta le ossa al ponte Ricciardo o ponte della Maddalena, a Napoli, sul Sebeto (per antonomasia il ponte): luogo in cui si gettavano le ossa dei giustiziati e suicidi, e le carcasse dei cavalli e di altri animali.

Traduzione e note al testo di Benedetto Croce.
Il testo originale è nella pagina: G.B. Basile.

mercoledì 12 febbraio 2014

La Luna




















Christian Schloe - Digital Art

Le Istruzioni di Neil Gaiman per Viaggiare in una Fiaba

Istruzioni

Tocca nel muro il portone di legno
che non avevi mai visto prima,
di': "Permesso" prima di aprire il chiavistello,
entra,
percorri il sentiero.
Un rosso folletto di metallo pende dalla
verde porta d'ingresso,
a mo' di battente,
non toccarlo, ti morderebbe le dita.
Cammina dentro la casa.
Non prendere nulla.
Non mangiare nulla.
Però,
se qualche creatura ti dicesse di essere affamata,
dalle del cibo
Se ti dice di essere sporca,
puliscila.
Se grida di essere in preda al dolore,
allevialo,
se puoi.
Dal giardino nero potrai vedere la foresta fitta.
Il pozzo profondo accanto al quale passerai
porta al regno dell'Inverno;
c'è un'altra terra sul suo fondo.
Se giri intorno qui,
potrai tornare indietro, sano e salvo.
Non perderai la faccia. Non penserò male di te.


Yerka J.


Una volta attraversato il giardino,
ti troverai nella foresta.
Gli alberi sono vecchi.
Degli occhi osservano dal sottobosco.
Sotto una quercia contorta
siede una signora anziana.
Potrebbe chiedere qualcosa;
dagliela.
Ti indicherà la strada per il castello.
Al suo interno ci sono tre principesse.
Non fidarti della più giovane. Tira dritto.
Nella radura oltre il castello,
i dodici mesi siedono accanto al fuoco,
si scaldano i piedi, si narrano storie.
Potranno farti delle cortesie, se sarai gentile.
Potrai raccogliere fragole nel gelo di dicembre.
Fidati dei lupi,
ma non rivelare loro dove stai andando.
Il fiume può essere attraversato dal traghetto.
Il traghettatore ti prenderà a bordo.
La risposta alla sua domanda è questa:
se porge il remo al passeggero, sarà
libero di lasciare la barca.
Diglielo solo a distanza di sicurezza

Se un'aquila ti offre una penna,
conservala con cura.
Ricorda: i giganti hanno un sonno troppo profondo;
le streghe sono spesso tradite dai loro appetiti;
i draghi hanno una debolezza,
da qualche parte, sempre;
i cuori possono essere ben celati,
e li tradisci con la tua lingua.
Non essere geloso di tua sorella:
sappi che diamanti e rose
sono tanto sgradevoli quando rotolano
dalle labbra, quanto i rospi e le rane;
più freddi, persino, e più affilati, e tagliano.

Tenggren G


Ricordati il tuo nome.
Non perdere la speranza:
quel che cerchi sarà trovato.
Dai fiducia ai fantasmi.
Confida che quelli che hai aiutato ti aiutino a loro volta.
Dai fiducia ai sogni.
Dai fiducia al tuo cuore, e alla tua storia.

Quando ritorni,
percorri la strada da cui sei venuto.
I favori verranno resi, i debiti ripagati.
Non dimenticare le buone maniere.
Non voltarti indietro.
Cavalca l'aquila saggia (non cadrai).
Cavalca il pesce argenteo (non affogherai).
Cavalca il lupo grigio
(tieniti saldo alla sua pelliccia).


Spirin G.

C'è un verme nel cuore della torre;
ecco il motivo per cui crolla.


Lynch P.J.


Quando raggiungerai la casetta,
il luogo da cui era cominciato il tuo viaggio,
la riconoscerai, anche se ti parrà molto più piccola
di come la ricordavi.
Percorri il sentiero,
e attraversa il portone
del giardino che non avevi mai visto,
se non una volta.
E poi va' a casa.
O costruiscitene una.

Oppure riposa.

Gilbert V. G.


Neil Gaiman
"Il Cimitero Senza Lapidi e Altre Storie Nere" (M Is For Music, 2007)

sabato 8 febbraio 2014

Caterina e Petruccio, la Bisbetica Domata era già una Fiaba


La protagonista de La Bisbetica Domata (The Taming of the Shrew), la "terribile" Caterina, esisteva già e non poteva essere che la sprezzante principessa della fiaba Il Re Bazza di Tordo. Esistono diversi tipi fiabeschi sulla "superbia punita", ma questa ha una trama particolare, con un "e vissero felici e contenti" che segue una impietosa cura matrimoniale.

Augustus Egg

Dalle note di I.Calvino a "La Reginotta Smorfiosa", fiaba n 175 della sua raccolta, libera traduzione de "La Regginotta Sghinfignusa" del Pitrè:
"Nel secolo XVI la raccontò (quasi tal quale, col chicco di melograno e tutto) Luigi Alamanni nella novella di Bianca di Tolosa e del Conte di Barcellona, in uno stile improntato a solennità e precisione di storico. Ma è una delle più antiche novelle romantiche di cui si abbia traccia e gli studiosi pare ne trovino l'origine nel Medioevo italiano. Nel secolo XVII, c'è una novella del Basile (IV, 10) molto simile tranne che per il chicco di melograno. Altre versioni popolari europee più che all'avarizia fanno attribuire l'obiezione della principessa a qualche particolare fisico, connesso spesso con la barba, (il pelo torto in barba)".

La fiaba del Basile citata da Calvino è "La Superbia Punita".
Personalmente, ricorderei anche Nerucci 22 , "Il Magnano o Pelo Torto in Barba", e Nerucci 50, "Il Mercante di Sale".
C'è, poi, la versione moralistico-letteraria di Andersen, "Il Guardiano di Porci", l'"Haken Barbadirame" norvegese, ecc. La "Principessa Orgogliosa" di Yeats non ha alcuna originalità... passo.

In alcune fiabe, "Il Re Bazza di Tordo" e "Il Principe Ranocchio" si incontrano.

Locandine e foto dal film del 1967 "La Bisbetica Domata", con Richard Burton e Liz Taylor, "in parte", anche se "fuori età".













Il Re Bazza di Tordo (o la Superbia Punita), Grimm n.52

n Re aveva una figlia di straordinaria bellezza, ma molto altera e sdegnosa, sicché nessun pretendente le pareva degno di lei, ed ella li respingeva l'uno dopo l'altro, deridendoli per giunta. Una volta il Re ordinò una gran festa e invitò quanti desiderassero ammogliarsi. I pretendenti furono messi in fila secondo il grado e il ceto: prima i re, poi i duchi, i principi, i conti e i baroni, e infine i nobili. La principessa fu condotta fra di loro, ma a ciascuno trovava qualcosa da ridire:

Cramer R.

Questo era troppo grasso: "Che botte!" esclamava.
Quello era troppo lungo: "Lungo, lungo, alto fin là, bella andatura proprio non ha!".
Il terzo troppo piccolo: "Così grasso e piccolino, sembra proprio un maialino!". Il quarto troppo pallido: "Terreo come la morte!".
Il quinto troppo rosso: " Che tacchino!".
Il sesto non era perfettamente diritto: "Legna verde seccata dietro la stufa!".
E così trovava sempre qualcosa da ridire su ciascuno; ma in particolare beffeggiò un buon Re che si trovava in prima fila e aveva il mento un po' ricurvo.
"Oh - esclamò ridendo - quello ha il mento come il becco di un tordo!"
E da quel momento lo chiamarono Bazza di Tordo. Ma il vecchio Re andò in collera vedendo che la figlia non faceva altro che prendersi gioco dei pretendenti là riuniti, sdegnandoli, e giurò di darla in moglie al primo mendicante che bussasse alla sua porta. Qualche giorno più tardi un suonatore si mise a cantare sotto la finestra per avere una piccola elemosina.
Quando il Re l'udì, disse: "Fatelo salire!".
Entrò un suonatore lurido e cencioso, cantò davanti al Re e a sua figlia e, quand'ebbe finito, domandò una modesta ricompensa. Il Re disse:
"Il tuo canto mi è così piaciuto che voglio darti mia figlia in isposa".
La principessa inorridì, ma il Re disse: "Ho fatto giuramento di darti al primo accattone e lo manterrò".
A nulla valsero le proteste: fu chiamato il parroco ed ella dovette sposare il suonatore. Celebrate le nozze, il Re disse:
"Non si confà che la moglie di un mendicante abiti nel mio castello, non hai che da andartene con tuo marito".
Il mendicante se ne andò così insieme a lei.

Rackham A.

Arrivarono in un grande bosco ed ella domandò:
"Questo bel bosco a chi appartiene?"
"Bazza di Tordo in suo poter lo tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato."
"Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!"
Poi attraversarono un bel prato ed ella chiese ancora:
"Questo prato verde a chi appartiene?"
"Bazza di Tordo in suo poter lo tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato."
"Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!"
Giunsero poi in una gran città ed ella tornò a domandare:
"Che prospera città! A chi appartiene?"
"Bazza di Tordo in suo poter la tiene. Sarebbe tuo non l'avessi rifiutato."
"Povera me, or tutto ho ricordato, come vorrei che ciò non fosse stato!"
Allora il suonatore disse:
"Non mi garba affatto che tu rimpianga sempre un altro marito; non ti basto io, forse?".
Finalmente giunsero ad una piccola casetta, ed ella disse:
"Ah, Dio mio! Che casa piccina! A chi appartiene la povera casina?"


Il suonatore rispose: "E' la mia casa e la tua, dove abiteremo insieme".
"Dove sono i servi?", chiese la principessa.
"Macché‚ servi!- rispose il mendicante - devi farti da sola ciò che vuoi. Accendi subito il fuoco e metti l'acqua a bollire per la cena: sono stanco morto."
Ma la principessa non sapeva accendere il fuoco né cucinare, e il mendicante dovette darle una mano perché potesse cavarsela. Quand'ebbero mangiato il pasto frugale, si coricarono ma, il mattino dopo, egli la buttò fuori dal letto di buon'ora perché sbrigasse le faccende di casa. Per un paio di giorni vissero così alla meno peggio e consumarono le loro provviste. Poi l'uomo disse:
"Moglie, non possiamo continuare così, a mangiare senza guadagnare. Farai dei canestri".
Andò a tagliare dei giunchi e li portò a casa; ella incominciò a intrecciarli, ma i giunchi duri le ferivano le mani delicate.
"Vedo che non va - disse l'uomo - Fila piuttosto forse ti riesce meglio."
Ella si mise a sedere e cercò di filare; ma il filo duro le tagliò ben presto le tenere dita facendole sanguinare.
"Vedi - disse l'uomo - non sei buona a nulla: con te sono capitato male. Be', voglio provare a commerciare in pentole e stoviglie di terra: venderai la merce al mercato"
'Ah, - pensò la principessa - se viene al mercato gente dal regno di mio padre e mi vede seduta a vendere, si farà beffe di me!'
Ma non c'era via d'uscita, dovette andarci se non voleva morir di fame. La prima volta andò bene: per la sua grande bellezza, la gente comprava volentieri la sua merce e pagava ciò che ella chiedeva; molti le diedero addirittura il denaro lasciandole le pentole. Tirarono avanti con quel guadagno finché durò, poi l'uomo acquistò un altro mucchio di stoviglie. Ella si mise a sedere in un angolo del mercato ed espose la merce in vendita intorno a sé. Ma improvvisamente arrivò al galoppo un ussaro ubriaco che finì con il cavallo proprio fra le pentole, mandandole in mille pezzi. Ella si mise a piangere e per l'affanno non sapeva che fare.
"Ah, che sarà di me! - esclamò - Cosa dirà mio marito!" Corse a casa e gli raccontò l'accaduto.
"Chi mai va a sedersi all'angolo del mercato con stoviglie di terra!- disse l'uomo - Smettila di piangere, vedo bene che non sei buona a nulla. Proprio per questo sono stato al castello del nostro Re e ho domandato se aveva bisogno di una sguattera; mi hanno promesso che ti prenderanno, in cambio ti daranno da mangiare."
Così la principessa diventò sguattera; dovette aiutare il cuoco ed eseguire i lavori più faticosi. A ogni tasca fissava un pentolino per portare a casa gli avanzi, e così campavano. Ora avvenne che si dovevano celebrare le nozze del figlio primogenito del Re; la povera donna salì le scale e si mise davanti alla porta della sala per guardare. Fra tanto lusso e splendore, ella pensava tutta afflitta al suo destino e malediva la superbia e l'arroganza che l'avevano precipitata in tanta miseria. Ogni tanto i servi le buttavano qualche avanzo dei piatti deliziosi che venivano serviti, ed ella li metteva nei suoi pentolini per portarli a casa.
D'un tratto entrò il principe tutto vestito d'oro e, quando vide la bella donna sulla porta, la prese per mano e voleva ballare con lei. Ma lei rifiutò, spaventata, poiché riconobbe il re Bazza di Tordo, il pretendente che aveva respinto e dileggiato. Mentre ella faceva resistenza, il principe la tirò nella sala; così si ruppe il cordino da cui pendevano le tasche: i pentolini caddero a terra facendo colar fuori la minestra e gli avanzi si sparsero qua e là. A quella vista, tutti scoppiarono a ridere, sbeffeggiandola; ed ella si vergognò tanto che avrebbe preferito essere mille braccia sotto terra. Corse alla porta e voleva fuggire, ma sulle scale un uomo la raggiunse e la riportò indietro. E quando ella lo guardò, vide che era di nuovo il Re Bazza di Tordo.

Batten

"Non aver paura - le disse questi - io e il suonatore che abitava con te nella misera casetta siamo la stessa persona: per amor tuo mi sono travestito così: e sono anche l'ussaro che ti ha spezzato le stoviglie. Tutto ciò è accaduto per spezzare il tuo orgoglio e per punire l'arroganza con la quale ti sei presa gioco di me. Ma ora tutto è finito, e adesso festeggeremo le nostre nozze."
Allora vennero le ancelle e le fecero indossare le vesti più sontuose, e venne il padre della principessa con tutta la corte per farle gli auguri per il suo sposalizio con il re Bazza di Tordo; e la vera festa incominciò solo allora. Se io e te ci fossimo stati!

Grimm n.52, "König Drosselbart".
Classificazione: AaTh 900 [ King Trushbeard ]

Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

Keats e la Belle Dame sans Merci



Cowper F.C.


Naturalmente, tutto ciò per ricordare che La Belle Dame sans Merci  si presta ad almeno tre (evidenti) piani di lettura. E tutti riportano alla corteggiatrice corteggiata dagli artisti, la Morte.
La prima lettura è quella immediata: l'incanto perverso degli Esseri fatati.
Questa poesia è la risposta maschile alla celeberrima - e ben più antica - ballata "Lady Isabel and the Elf Knight". Né manca la schiera dei predecessori caduti nella medesima trappola (lady Isabel vede solo le sepolture delle "altre figlie di re" scannate dal magico Cavaliere).
E' detto esplicitamente a quale razza appartenga la bella Dama. E' ribadito a proposito della grotta e della nenia fatale con cui addormenta il Cavaliere (qui le parti si rovesciano: è la bella Dama ad usare i "trucchi" con i quali lady Isabel si guadagna la propria salvezza).
Particolare interessante: il Cavaliere accetta senza opporsi il cibo fatato, le radici, il miele e la manna che ella gli offre, firmando definitivamente la propria condanna. Ha infranto tutti i tabu e tutte le difese. Nel Mondo Fatato, come nell'Ade - nel Mondo Altro - sono vietati il Sonno, il Cibo, l'ascolto del Canto, pena la schiavitù eterna e il non ritorno.
La Dama sospira e piange mentre lo annienta. Forse perché, come lo scorpione della celebre favola, "quella è la sua natura" e non può comportarsi diversamente?



"Love and Death", Watts G.F.



La seconda lettura: allegoria della tisi.
Keats stesso ne fu colpito e ne morì, un fratello era morto da poco, chissà quanti amici e conoscenti aveva visto spegnersi lentamente.
Le tracce sono numerose ed evidenti. Il giglio sulla fronte madida di sudore, le rose che scoloriscono sulle guance... La febbre, lieve e costante, accendeva due "rose" sulle guance dei malati creando l'illusione di una salute fiorente, eccitava sensi ed immaginazione, simulava un euforico benessere.







Terza lettura (che non esclude affatto le precedenti): Keats si drogava, era dipendente dalla belladonna.
E, attratto, "innamorato", e circuito, accompagnato dai tardivi ammonimenti di chi lo aveva preceduto, svela il lato mortale della bella Ingannatrice.

Mab's Copyright

I Pittori "Maledetti" e la Belle Dame sans Merci

Come molti altri artisti, neanche Monet seppe resistere all'urgenza di ritrarre famigliari morti o morenti. Ad esempio, la prima moglie.


Camille Monet sur son Lit de Mort


"Un giorno, all’alba mi sono trovato al capezzale del letto di una persona che mi era molto cara e che tale rimarrà sempre. I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie e mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali. Toni blu, gialli, grigi, che so. A tal punto ero arrivato. Naturalmente si era fatta strada in me il desiderio di fissare l’immagine di colei che ci ha lasciati per sempre. Tuttavia prima che mi balenasse il pensiero di dipingere i lineamenti a me così cari e familiari, il corpo reagì automaticamente allo choc dei colori.." (C. Monet - 1879).



Beata Beatrix


Dante Gabriele Rossetti non fu da meno. Anche lui ebbe l'eleganza di morire reso ormai catatonico dagli oppiacei di cui faceva largo uso.
Vi/mi risparmio esempi tratti dalla "Comune" degli Scapigliati perché non è materia da trattare a bocconcini e spizzichini.
Elizabeth Siddal era stata prima modella e poi moglie di Rossetti. In seguito - pare - al parto di un figlio morto (e, credo, alle innumerevoli trasgressioni del marito), si uccise con il laudano, uno degli antidolorifici nonché droga-delle-donne dell'epoca. Disperato, Rossetti seppellì con lei anche un rotolo di poesie... che disseppellì e pubblicò anni dopo, assillato da amici affettuosi. Subito dopo la morte della moglie, la sublimò nella figura e nella vicenda di Beatrice. In questo ritratto, una colomba rossa - simbolo di amore e di spiritualità - depone un papavero tra le mani di Beatrice morente: dal papavero si ricava il laudano.



La Famiglia

(L'adorato) Egon Schiele ritrasse più volte la moglie Edith mentre, incinta, moriva di spagnola, nel 1918. Lui, almeno, ebbe l'eleganza di seguirla tre giorni dopo.

Mab

venerdì 7 febbraio 2014

Lamie, Fate, Dame Pericolose...

Posto per divertimento, ma raramente a casaccio. Chi mi  ama mi segua.
Non è un caso che La Belle Dame sans Merci  venga subito dopo i post sulla Lamia.
A sua volta, la Lamia è parente (o viceversa) della Fata del Monte Colombera  o della perfida ammaliatrice, la Salvàna delle acque di Zanùt.
Stesso discorso per le immagini che scelgo.
In fondo, alcune sono interscambiabili. Accanto a quelle che si ispirano esplicitamente alla poesia di Keats non stonano affatto quelle su cavalieri incantati dalla Regina delle Fate...


Strudwick J.M.

... o quelle sulle tentazioni di Perceval/Parsifal, ad esempio.


Cowper F.C.


E la veste di questa Titania dormiente (sempre di Cowper) ricorda da vicino le screziate pelli di serpente avvolte come lunghe sciarpe intorno alle Lamie di - uno per tutti - J.W. Waterhouse.



giovedì 6 febbraio 2014

La Bella Dama Senza Pietà - Traduzione Mia


Cowper F.C.



Qual è la tua pena, o Cavaliere in armi,
Che qui - pallido - indugi in solitudine?
Sfiorita è la carice del lago,
Tacciono gli uccelli.

Qual è la tua pena, o Cavaliere in armi,
Che appari affranto e desolato?
Ricolmo è il granaio dello scoiattolo,
Mietuto ormai il raccolto.

Un giglio sulla tua fronte
Ròrida d'angoscia e febbre,
Rose morenti sulle guance
Anch'esse troppo presto sfiorite.

Una Dama incontrai sui prati,
Bella oltre ogni dire - Figlia di Fate,
Lunghi i capelli, leggero il piede,
Selvaggi gli occhi.

Una ghirlanda per la sua fronte intrecciai,
E braccialetti, e una fragrante cintura.
Mi guardò come Amore guarda,
Dolce emise un gemito.

La issai sul mio destriero al passo,
E altro se non lei per tutto il giorno vidi.
Verso me protesa,
Cantava una melodia delle Fate.


Hughes A.


Per me cercò radici dolci al gusto,
E miele selvatico e stille di manna.
E - certo - in una lingua ignota, ripeteva,
"Il mio amore è sincero".

Alla sua grotta fatata mi condusse,
E là sospirò e pianse con grande tristezza,
E là quei suoi occhi selvaggi chiusi,
Baciandoli quattro volte.

E là mi addormentò cantando,
E là - oh, sventurato!- sognai l'ultimo sogno
Che avrei mai sognato
Sul gelido pendìo del colle.


Waterhouse J.W.



Pallidi Re e pallidi prìncipi vidi;
E pallidi guerrieri - oh, di quale pallore mortale!
La Bella Dama senza Pietà - gridavano -
Ti ha ormai in suo potere.

Vidi le loro labbra livide nell'oscurità
Orribilmente spalancate nel grido.
Mi svegliai, e mi ritrovai qui,
Sul gelido pendìo del colle.

Ed ecco perché ivi mi trattengo,
Pallido - indugiando in solitudine,
Benché avvizzita sia la carice del lago,
E tacciano gli uccelli.


Mab's Copyright

mercoledì 5 febbraio 2014

La Belle Dame Sans Merci -. John Keats


Cowper F.C


O what can ail thee, knight-at-arms,
Alone and palely loitering?
The sedge has withered from the lake,
And no birds sing. 

O what can ail thee, knight-at-arms,
So haggard and so woe-begone?
The squirrel’s granary is full,
And the harvest’s done.

I see a lily on thy brow,
With anguish moist and fever-dew,
And on thy cheeks a fading rose
Fast withereth too.

I met a lady in the meads,
Full beautiful - a faery’s child,
Her hair was long, her foot was light,
And her eyes were wild.

I made a garland for her head,
And bracelets too, and fragrant zone;
She looked at me as she did love,
And made sweet moan

I set her on my pacing steed,
And nothing else saw all day long,
For sidelong would she bend, and sing
A faery’s song. 

She found me roots of relish sweet,
And honey wild, and manna-dew,
And sure in language strange she said
- "I love thee true".

She took me to her Elfin grot,
And there she wept and sighed full sore,
And there I shut her wild wild eyes
With kisses four.

And there she lullèd me asleep,
And there I dreamed - Ah! woe betide! -
The latest dream I ever dreamt
On the cold hill side.

I saw pale kings and princes too,
Pale warriors, death-pale were they all;
They cried - "La Belle Dame sans Merci
Hath thee in thrall!"

I saw their starved lips in the gloam,
With horrid warning gapèd wide,
And I awoke and found me here,
On the cold hill’s side.

And this is why I sojourn here,
Alone and palely loitering,
Though the sedge is withered from the lake,
And no birds sing.


Dicksee F.