sabato 15 febbraio 2014

Biancoviso, G.B. Basile, Pentamerone, Cunto Terzo della Terza Giornata

Renza, chiusa dal padre in una torre, per esserle stato predetto dagli astrologi che sarebbe morta a causa di un osso maestro, s'innamora di un principe, e con un osso, portatole da un cane, fora il muro e fugge. Ma, vedendo l'amante suo ammogliato baciare la sposa, muore di crepacuore, e il principe, per l'angoscia, si ammazza.



'era una volta un re di Fossostretto. che aveva una bella figlia, e, desiderando conoscere la sorte scritta per lei nel libro delle stelle, chiamò tutti i necromanti, astrologi e zingari di quel paese. Venuti costoro alla corte reale, chi scrutò le linee della mano, chi i segni della faccia, chi i nei sulla persona di Renza (che cosi si chiamava la figlia del re), e ognuno disse il suo parere. La maggioranza dei convenuti, per altro, concluse che essa correva pericolo, per un osso maestro [1], di sturare la chiavica maestra della vita.
Avuto quest'oroscopo, il re volle gittarsi innanzi per non cadere, e fece fabbricare una bella torre, dove rinchiuse la figliuola con dodici damigelle e una donna di governo, che la servissero: ordinando, pena la vita, di porgerle sempre, per evitare l'avverso pianeta, carne senz'osso.


Strudwick J.M.


Ora, essendo Renza cresciuta come la Luna, un giorno che guardava dalla finestra della torre, attraverso un cancello di ferro, passò Cecio, figlio della regina di Vignalarga, il quale, a vedere una cosa cosi bella, subito si senti tutto rimescolare. E, poiché quella gli rese il saluto e accennò un bocchino a riso, prese animo e, fattosi più sotto la finestra, le disse:"Addio, protocollo di tutti i privilegi della natura; addio, archivio di tutte le concessioni del Cielo; addio, tavola universale di tutti i titoli della bellezza!".
Renza, all'udirsi dare queste lodi, per la vergogna si fece più bella, e, buttando nuove legna sul fuoco di Cecio, gli versò, come disse quello, sulle scottature acqua bollente. E, non volendo essere vinta di cortesia da Cecio, rispose:"Sii il benvenuto, o dispensa del companatico delle Grazie, o magazzino delle mercanzie della Virtù, o dogana dei traffici di Amore!"
Cecio replicò:"Come mai sta in una torre rinchiuso il castello delle forze di Cupido? Come sta cosi carcerata colei, che è la prigione delle anime? Come sta dietro un cancello di ferro un pomo di oro?".
Renza gli raccontò allora come la cosa andava; e Cecio le disse com'egli fosse figlio di regina, ma vassallo della bellezza sua, e che, se si fosse contentata di svignarsela al regno suo, le avrebbe posto sul capo la corona. E quella, che, sentendo di aver preso odor di chiuso tra quelle quattro mura, non vedeva l'ora di sciorinarsi all'aria aperta, accettò il partito; e gli die appuntamento per la mattina, quando l'Alba chiama gli uccelli a testimoni della macriata [2] che le ha fatto l'Aurora, per scappar via insieme. Cosi, gettatogli un bacio dall'alto della finestra, rientrò, e il principe si ritrasse al suo alloggiamento.
Renza stava pensando al modo di scapolarsela e gabbare le damigelle, quando un certo cane corso, che il re teneva per guardia della torre, entrò in camera sua con un grande osso maestro in bocca, e, mentre se lo rosicchiava sotto il Ietto, Renza, chinandosi, vide l'osso. Subito pensò che fosse strumento che la Fortuna le mandava ai casi suoi; e, scacciando il cane dalla camera, glielo strappò. Die poi a intendere alle damigelle che le doleva il capo, e che perciò la lasciassero riposare senza disturbarla; e puntellò la porta. Cosi sola, si mise con l'osso a lavorare come un muratore di mestiere; e, scantonando una pietra dal muro, tanto fece che la distaccò e sfabbricò in modo che si poteva senza fatica passare per l'apertura. Stracciò poi un paio di lenzuola e le attorcigliò come una corda; e, quando fu rimossa la tela delle ombre dalla scena del Cielo perché l'Aurora usciva a fare il prologo della Tragedia della Notte, avendo udito il fischio di Cecio, attaccò il capo delle lenzuola a uno stipite, e si lasciò scivolare giù nella via. Cecio l'abbracciò teneramente e, postala sopra un asino sul cui dosso aveva gittato un tappeto, s'avviarono alla volta di Vignalarga. A sera, giunsero in un luogo chiamato Viso e alloggiarono in un bellissimo palazzo, dove Cecio appose i termini al bel podere che aveva acquistato, come segnali della possessione amorosa. Ma la Fortuna ha il vizio di arruffar la matassa, di guastare il giuoco e di dar di naso in tutti i buoni disegni degli innamorati; e questa volta, nel meglio dei loro diletti, fece arrivare un corriere con una lettera della madre di Cecio, la quale gli diceva di partire sull'istante per rivederla, altrimenti non l'avrebbe ritrovata viva; giacché essa tirava quanto più poteva, ma si trovava già sul punto di arrivare al rum e bus dell'alfabeto della vita.
A questa cattiva notizia, Cecio disse a Renza:"Cuor mio, il negozio è d'importanza, e bisogna che io corra per le poste per giungere in tempo. Tu trattieniti cinque o sei giorni in questo palazzo, che io torno subito o mando gente a prenderti".
Scoppiò in pianto Renza, al triste annunzio, e rispose:"Oh sciagurata la mia sorte, come presto è calata alla feccia la botte dei miei piaceri ! Come è scesa al fondigliolo la pignatta dei miei spassi! Com'è ridotta al rimasuglio la cesta delle mie contentezze! Me misera, che se ne scorrono con l'acqua le mie speranze; mi vanno in crusca i disegni, e si risolve in fumo ogni mia soddisfazione! Appena ho cominciato a gustare questa salsa reale, che il boccone mi si è fermato in gola; appena ho appressato le labbra a questa fontana di dolcezza, che mi si è intorbidato il diletto; appena ho visto spuntare il sole, che posso dire: Buonanotte, zio pagliericcio!".
Queste e altrettali parole uscivano dagli archi turcheschi di quelle labbra a trafìggere l'anima di Cecio, quando questi le disse:"Sta' zitta, o bel palo della mia vita, o chiara lanterna di questi occhi, o giacinto confortativo [3] di questo cuore,che presto sarò di ritorno. Le miglia di lontananza non potranno fare ch'io mi scosti un palmo da questa bella persona; non potrà la forza del tempo sbalzar via l'immagine tua da questa testa. Calmati, riposa il cervello, asciuga gli occhi, e serbami nel cuore".
Con queste parole, montò a cavallo e prese a galoppare verso il suo regno.
Renza, che si vide piantata come un cetriuolo, s'avviò appresso a lui, dietro le orme di lui; e, spastoiato un cavallo che trovò a pascere in un prato, si mise a correre sulla via che egli aveva percorsa.

                                                                  Strudwick J.M.


Nel cammino, si scontrò col garzone di un romito; e subito scese da cavallo e fece cambio delle sue vesti, che erano tutte guarnite d'oro, col sacco e con la corda che quegli portava. Si gettò addosso il sacco, si cinse la corda, essa che cingeva le anime col laccio d'amore, e tornò a cavalcare, spronando con le calcagna il cavallo, tanto che in poco tempo raggiunse Cecio, e gli disse:"Ben trovato, gentiluomo mio!".
"Ben venuto, padricello mio, - rispose l'altro - donde si viene e dove siete avviato?".
E Renza:
"Vengo da parte dove sempre in pianto 
si sta una donna, e dice: Oh bianco viso! 
Deh, come ti perdei, che m'eri accanto!".

Cecio, che non la riconosceva e credeva che fosse un ragazzo, esclamò: "O bel giovane mio, quanto mi è cara la tua compagnia! Perciò fammi un piacere, e prenditi le mie pupille: non ti partire mai dal mio fianco e, di volta in volta, ripetimi questi versi, che, proprio, mi solletichi il cuore!".
Cosi, col ventaglio delle chiacchiere sventolandosi pel caldo della via, giunsero insieme a Vignalarga. Colà trovarono che la regina aveva dato moglie a Cecio, e per questo lo aveva mandato a chiamare con un'astuzia; e la moglie già stava in ordine e l'aspettava. Cecio pregò la madre di tenere in casa e trattare come suo fratello il giovane che l'aveva accompagnato; e, poiché la madre acconsenti, lo fece stare sempre accanto a sé e mangiare a una stessa tavola con la sposa. Considerate che cuore faceva la sventurata Renza e se inghiottiva noce vomica! Con tutto ciò, essa di volta in volta ripeteva i versi che tanto piacevano a Cecio. Ma, quando si fu levata la mensa e la sposa si ritirò in una cameretta per parlare da sola a solo con Cecio, Renza, per aver campo di sfogare la passione del cuore, entrò in un orto che era in piano colla casa, e, postasi sotto un gelso, cosi prese a lamentarsi: "Oimè, Cecio crudele, questo è il 'mille grazie' dell'amore che ti porto? Questa è la 'gran mercé' del bene che ti voglio? Questo è il beveraggio dell'affezione che ti mostro? Ecco che ho piantato mio padre, abbandonato la mia casa, calpestato il mio onore, e mi son data in potere di un cane feroce per vedermi tagliato il passo, serrata la porta in faccia e levato il ponte, quando credevo di prender dominio di cotesta bella fortezza; per vedermi scritta alla gabella dell'ingratitudine tua, mentre mi pensavo di stare alla Duchesca [4] della grazia tua; per vedermi fatto il giuoco di fanciullo: 'Bando e comandamento da parte di mastro Chiomento ', mentre immaginavo di giocare con te ad ' Anca Nicola ' !, Ne ho seminate, di speranze; e ora raccolgo caciocavalli; ne ho gittati di razzi del desiderio, e ora tiro dalla pesca arena d'ingratitudine; ne ho fatti di castelli in aria, e, pùnfete, ho battuto col corpo in terra! Ecco il ricambio che ricevo; ecco la pariglia che m'è data; ecco il pagamento che ottengo! Ho calato la secchia nel pozzo delle voglie amorose e m'è rimasto il manico in mano; ho steso il bucato dei disegni miei e mi vi è piovuto sopra a cielo aperto; ho messo a cucinare la pentola dei pensieri al fuoco del desiderio, e c'è cascata dentro la fuliggine delle disgrazie. Ma chi credeva, o voltabandiera, che la fede tua dovesse scoprirsi rame? che la botte delle promesse scendesse alla feccia? che il pane della bontà prendesse muffa? Bel tratto d'uomo da bene! Belle prove di persona onorata! Bei termini da figlio di re: burlarmi, impastocchiarmi, imbrogliarmi, farmi larga la cappa per darmi corto il giubbone, promettermi mari e monti per gettarmi dentro un fosso, lavarmi la faccia, perché mi trovassi il cuore nero! O promesse di vento, o parole di crusca, o giuramento di milza soffritta! Ecco che tu hai detto quattro prima che fosse nel sacco; ecco che sei cento miglia discosto, quando credevi di essere arrivata a una casa di barone: ben si prova che parole di sera il vento le mena! Oimè, quando pensavo di essere carne ed unghia con questo crudele, sarò con lui come cane e gatto; dove m'immaginavo di essere scodella e cucchiaio con questo cane rabbioso, sarò con lui come biscia e rospo; perché non potrò sopportare che un altro, con un cinquantacinque di buona fortuna, mi tolga di mano la primiera passante delle speranze mie; non potrò sopportare che mi sia dato scacco matto. O Renza male avviata, va' e ti fida, va' e ti gonfia di parole d'uomini! uomini senza legge e senza fede, povera chi vi si mescola, trista chi vi si attacca, sventurata chi si corica al largo letto, che essi ti sogliono fare! Ma non ti curare: tu sai che chi gabba fanciulli, fa la morte dei grilli; sai che alla banca del Cielo non ci sono scrivani marranchini, che imbroglino le carte; e, quando meno te l'aspetti, verrà la giornata tua, tu che hai fatto questo giuoco di mano a chi ti ha dato se stessa in credenza per ricevere una mala azione in contanti. Ma io non m'avvedo che dico le mie ragioni al vento e sospiro al vuoto; sospiro in perdita, e mi lamento, ma sola. Esso stasera salda i conti con la sposa e rompe la taglia; e io faccio i conti con la Morte e pago il debito alla natura. Esso starà in un letto bianco e odoroso di bucato; io dentro un'oscura bara, che puzza d'ammazzato. Esso giocherà a 'scarica - la - botte' con quella fortunata, ed io farò: 'Compagno mio, ferito sono', vibrandomi uno stecco appuntito alle costole per dare fondo alla vita".
Dopo queste e altre parole di dolore e di rabbia, Renza, venuta l'ora di lavorare coi denti, fu chiamata a tavola, dove gl' ingratinati e gli spezzati le erano arsenico e titimalo avendo altro pel capo che il pensiero di mangiare, altro andandole per lo stomaco che l'appetito di riempirlo. Tanto che Cecio, a vederla cosi pensosa e avvilita, le disse: "Che cos'è che non fai onore a queste vivande? Che hai? che pensi? che senti? ".
"Non mi sento niente bene - rispose Renza - né so se è indigestione o vertigine". "Fai bene a lasciare il pranzo - replicò l'altro, - perché la dieta è il miglior tabacco [5] d'ogni male; ma, se ti bisogna il medico, manderemo a chiamare un tal dottore di urina [6] che, alla sola faccia, senza toccare il polso, conosce le malattie della gente".
"Non è male da ricette - disse Renza - e nessuno sa i guai della pignatta fuori del mestolo!".
"Esci un po' a prender aria", aggiunse Cecio.
E Renza: "Quanto più muovo in giro gli occhi, più mi si rompe il cuore".
Cosi parlando, terminò il pranzo e venne l'ora di dormire; e Cecio, per udire sempre quella canzone, volle che il compagno si ponesse in un lettuccio nella camera stessa in cui egli si doveva coricare con la sposa. E ad ora ad ora lo chiamava a ripetere quei versi, che erano pugnalate al cuore di Renza e intronamenti alia testa della sposa. La quale stette e stette, e alla fine, scoppiando, disse: "Mi avete rotto tutto il di dietro con cotesto ' bianco viso ' ! Che trista musica è questa? Oramai è una vera dissenteria, che non finisce più! Basta, poffar il mondo! E che cosa è? un dirizzone di testa, che replicate sempre la stessa cosa? Io credevo, coricandomi con te, di sentire musica di strumenti e non repetii di voce. E vedi come l'hai presa meticolosa a toccare sempre lo stesso tasto! Di grazia, non più, marito mio; e tu, caglia, che senti d'aglio, e lasciaci in pace un po'".
"Sta' zitta, moglie mia! - rispose Cecio -  che ora spezziamo il filo del parlare".
E, nel dir questo, le dette un bacio cosi forte che se ne senti un miglio lontano lo schiocco. Quel rumore di labbra fu tuono al petto di Renza, la quale ne provò tanto dolore che, essendo corsi tutti gli spiriti a dar soccorso al cuore, accadde, come dice il proverbio, che il soperchio rompe il coperchio, perché tale e tanto fu il concorso del sangue che, soffocatala, le fece stendere i piedi.
Cecio, somministrati che ebbe quattro vezzi alla sposa, chiamò sottovoce Renza, perché gli ripetesse quelle parole che gli piacevano tanto; e, non sentendosi rispondere come aspettava, tornò a pregarla, che gli desse quel po' di gusto; e, vedendo che rimaneva in silenzio, levandosi pian piano, la tirò per un braccio; e, poiché nemmeno rispondeva, le mise la mano al volto; e, a toccare il naso freddo freddo, s'accorse che era spento il fuoco del calore naturale di quel corpo. Sbigottito, atterrito, chiamò subito le candele, e, scoprendo quel corpo, riconobbe Renza a un bel neo che aveva in mezzo al petto. E allora alzò le strida: « Che cosa vedi, o sciagurato Cecio? Che t'è accaduto, sventurato? Quale spettacolo ti sta dinanzi agli occhi? Quale rovina ti cade sulle giunture? O fiore mio, chi ti ha còlto? O lucerna mia, chi ti ha spenta? O pignatta dei gusti d'amore, come ti sei rovesciata fuori? Chi ti ha abbattuta, o bella casa delle mie contentezze? Chi ti ha stracciata, o carta franca dei miei piaceri? Chi ti ha mandata a picco, o bella nave degli spassi di questo cuore? O bene mio, che, al chiudere dei tuoi begli occhi, è fallita la bottega della bellezza, sono state interrotte le faccende delle Grazie, e Amore è andato a buttare le ossa al ponte! [7]. Al partire di questa bell'anima si è persa la semenza delle belle, si è guastata la stampa delle vezzose, e non si trova più la bussola pel mare delle bellezze amorose. Oh danno senza riparo, oh strazio senza comparazione, oh rovina senza misura! Va' e vantati, madre mia, che hai fatto una bella prova a maritarmi a forza, perch'io perdessi questo bel tesoro! Che farò, disgraziato, scempio d'ogni piacere, netto di consolazione, nudo di spasso, squattrinato di contentezza! Non credere, vita mia, ch'io voglia senza di te restarmene in questo mondo, perché ti voglio perseguitare e assediare dovunque vai, e, a dispetto del dispetto della morte, ci congiungeremo insieme; e, se ti aveva presa a compagna di uffizio al mio letto, ti sarò caratarlo alla tomba, e un solo epitaffio narrerà l'infortunio di entrambi noi!".
Disse e die di mano a un chiodo e si fece una cura sconfortativa sotto la mammella mancina, per la quale lasciò scorrere col sangue la vita sua.
La sposa restò atterrita e gelata; e, quando le fu possibile sciogliere la lingua e mandar fuori la voce, chiamò la regina, che accorse al rumore con tutta la corte. Al vedere morti il figlio suo e Renza, e all'apprendere la causa della sciagura, essa si strappò i capelli, e, dibattendosi come un pesce fuor dell'acqua, gridò crudeli le stelle che avevano piovuto alla casa sua tante disgrazie e maledisse la trista vecchiezza, che l'aveva serbata a tanta rovina. Fatto cosi un grande strillatorio, battitorio, strappatorio e schiamazzatorio, fece collocare i due insieme in una stessa fossa e scrivervi sopra la storia delle loro fortune.
In quel tempo stesso arrivò il re, padre di Renza, il quale, andando pel mondo in cerca della figlia fuggita, s'era incontrato col ragazzo del romito, che offriva in vendita le vesti di quella e che lo informò del caso; e cosi, perseguitando il principe ereditario di Vignalarga, giunse proprio nel punto che, mietute le spighe degli anni suoi, si stava per calarle nella fossa. E, vedendo e conoscendo Renza sua, e piangendola e sospirandola, bestemmiò l'osso maestro, che aveva dato il grasso alla minestra delle sue rovine. Quell'osso egli aveva ritrovato a terra nella stanza della figliuola, e lo riconosceva ora strumento dei crudele caso, avverandosi a questo modo, in genere e in ispecie, il triste augurio di quei saltimbanchi, che avevano predetto che Renza sarebbe morta per un osso maestro, e dimostrandosi chiaramente che
quando un malanno c'è segnato in sorte, 
entra per le fessure delle porte.

[1] Il femore degli animali.
[2] Imbrattamento di rosso alla parte esterna delle case, che era atto di grave offesa che s'intendeva arrecare a colui che vi abitava, e perciò causa di fatti di sangue, e severamente represso dalle leggi...
[3] Forse non è qui il fior di giacinto, ma la gemma giacinto, la quale, portandosi addosso in anello, tra le altre virtù, faceva "l'uomo allegro, conservando il cuore in vigore", e conciliava il sonno; come si legge nel Donzelli, Teatro farmaceutico [4] Si chiama cosi un luogo di Napoli (prossimo alla stazione centrale della ferrovia), dove, circa il 1487, il duca di Calabria, Alfonso d'Aragona, aveva costruito un palazzo e un giardino (...). Per dono di Carlo V passò poi al viceré Toledo e agli eredi di costui, i quali abbatterono palazzo e giardini e censirono il luogo per case, e in quei vicoli "della Duchesca" si raccolsero prostitute e gente di mala vita. A ciò alludono le parole di Renza, che vogliono dire: una donna credeva di star libera a godere alla Duchesca, e fu iscritta alla gabella delle meretrici e assoggettata alla polizia e al fisco.
[5] Il tabacco, che allora proprio entrava nel costume generale, si adoprava o si stimava rimedio a molte e diverse infermità...
[6] Com'è noto, allora si distinguevano i "medici di urina", che erano propriamente i medici, e i "medici di piaga", che erano i chirurgi.
[7] Testo: "ed è iuto a votare (= voltare) ossa a lo ponte Ammore". Mi par da correggere nel modo in cui ho tradotto; e vorrebbe dire che Amore butta le ossa al ponte Ricciardo o ponte della Maddalena, a Napoli, sul Sebeto (per antonomasia il ponte): luogo in cui si gettavano le ossa dei giustiziati e suicidi, e le carcasse dei cavalli e di altri animali.

Traduzione e note al testo di Benedetto Croce.
Il testo originale è nella pagina: G.B. Basile.

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