lunedì 16 marzo 2015

La (Gatta) Cenerentola: Cinese, Egiziana, o...?

"La fiaba di Cenerentola ha una frequenza altissima nella tradizione orale: sconosciuta nell'Africa continentale, è invece diffusa in Europa e in Medio Oriente, in America centrale e meridionale e in Asia, fino alla Cina e al Giappone. La prima versione nota è cinese, e risale al IX secolo; quella di Basile rappresenta la più antica tradizione europea.
Anna Birgitta Rooth, ("The Cinderella Cycle", 1951), ha ampliato quello che Marian Roalfe Cox aveva definito il "Ciclo di Cenerentola" portando a oltre 700 le versioni popolari della fiaba [...] giungendo a formulare l'ipotesi che la fiaba abbia avuto origine in Medio Oriente all'incirca 4000 anni fa, e da lì si sia poi diffusa in Asia e in Europa."
(Anna Buia)


Zhao Guojing - Wang Meifang



Ho letto una fiaba cinese definita la versione più antica di Cenerentola, tramandata oralmente e trascritta nel nostro Alto Medio Evo. Sia in questa versione che in quella dell'antico Egitto, la radice cenerentolesca è individuata in un aspetto assolutamente di secondo piano: la scarpina perduta. La fiaba (più leggenda che fiaba, in realtà) cinese racconta il rapimento della bellissima moglie di un famoso generale da parte di una banda di briganti. La vittima viene portata su per alte montagne, e il marito rintraccia la donna rapita ritrovando una pantofolina perduta, così piccola che non può appartenere ad altri che a lei. Poiché nella storia di Cenerentola la scarpina è una variabile, un dettaglio promosso tardivamente a simbolo stesso della fiaba, può essere altrettato semplicistica la spiegazione che farebbe risalire proprio alla Cina la sua origine. E' celeberrima l'identificazione della suprema bellezza femminile con la piccolezza dei piedi, tanto che le bambine venivano sottoposte all'atroce tortura della "fasciatura", che deformava i loro piedi, impedendone il naturale sviluppo. Se dobbiamo identificare Cenerentola con il motivo della scarpina perduta e della sua estrema piccolezza, indice sicuro della bellezza della proprietaria, l'Estremo Oriente è in posizione privilegiata.
Nel racconto egiziano, il faraone si innamora di una famosa e bellissima cortigiana, Rodope, proprietaria di un elegante sandalo che un uccello gli lascia cadere in grembo, mentre viaggia lungo il Nilo. Che una cortigiana divenga sposa di un faraone è piuttosto cenerentolesco, anzi, più che cenerentolesco. Ma ha poco a che fare con le versioni italiane, le più antiche d'Europa.
D'altra parte, sia in Cina che in Medio Oriente, la scarpina ha anche un'altra valenza: poiché era quasi impossibile guardare una donna da vicino, a meno che non fosse una di famiglia o una prostituta, è piuttosto surreale ma ovvio che il Principe arabo si innamori di un bracciale da caviglia, dopo essere stato stuzzicato dai racconti della  madre sulla "bella sconosciuta" che frequenta le "Notti dell'Henné", feste femminili, affini all'addio al nubilato, in cui la futura sposa e le sue ospiti si decorano il viso e le mani con l'henné e divorano prelibatezze.




Dulac E.


In una fiaba siriana, non cerentolesca, un Principe si innamora della voce di una donna che immagina meravigliosamente bella. In realtà, la sconosciuta è figlia di una donna sterile che ha pregato ardentemente di partorire una sua creatura, "anche se fosse solo un pezzo di carne". E, infatti, le è nato un pezzo di carne, dotato di intelletto e di una voce celestiale.
Costante la vicinanza tra Cenerentola e Pelle d'Asino, a tutte le latitudini, il che annulla l'altro topos cenerentolesco: la povera fanciulla che diventa Regina. La Cenerentola/Pelle d'asino è costretta a fingersi povera, brutta, emarginata, oppure, semplicemente, a nascondere la propria identità: alla fine, la rivelazione delle sue origini regali conforta la scelta del Principe.
Preferisco la Cenerentola di Basile (dalla quale, più o meno deformate, discendono tutte le cenerentole europee) perché il suo mistero è la magia della Predestinata.

Mab

martedì 10 marzo 2015

Gràttula-Beddàttula, Calvino n.148 - (Pitrè n. 42) - Terza e Ultima Parte

uando fu gridato il bando, il mercante va a casa e lo dice alle figlie.
“Che bello! Che bello!”, dissero Rosa e Giovanna; ma Ninetta alzò le spalle e disse:
“Andateci voialtri, che io non ne ho voglia”.
“Eh, no, figlia mia – disse il padre – c'è la pena di morte e con la morte non si scherza”.
“E io che c'entro? Chi volete che sappia che avete tre figlie? Fate conto d'averne due”.
E “Sì che devi venire!” - e - “No che non ci vengo” - la sera della prima festa da ballo Ninetta restò a casa.


Sowerby Millicent



Appena le sorelle se ne furono uscite, Ninetta si rivolse al suo ramo di datteri e gli disse:

Gràttula-Beddàttula,
Sali su e vesti Nina
Falla più bella di com'era prima.

A quelle parole, dal ramo di datteri uscì una fata, poi un'altra fata, e tante tante fate ancora. E tutte portavano vesti e gioielli senza uguale. Si misero intorno a Nina e chi la lavava, chi la strecciava, chi la vestiva: in un momento l'ebbero vestita di tutto punto, con le sue collane, i suoi brillanti e le sue pietre preziose. Quando fu un pezzo d'oro dalla testa ai piedi, si mise in carrozza, andò al palazzo, salì le scale e fece restar tutti a bocca aperta.
Il Reuzzo la vide e la riconobbe; corse subito dal Re a dirglielo. Poi venne da lei, le fece la riverenza, le chiese:
“Come state, signora?”
“Come estate così inverno”
“Come vi chiamate?”
“Col mio nome”
“E dove state?”
“Nella casa con la porta”
“In che strada?”
“Nella vanedda  [vicolo - N.d.A.] del polverone”
“Signora, voi mi fate morire!”
“Fate pure!”


Sowerby Millicent


E così gentilmente conversando ballarono tutta la sera, fino a lasciare il Reuzzo senza fiato, mentre lei era sempre fresca come una rosa. Finito il ballo. Il Re, preoccupato per il figlio, senza farsi accorgere diede ordine ai suoi servitori che andassero dietro alla signora per vedere dove stava. Lei salì in carrozza, ma, quando s'accorse d'esser seguita, si sciolse le trecce e caddero sul selciato perle e pietre preziose. I servitori, come galline sul becchime, si buttarono sulle perle e, addio signora! Fece frustare i cavalli e sparì.
Arrivò a casa prima delle sorelle; disse:

Gràttula-Beddàttula,
Scendi giù e spoglia Nina
Falla tal quale com'era prima.

E si trovò spogliata e vestita con la solita roba da casa.
Tornarono le sorelle:
“Ninetta, Ninetta, sapessi che bella festa. C'era una bella signora che un po' t'assomigliava. Se non avessimo saputo che eri qua, l'avremmo scambiata per te...”
“Sì, io ero qui con i miei datteri...”
“Ma domani sera devi venire, sai...”
Intanto i servi del Re tornarono a palazzo a mani vuote. E il Re:
“Anime infide! Per un po' di quattrini tradite gli ordini! Se domani sera non la seguite fino a casa, guai a voi!”
Neanche la sera dopo, Ninetta volle andar al ballo con le sorelle.
“Questa diventa matta col suo ramo di datteri! Andiamo!” - e se ne andarono.
Ninetta si volse subito al ramo:

Gràttula-Beddàttula, 
Sali su e vesti Nina 
Falla più bella di com'era prima

E le fate la strecciarono, la vestirono con abiti di gala, la coprirono di gioie. A palazzo tutti a guardarla con tanto d'occhi, specialmente le sorelle e il padre.
Il Reuzzo le fu subito vicino:
“Signora, come state?”
“Come estate, così inverno”
“Come vi chiamate?”
“Col mio nome”, e così via.


Sowerby Millicent


Il Reuzzo non se la prendeva, e la invitò a ballare. Ballarono tutta la sera. “Madonna mia! - diceva una sorella all'altra – quella signora è Ninetta sputata!” Mentre il Reuzzo l'accompagnava alla carrozza, il Re fece segno ai servi. Quando si vide seguita, Ninetta tirò una manciata di monete d'oro; ma stavolta tirò in faccia ai servitori, e a chi ammaccò il naso, a chi tappò un occhio, così fece perdere le tracce della carrozza e li fece tornare a palazzo come cani bastonati, tanto che anche il Re n'ebbe pietà. Ma disse:
“Domani sera è l'ultimo ballo: in un modo o nell'altro bisogna saper qualcosa”. Intanto Ninetta diceva al suo ramo:

Gràttula-Beddàttula, 
Scendi giù e spoglia Nina 
Falla tal quale com'era prima. 

In un batter d'occhio era cambiata e le sorelle arrivando le dissero ancora di come le assomigliava quella signora così ben vestita e ingioiellata.
La terza sera, tutto come prima. Nina andò a palazzo così bella e splendente come non era mai stata. Il Reuzzo ballò con lei ancora più a lungo, e si squagliava d'amore come una candela.


Sowerby Millicent


A una cert'ora Ninetta voleva andarsene, quando viene chiamata al cospetto del Re. Tutta tremante, va e gli fa l'inchino.
"Ragazza - dice il Re - m'hai preso in giro per due sere, alla terza non ci riuscirai."
"Ma cosa ho mai fatto, Maestà?"
"Hai fatto che mio figlio si consuma per te. Non credere di sfuggire."
"E quale sentenza mi aspetta?"
"La sentenza che diventerai la moglie del Reuzzo."
"Maestà, io non ho la mia libertà: ho padre e due sorelle maggiori."
"Sia chiamato il padre."
Il povero mercante, quando si sentì chiamare dal Re, pensò 'Chiamata di Re tanto buona non è', e gli venne la pelle d'oca perché aveva parecchi imbrogli sulla coscienza. Ma il Re gli fece grazia d'ogni sua mancanza e gli chiese la mano di Ninetta per suo figlio. L'indomani aprirono la cappella reale pr le nozze del Reuzzo e di Ninetta.

Loro restarono felici e contenti
E noi siam qui che ci freghiamo i denti.








omu nesci lu bannu di lu Re, lu patri va a la casa e cci lu cunta a li figghi: "Picciotti, sapiti? Lu Re fa tri jorna di fistinu a palazzu, e voli ca ogni patri e matri cci purtassi li so' figghi: pena la morti a cu' s'ammùccia."
"Bella! bella!", dissiru Rosa e Giuvannina; ma Ninetta si tirau li spaddi e dissi: "Cci jiti vuàtri, ca io pi mia nun cci vogghiu vèniri."
"No, figghia mia - cci dissi lu patri - ca cc'è la pena di morti: e cu la morti nun si cci joca."
"E io chi nn'haju a fari! Cu' lu sapi ca vui aviti tri figghi? faciti cuntu ca nn'aviti dui."
E "sì ca cci ha' a veniri" e "no ca 'un cci vegnu", la prima sira di la festa di ballu Ninetta s'arristau a la casa cu dda grasta di gràttuli, ch'era la sò diliziu.
Comu li so' soru si nni jeru, Ninetta si vôta cu la grasta e cci dici:

Gràttula-beddàttula
Acchiana susu e vesti a Nina, 
E falla cchiù galanti ch' 'un era assira.

E ddocu di la grasta chi vidistivu nèsciri? 'na gran quantità di fati cu àbbiti e gioj sparaggiati. Cu' la lava, cu' la strizza, cu' la vesti: 'nta un mumentu l'hannu vistutu di tuttu puntu, cu li so' guleri, li so' brillanti e li so' petri priziusi. Ddoppu ca fu un pezzu d'oru, si misi 'n' carrozza, junci a palazzu e acchiana; comu trasi, tutti la talìanu alluccuti. Lu Riuzzu la canuscíu, e cci lu dissi a lu Re; ddoppu va e si la pigghia sutta lu vrazzu e cci spija:
"Signura, comu stati?"
"Comu 'mmernu."
"Comu vi chiamati?"
"Cu lu nnomu."
"Unni stati?"
"Nna la casa cu la porta."
"Nni quali strata?"
"Nna la vanedda di lu pruvulazzu."
"Chi siti curiusa! mi faciti mòriri."
"Putiti cripari!"
Abballanu tutta la siritina. Lu Riuzzu stancava, ma idda 'un stancava, cà era 'nfatata. A la finuta, idda s'assetta vicinu a li so' soru. Comu finisci la festa, lu Re 'n sutta manu ordina a li so' criati ca jissiru dappressu a sta signura, pi vidiri unni stava. Idda scinni, e si metti 'n carrozza; ma comu s'adduna ca li criati cci javanu pi dappressu, si sciogghi li so' trizzi d'oru, e cci cadinu perni e petri priziusi. Vulìstivu vìdiri a li criati? si jettanu comu un gaddu a pastu supra ddi perni, e addiu signura! Idda fici cacciari li cavaddi, e 'ntra quattru botti fu a la casa. Comu junci, dici:

Gràttula-beddàttula, 
Spogghia a Nina, 
E falla com'era assira.

E ddocu si trova spugghiata e vistuta di li robbi di casa.
Tornanu li soru:
"Ninetta, Ninetta, chi bedda festa! Cc'era 'na signura ch'assimigghiava tutta a tia. Si nuàtri 'un sapìamu ca tu eri ccà, dicèvamu ch'eri tu."
"Ma dumani assira cci ha' a vèniri, sai!"
Jamu a lu Re ch'aspittava li criati.
Comu iddi tornanu a palazzu, si cci jettanu a li pedi e cci cuntanu lu fattu.
Lu Re cci dici:
"Genti lizinnàrii, ca pi dinari vi canciati la facci! Ma si dumani assira v'arrisicati a fari la stissa cosa, guai è pi vui!"
Lu 'nnumani assira li soru accuminzaru a siddiari a Ninetta pi jiri cu iddi, ma Ninetta 'un ni vosi sèntiri nenti, e sò patri livò quistioni cu diri:
"'Un lu viditi ca nesci foddi pi ssa grasta? Chissa quarchi jornu m'havi a fari pàtiri quarchi guaju.... Jamuninni!", E si nni jeru.
Comu nèscinu, Ninetta va nna la grasta:

Gràttula-beddàttula, 
Acchiana susu e vesti a Nina, 
E falla cchiù galanti ch' 'un era assira.

E ddocu nèscinu fati 'n quantità: cu' la strizza, cu' la vesti cu l'àbbiti cchiù pumpusi, cu' la càrrica di gioj. Com'è vistuta di tuttu puntu, si metti 'n carrozza e va a palazzu. Comu junci, tutti la talìanu alluccuti, e massimamenti li so' soru e sò patri. Curri lu Riuzzu tuttu cuntenti:
"Signura, comu stati?"
"Comu 'mmernu."
"Comu vi chiamati?"
"Cu lu nnomu."
"Unn'abbitati?"
"Nna la casa cu la porta."
"'Nna quali strata?"
"Nna la vanedda di lu pruvulazzu."
"Chi siti curiusa! Mi faciti mòriri!"
"Putiti cripari!"
Iddu nun si nni fa, e la 'mmita a'bballari cu iddu. Idda cci dici sì, e abballanu tutta la siritina. Ddoppu, idda si va a'ssittari 'ncostu li so' soru.
"Maria! dici una di li soru, sta signura è Ninetta scurciata!"
Finisci la festa. Ninetta si nni va di li primi: lu Re l'accumpagna; e cci fa signali a li criati. Ninetta si nn'adduna; e comu si metti 'n carrozza e si vidi sti criati pi d'appressu, afferra 'na pocu di sacchiteddi di munita d'oru ca avia 'ntra la carrozza e cci li tira 'n facci a li criati: a cui cci ammacca lu nasu, a cui cci attuppa un occhiu: 'un ponnu jiri cchiù avanti, e si nni tornanu a Palazzu comu li cani vastuniati. Lu Re comu li vitti cci parsiru macari piatusi; poi cci dissi:
"'Un fa nenti! Dumani assira è l'urtima sira: e, di 'na manera o di n'àutra, sta cosa s'havi a sapiri."
Jamu a Ninetta. Coma junci a la casa, si vôta cu la grasta:

Gràttula-beddàttula,
Spogghia a Nina,
E falla com'era assira.

'Nta un vìdiri e svìdiri havi canciati li robbi e torna vistuta di casa. Vennu li soru: "Ninetta, Ninetta, chi bedda festa! Cc'era dda signura d'assira ca t'assimigghiava tutta: l'occhi, li capiddi, la vucca, tutta, macari lu parrari. Aveva 'na vesta ca 'un l'aveva nuddu, e poi gioj e petri priziusi ca lucìanu comu li specchi."
"Ma chi mi cuntati a mia? cci dici Ninetta; io m'allienu cu la mè grasta e 'un cercu nè festi nè balli."
"Sì, ma domani assira cci ha' a vèniri..."
"Àutru pinseri non haju chi chistu!", cci arrispunni Ninetta. Ddoppu manciari si jeru a curcari.
Lu 'nnumani assira Rosa e Giuvannina si visteru cu lu megghiu àbbitu novu chi cci avia purtatu sò patri, e jeru a la festa. Ninetta 'un ni vosi sèntiri nenti. Comu nisceru, idda curri nna la grasta:

Gràttula-beddàttula,
Acchiana susu e vesti a Nina.
E falla cchiù galanti ch' 'un era assira.

E subbitu fati 'n quantità: cu' la pettina, cu' la lava, cù la vesti. Ddoppu si metti 'n carrozza: a Palazzu. Sta vota li so' biddizzi eranu sparaggiati, e avia àbbiti e gioi ca 'un si nn'avianu vistu mai. Lu Riuzzu ch'avia statu cull'occhi a la via, comu la vidi cci dici:
"Signura, comu stati?"
E idda cci arrispunni:
"Comu 'mmernu"
"Comu vi chiamati?"
E ddocu fannu lu stissu discursu di l'autri siri.
Abballanu, abballanu, cà era l'urtima sira; a la finuta idda s'assetta vicinu a sò patri e a li so' soru; e li so' soru 'un putianu cchiù di diri 'ntra iddi: "Chista è 'na stampa Ninetta!"
Lu Re e lu Riuzzu la taliavanu puru: e quasi quasi ca a lu Riuzzu cci squagghiava. A 'na certa ura lu Re si la pigghia sutta lu vrazzu cu scusa di purtalla a 'n'àutra cammara pi fàricci pigghiari quarchi cosa. Comu fôru suli, Ninetta si vulía licinziari pi jirisinni; ma lu Re, ca era risulutu di finilla, cci dici: "Dui siri m'hai buffuniatu, ma la terza sira nun mi buffunìi."
"E chi mi sintiti diri, Maistà?"
"Ti sentu diri ca io ti canùsciu, cu' si'; ca tu si' dda giuvina ca mi stai facennu squagghiari un figghiu. Tu ha' a essiri la mugghieri di lu Riuzzu!"
"Maistà, grazia!"
"E chi grazia vôi?"
"Ccà haju a mè patri e a li me' soru, e nun mi pozzu pigghiari libbirtà."
"E chi paura hai?", dici lu Re; e subbitu fa chiamari lu patri.
Chiamata di Re, si soli diri, tanta bona nun è: e a lu poviru patri di Ninetta cci vinni lu friddu pinsannu ch'avia lu carvuni vagnatu. Lu Re cci dichiara lu tuttu, e cci dici ca di la mancanza cci facia la grazia. Lu 'nnumani graperu cappella riali: e lu Riuzzu cu Ninetta si maritaru.

Iddi arristaru filici e cuntenti
E nui semu ccà e nni stricamu li denti.

(raccontata da Agatuzza Messia, Palermo).


Sowerby Millicent



Sulla Traduzione di Calvino:

Intanto, la decifrazione (mancante) di Gràttula-beddàttula.

Dalle note del Pitré:

"Gràttula-beddàttula, dattero, bel dattero. Beddàttula, contr. da bedda grattula, come nel giuochetto popolare:
Ancila bedd'Ancila, 
Pigghia l'agugghia e pùncila".

Poi, il dialogo tra Ninetta e il Reuzzo. Pitré lo replica integralmente almeno una volta. Calvino lo taglia senz'altro già al secondo ballo. Il botta e risposta, tra la cantilena ipnotica ed il gioco infantile, è l'anima, il canto della fiaba, quello che si ricorda e si ripete anche enucleato del contesto. Bene aveva appreso la lezione Luigi Capuana - grande estimatore ed amico del Pitré - le cui "fiabucce", pur senza la pretesa di rappresentare l'universo fiabesco nazionale, attingono largamente, più che ai contenuti, al canto, al meccanismo magico, ripetendo e ripetendo cantilene che sembrano antiche. E sono le uniche fiabe d'autore italiane che apprezzo senza riserve.

Dalle note del Pitré:
Notisi rapidità e motteggi di dialogo, ove la prima risposta della Ninetta ha un doppio senso:
“Signora, come state?“ - “Come inverno." (stati, sost. estate, e verbo, state)
Calvino:"Come estate così inverno". (Perché?) 
“Come vi chiamate?” - “Col nome”
Calvino:"Col mio nome". (Perché?)
“Dove abitate?” - “Nella casa colla porta.”
“In quale via?”- “Nella via del polveraccio”.
Pitré: risposta comune quando si vuole evitare una indicazione di luogo o casa precisa. Addivintari pruvulazzu, vale svanire, sparire.
“Come siete strana! Mi fate morire!” - “(Per me) potete crepare!”
E qui Calvino si supera: “Signora, voi mi fate morire!” - “Fate pure!”

E vai,"Fate pure, madama la Marchesa!". Già l'omissione di quel Chi siti curiusa!, ovvero, strana, particolare, originale, intrigante, (che noi Sudisti trasferiamo paroparo nell'Italiano parlato - esattamente con questo senso) che toglie colore al personaggio del Reuzzo rimbecillito d'amore, che si "squagghia" a causa della bella Signora, e si fa beatamente trattare a pesci in faccia: Iddu nun si nni fa= non se la prende affatto. La sbrigativa durezza di questa Ciniredda cazzuta è annacquata con altrettanta spietatezza.

Aviri carvuni vagnatu, aver la coda di paglia, che fa il paio con il popolarissimo Chiamata di Re tanta bona nun è: ultima pennellata al papà-Don Abbondio. Ma in tempi in cui, senza titoli né denaro o "appoggi" influenti si era carne da macello in mano ai Signuri, un po' di sana simpatia è d'obbligo.

mercoledì 4 marzo 2015

La Sorella del Conte, Pitré n.7 (La Soru di lu Conti)

Risposta popolare con "lieto fine" a "Biancoviso", di G.B.Basile, la fiaba bellissima e tristerrima. E mi consente un rimando all'appunto sulla Cenerentola meridionale (segnatamente Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia), al duetto cantilenante tra l'eroina e il Reuzzo in Gràttula-beddàttula, dove una Ciniredda intraprendente e cazzuta, senza i languori della Cendrillon di Perrault, né l'alone di martirio della Aschenputtel dei Grimm, si rigira il principino intorno al mignolo con impudenza. In questa fiaba, poi, la cantilena ripetuta ha un senso particolare, in cui "erotismo" e "innocenza" si abbracciano con grande naturalezza. Impossibile, quindi, tradurre in Italiano senza perdere la poesia popolana e pura del testo originale, dove non si nega il concetto di peccato: semplicemente non se ne ha cognizione.
"La più bella fiaba d'amore italiana, nella più bella versione popolare, d'un dettato così delicato e struggente, che piacerebbe riportare tutto in dialetto, e una perfetta semplicità di movimenti (quella camicia levata e lasciata cadere)..."
(I. Calvino).
Invece, l'ha tradotta. Devo ammettere, con fedeltà e rispetto, a 'sto giro.
Nel duetto, al Reuzzo che interroga insistentemente la sconosciuta bella come una fata che si è infilata nel suo letto:
"Signura, dunni siti, dunni stati? Di quali statu siti?", la Contessina, facennu ridiri dda vuccuzza d'oru, ribatte:"Riuzzu, chi diciti, chi spijati? Zittitivi, e guditi", laddove chi spijati, vuol dire, evidentemente, "Che m'interrogate a fare?" o "Reuzzo, ma che dite? Ma che volete sapere? Statevi zitto e godete".
Calvino (La Sorella del Conte, n167) :"Reuzzo, che chiedete, che guardate?/Tacetevi ed amate". Burp!

Maxence E.


i cunta e s'arriccunta ca cc'era 'na vota un Conti, riccuni quantu lu mari; e stu Conti avia 'na soru, bedda ca mancu si pò diri, e avia dicidott'anni, e pri forza di gilusia iddu la tinia sempri sutta chiavi 'ntra un quartinu di lu sò palazzu, tantu ca nudda pirsuna l'avia vistu mai e nuddu la canuscía. A limitu e muru di lu palazzu di lu Conti, cc'era lu palazzu di lu Riuzzu. Dda bedda giuvina di Cuntissinedda, guardata e 'nchiusa comu 'na cani, nun la potti tèniri cchiui; tant'è si metti di notti, adàciu, adàciu, e spirtusa lu muru di la càmmara, sutta di un quatru bellu granni. Lu pirtusu currispunnia 'ntra lu quartinu di lu Riuzzu, sutta di n'àutru quatru, tantu ca nun si vidia pri nenti. Una notti idda spinci lu quatru tanticchia; vidi nni lu Riuzzu un priziusu lamperi addumatu, e cci dici:

"Lamperi d'oru, lamperi d'argentu,
Chi fa lu tò Riuzzu, dormi o vigghia?"

E lu lamperi arrispunniu:

"Trasiti, Signura, Trasiti sicura,
Lu Riuzzu dormi, 'Un aviti paura"

'Nca idda trasíu, e si va a curca allatu di lu Riuzzu. Lu Riuzzu s'arrispigghia, l'abbrazza e la vasa e cci dici:

"Signura, dunni siti, dunni stati?
Di quali statu siti?"

Ed idda, facennu ridiri dda vuccuzza d'oru, arrispunniu:

"Riuzzu, chi diciti, chi spijati?
Zittitivi, e guditi."

Quannu lu Riuzzu s'arrispigghiau, e nun si vitti cchiù a lu latu dda bella Dia, si vesti 'ntra un lampu, e chiama:"Cunsigghiu! Cunsigghiu!". Veni lu Cunsigghiu, e lu Riuzzu cci cunta lu statu di li cosi:
"Chi cosa hê fari, pri fàrila arristari cu mia?"
"Sagra Curuna (cci dici lu Cunsigghiu): quannu vu' l'abbrazzati, attaccativi li so' capiddi a lu vrazzu, quantu si si nni voli jìri, v'aviti a rispigghiari pri forza".
Vinni la sira, e la Cuntissina dumanna a lu solitu:

"Lamperi d'oru, lamperi d'argentu,
Chi fa lu tò Riuzzu, dormi o vigghia?"

E lu lamperi a lu solitu:

"Trasiti, Signura, Trasiti sicura,
Lu Riuzzu dormi, 'Un aviti paura."

Trasi, e si 'nfila 'ntra lu lettu cu lu Riuzzu.

"Signura, dunni siti; dunni stati?
Di quali statu siti?"
"Riuzzu, chi diciti, chi spijati?
Zittitivi, e guditi."

Accussì s'addurmisceru, e lu Riuzzu s'avia attaccatu a lu vrazzu li belli capiddi di la Cuntissina. La Cuntissina pigghia 'na fòrficia, si tagghia li capiddi e si nni va. Lu Riuzzu s'arrispigghia:
"Cunsigghiu! Cunsigghiu! La Dia m'ha lassatu li capiddi e spiríu!"
Lu Cunsigghiu arrispunni:
"Sagra Curuna, attaccati a lu vostru coddu un capu di la catinedda d'oru ch'havi a lu coddu idda."


Teodor Axentowicz


L'appressu notti la Cuntissina affacciau:

"Lamperi d'oru, lamperi d'argentu,
Chi fa lu tò Riuzzu, dormi o vigghia?"

E lu lamperi arrispunniu:

"Trasiti, Signura, Trasiti sicura.
Lu Riuzzu dormi, 'Un aviti paura".

Lu Riuzzu, quannu l'appi 'ntra li vrazza, cci spija a lu solitu:

"Signura, dunni siti, dunni stati?
Di quali statu siti?"

E idda rispunni a lu solitu:

"Riuzzu, chi diciti, chi spijati?
Zittitivi, e guditi."

Lu Riuzzu si passau 'ntunnu a lu coddu la catinedda d'idda: ma comu s'addurmiscíu, idda tàgghia la catinedda e spirisci. A la matina lu Riuzzu grida: "Cunsigghiu! Cunsigghiu!", e cci rapporta la cosa.
E lu Cunsigghiu cci dici:
"Sagra Curuna, pigghiàti un vacili chinu d'acqua di zafarana e lu mittiti sutta lu lettu. Com'idda si leva la cammisa, pigghiàtila e jittaticcilla a moddu 'ntra la zafarana. Accussì, quannu si la metti e si nni va, pri lu locu dunni nesci havi a lassari lu rastu."
A la notti chi vinni, lu Riuzzu priparau lu vacili cu la zafarana e si iju a curcari. A menzannotti idda dici a lu lamperi:

"Lamperi d'oru, lamperi d'argentu,
Chi fa lu tò Riuzzu, dormi o vigghia?"

E lu lamperi arrispunniu:

"Trasiti, Signura, Trasiti sicura,
Lu Riuzzu dormi, 'Un aviti paura."

Lu Riuzzu, quannu la vidi, cci feci la solita dumanna:

"Signura, dunni siti, dunni stati?
Di quali statu siti?"

E idda arrispunniu cu la solita manera:

"Riuzzu, chi diciti, chi spijati?
Zittitivi, e guditi."

Quannu lu Riuzzu si misi a runfuliari,idda si susi côta côta pri pàrtiri, e trova la cammisa a moddu a lu vacili cu la zafarana. Senza diri cìu, torci e spremi ben pulita la cammisa, e scappa senza fari rasti.
Di dda sira in poi, lu Riuzzu l'aspittau ammàtula a la sò Dia, e si dava a la dispirazioni. Ma a li novi misi a picu s'arrispigghia una matina, e si trova curcatu a latu un beddu picciriddu ca paria un àncilu. Si vesti 'ntra un fallanti, e grida: "Cunsigghiu! Cunsigghiu!"
Veni lu Cunsigghiu, e lu Riuzzu cci fa vidiri lu picciriddu, dicennu:
"Chistu e mè figghiu. Ma com'hê fari ora pri canusciri cu' è sò matri?"
E lu Cunsigghiu ha rispunnutu:
"Sagra Curuna, finciti ca muríu, lu mittiti 'mmenzu la clésia, e dati ordini chi tutti li fimmini di la citati vinissiru a chianciri: cu' lu chianci megghiu di tutti, chissa è sò matri."
'Nca lu Re accussì fici. Vinianu tutta sorta di fimmini; dicianu:
"Figghiu! figghiu!" e partianu comu avianu vinutu. Vinni a la fini la Cuntissina, e cu li làrimi tanti misi a pilàrisi tutta e a gridari:

"Oh figghiu! figghiu!:
Ca pr'avìriti troppu biddizzi,
Appi tagghiati li me' brunni trizzi
Ca pri essiri troppu bedda,
Appi tagghiata la mè catinedda:
Ca pri essiri troppu vana,
Appi misa la cammisa 'ntra zafarana!"

Lu Riuzzu, lu Cunsigghiu e tutti misiru a gridari: 
"Chista è la matri! Chista è la matri!"
Allura veni avanti lu Conti cu la sciabbula sfudarata, e la spinci contra sò soru. Ma lu Riuzzu si metti di 'mmenzu e cci dici:

"Fermati, Conti, virgogna nun è,
Soru di Conti e mugghieri di Re!"
Accussì si maritaru ddà stissu.


Iddi arristaru filici e cuntenti,
E nui ccà chi nni munnamu li denti


Dalle Note:
Jittaticcilla a moddu: In molle nel bacile, nella catinella.

Rásti s. m. plur. di rastu, segno, orma, vestigio.

'Ntra un fallanti, in un fiat, in men che non si dice.

Brunni, o biunni, o vrunni trizzi, bionde trecce.



Suvorova Olga



Varianti e motivi simili in altre "novelle" citati dal Pitré:


Una versione di Vallelunga raccontatami da Isabella Sanfratello è intitolata Lu Cannileri. La ragazza protagonista stà sola in una delle stanze del suo palazzo, e mangia sempre carne senz'osso. Un giorno la madre le fa portare un pezzo di carne con osso, e con quella novità essa fòra la parete della stanza e penetra a dirittura nella stanza regia, chiedendo a un candeliere fatato che quivi è:

Cannileri d'oru, cannileri d'argentu,
Chi fa lu mè signuri dormi o avventa?

mentre il candeliere le risponde:

Signura, trasissi sicura:
Lu figliu d' 'u Re veni a dormi a la nura*.

Dorme per tre notti di seguito col principe, che non può saper mai chi ella sia, malgrado gli espedienti messi in opera (la zafferana, i chiodi sul pavimento). A nove mesi egli si trova un bambino allato, lasciatogli dalla bella. Non sapendo fare di meglio per appurarne la madre, lo fa esporre come morto in palazzo a suono di mortorio. La madre vestita da contadino va a piangerlo, e grida:

Figliu di la mamma bona,
Pedi pirciati* cu li chiova!
Figliu di la mamma vana,
Mmrogli tinciuti**cu la zafarana.

*A la nura, alla nuda, ignudo.
**Pirciari, forare.
***'Mmrogli tinciuti, vesti, abiti tinti.

E così, fermata, confessa, ed è presa in moglie dal principe; onde diviene Soru di Conti e muglieri di Re.

La Lampa d'oru di Noto è un'altra variante, ove il Consigliere del Re è il Conte, padre, non fratello, della ragazza innamorata di esso Re. Alla dimanda della Contessina, la lampada fatata risponde:

Trasiti signura, trasiti signura,
Lu mè patruni è curcatu a la nura.

La madre che piange la bambina data come morta, dice:

Figghia di 'na mamma fina,
Fusti 'ncatinata cu 'na catina;
Figghia di 'na mamma bedda,
Fusti attaccata cu 'na zagaredda!

[...]
 Nel Cunto de li cunti, Giorn. I, tratt 2. La mortella, una fata per sette notti di seguito, va a giacere, ignota, con un principe, che non può saper mai chi ella sia.

Nell'Ombrion, IV della Novellaja Milanese di V. Imbriani, la ombra va a trovare una ragazza, e a una lampada, lì sullo scalone, dimanda:

Lampada d'argento, stoppino d'oro,
La mia signorina riposa ancora?

E la lampada risponde:

Vanne vanne a buon'ora:
La tua signorina riposa ancora.

Non diversamente che nell'Ombrion, nel Re Bufon, n. XVIII delle Fiabe popolari veneziane di D. G. Bernoni, un principe entra furtivamente nella stanza d'una ragazza, e giace con lei fino a lasciarla grossa. C'è anche una lampada fatata, cui il principe dimanda:

Lampada mia d'argento, stupin d'oro,
Dormela o vègela la mia signora?

E ne ha la risposta:

Intrate, intrate, in bona ora,
La è in camera che dorme sola.

Nel Decamerone del Boccaccio, giorn. IV, nov. 8, Salvestra, già amata da Girolamo, cui essa non amava, va a vedere in chiesa il cadavere di lui esposto per le esequie, "e come ella il viso morto vide, che sotto il mantel chiusa tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e quivi, mandato fuori un altissimo strido, sopra il morto giovane si gettò col suo viso."




lunedì 2 marzo 2015

Le Sette Testine, G. Pitré


'era una volta una vecchierella. Questa vecchierella aveva una nipote e le faceva fare ogni cosa in casa; lei usciva e andava a guadagnarsi il pane. Un giorno portò a casa sette teste d'agnello; le diede alla nipote e disse: "Tanasia,* io esco; tu cucina queste sette teste, che quando giorno le mangiamo."
 La ragazza prese le teste e le mise a cuocere. C'era una gatta lì vicino: come sentì il profumo disse:
"Miio, Miio! Mezza tu e mezza io!"

La ragazza pigliò una di quelle teste, mezza la diede alla gatta e mezza se la mangiò lei. Poi la gatta le si rivolse un'altra volta:

"Miio! Miio! Mezza tu e mezza io!"

La ragazza ne prese un'altra la divise, metà alla gatta, metà a lei. Ma la gatta non si chetò e si mise a piangere ancora:

"Miio, Miio! Mezza tu e mezza io!"

Insomma una per una, tutte le sette teste scesero nello stomaco di Tanasia e della gatta. Quando le teste finirono la ragazza fu presa da una gran confusione, e si mise a grattarsi la testa: "E come faccio, quando viene nonna?"
E non sapendo come fare, aprì la porta e scappò lasciando la casa a gambe all'aria. Cammina, cammina, capitò in un campo di questi. Guardò in terra e vide delle chiocciole; ne prese un po' e si fece una bella collana e due bei braccialetti e se li infilò. La sera, venne notte che lei era in mezzo ai campi; stanca e affamata si gettò sotto un albero e si addormentò. Chi passò? Tre fate.
Quando la videro la più grande disse:
"Mi fa pena questa povera ragazza! Le faccio il dono di diventare più bella di quanto non è."
"E io - disse la mezzana - che queste cose che ha al collo e ai polsi possano diventare diamanti perle e pietre preziose."
"E io - disse la più piccola - che si possa prendere un re!"
E sparirono.
Tanasia si svegliò e si vide i braccialetti e la collana, tutte di cose preziose e disse: "E chi mi ha fatto 'sto bene? che il Signore glielo renda!"
Lasciamo lei e prendiamo la nonna. La nonna come tornò e vide tutta la casa sbaraccata, le ossa delle teste e la nipote fuggita, si struggeva:
"Gesù! Tutte se l'è mangiate!"
Stupita e impallidita uscì di casa; pensava e ripensava e poi diceva:
"Tutte se l'è mangiate!" E non si poteva dar pace .
Un giorno il Reuccio andò a caccia e dove va a capitare? Nello stesso campo dov'era Tanasia, bella, bella quanto il sole e la luna. Come incontrò la bella giovane, disse: "Oh! Che caccia grande! E tu che fai qua?"
La ragazza gli raccontò ogni cosa, e il Reuccio, presto presto, glielo spiegò e se la portò a palazzo. Nel tempo di una settimana, fatti gli incartamenti il Reuccio si sposò con Tanasia; e stavano tutti e due contenti godendosi pure i capelli in testa! Ora successe che la vecchia camminando camminando entrò nella città dov'era Tanasia. Entrò e passò dal palazzo reale dov'erano affacciati il Reuccio e Tanasia. Tanasia, come la vide, la riconobbe e disse:
"Questa è mia nonna."
"Presto, camerieri, scendete da quella vecchia e ditegli di venire a Palazzo, che c'è alloggio e da mangiare per lei."
Il cameriere andò: "Buona donna, la regina dice che c'è alloggio e da mangiare per voi, salite!" 
La vecchia, come se non l'avesse sentito, andava sempre dicendo:
"Tutte se l'è mangiate!" e si struggeva.
Il cameriere tornò dalla regina:
"Maestà, la vecchia non sente: gli ho fatto l'ambasciata e l'ho sentita dire 'Tutte se l'è mangiate!' e ha dato un sospiro da far paura ."
La regina ne chiamò un altro e gli fece fare la stessa cosa; come il cameriere andò dalla vecchia lei inghiottiva e poi diceva: "Tutte se l'è mangiate!"
Quando la reginetta sentì questo, disse tra sé: 'Gesù, ancora alle teste pensa! E se questa sale e mi svergogna... dove vado a nascondermi ??! Vecchia affamata! che pure dopo un anno ancora piangi due schifezze di testine!"
Si rivolse allora al cameriere e gli disse:
"Presto per mio ordine e comando, prendete quella vecchia megera e gettatela dalla finestra all'ingiù."
I camerieri presero la vecchia e la legarono e tirituffiti! la precipitarono dal finestrone. Tanasia se la divertì con il Reuccio.

"E restarono felici e contenti 
E noialtri qua senza niente."


*Il nome del santo patrono di Ficarazzi è S.Atanasio.





"Li Sette Tistuzzi"
Raccontata da Giuseppe Foria, Ficarazzi.
Raccolta da Giuseppe Pitré, n.94.
Tradotta dalla lingua Siciliana da Cecilia Codignola.
Il testo in lingua originale è nella Pagina: Fiabe Popolari-Italia.

Nella versione rimaneggiata, fa parte della raccolta di Calvino (n.170). Ed è uno splendido esempio della fiaba-Frankenstein di Calvino. Ha preferito - come racconto-base - questa variante siciliana ad una calabrese per "il dialogo con il gatto". Ha seguito, però, la variante calabrese per "l'incontro col re nel bosco ed il finale con la decapitazione e il salice." E ha scelto una variante siciliana per "l'insistenza della vecchia durante il festino."
E ci siamo salvati dal solito tocco personale: una canzoncina, una filastrocca, magari... o, addirittura, lo scambio di ruoli di alcuni comprimari...
Alla fine della fiera, il mostro, un ibrido in realtà, viene classificato tra le fiabe siciliane.
"E' tra la fiaba e la storiella di carattere: la meschinità taccagna e lamentosa, che ha più gusto a lagnarsi che a rallegrarsi, per cui la piccola perdita subita non è mai cancellata dai guadagni posteriori." (I. Calvino)


domenica 1 marzo 2015

"Grida"dei Merciajoli Fiorentini, V.Imbriani

Nel riportare le note alla novella "La Verdea" di Vittorio Imbriani, ne ho volutamente tralasciato una particolarmente interessante e gustosa. Il punto è che, oggi, non trattasi più di una "nota curiosa", ma sia le "grida" che i merciajoli sono materia per un archeologo.
Eccola:

[5] Sarà forse non inopportuno il dar qui una scelta delle voci de' venditori ambulanti o di strada in Firenze, ossia di quegli intercalari co' quali profferiscono la loro mercanzia al pubblico, alcuni de' quali sono notevoli per umorismo e molti per gli equivoci licenziosi. Ma già l'Italiano è sboccato di natura.

Donne, laceratevi la camicia! c'è il Cenciajolo! (Il cenciajo).
I' ho la bella bionda! (L'avellanajo).
Assuntina, ce l'ho un bocconcino, o Meo! (Il trippajo).
A chi le taglio le palle! (Il cavolfiorajo).
Chi ha i' dente diacciolo, 'un l'accosti (L'acquacedratajo).
Eccolo, i' vero medico! (Il perecottajo)
Chi mi dà un soldo, gnene do due! (cioè: due scatole, non mica du' soldi come parrebbe. Il fiammiferajo).
Meglio che di cera! (Il zolfanellajo),
I' l'ho con l'uva! (sottintendi: la stiacciata).
Che robe! (Il merciajo).
Canarini che ballano! (Venditore di polenta fritta, napoletanescamente detta: scagliozzi).
Un soldo pieno, una crazia pieno! (cioè, il misurino di castagne secche).
Vero Cancelli! (Il pentolajo).
Queste le cavo ora! (Il caldarrostajo).
Co' i' pelo la càtera! (cioè: le mandorle ancor lattiginose, che mangian col guscio e col mallo).
Tutti drento dal sor Luigi! (Il venditor di siccioli).
Beccatelo ritto! (cioè: il carciofo).
Voitta come le ridono! (cioè: le testicciuole d'agnello).
I' ho de' bei bambini senza la mamma! (Il figurinajo).
Tre volte ve l'ho salati! (Il lupinajo).
Bolle, bolle, bolle, bolle. La me lo senta come l'ho caldo! (cioè: il castagnaccio).
Semina trastullino! (cioè: semi di zucca. In Sicilia i semenzari sogliono gridare: Svia-sonnu).
I' ho i moscioni! (Il marronajo).
A chi lo sbuccio i' gobbo! (L'ortolano).
I' l'ho co' i' mantiglione! (cioè: le barbebietole).
Rompi, bambino, rompi! (Il bicchierajo).
Come la me gli ha fatti la monachina! (Il brigidinajo).
Ce l'ho di Bologna! (cioè: le spazzole di padule).
I' ho i' core! (cioè: le susine).
Queste le vendo! (cioè: le granate di saggina)
Donne, buttachevi di sotto! (Il cenciajolo).
Gli è per l'oche! Ci 'ole i' pittore! Votta che tocchi! Questo ve lo do a taglio! Zucchero, oh! Sangue di drago! (Il cocomerajo), ecc. ecc.

Da: "La Novellaja Fiorentina"


Von Blaas E.