mercoledì 28 agosto 2013

Il Corvo, Fiaba Calabrese su una Fanciulla, un Principe Trasformato in Corvo e l'Ingratitudine

iveva una figlia  d'un ricco mercante bellissima come nessun'altra donna. Era nel primo sbocciare della giovinezza quando l'infanzia muore e la femminilità, vaga e fantasiosa, nasce con un desiderio prepotente di amore e di gioia.
La mattina, sorgendo dal letto tiepido, andava verso lo specchio mentre dalle finestre aperte il sole entrava sorridendo sui riccioli dorati e sulle pareti dipinte con fiorami arabescati. Davanti allo specchio, indossando un accappatoio bianco, prendeva un pettine d'avorio e scioglieva le chiome che il sonno aveva scomposto per intrecciarle in nuovi nodi e viluppi. Poi si avvolgeva nella veste bianca e leggera dal fruscio di seta e, infine, si metteva a lavorare di ricamo dietro il verone.
Da lontano, si disegnavano, a perdita d'occhio, la selva di case, le cupole leggere, le ombre della città e, lontana lontana, sfumata nell'azzurro, la cresta frastagliata dei monti.
Così trascorrevano i giorni pieni d'incanto. Ma avvennero eventi che ruppero la tranquillità e accrebbero il senso di mistero.

Cowper F.C.


Una mattina, mentre era alla toeletta, un corvo entrò dalla finestra aperta e le ghermì il pettine che teneva tra le mani e volò via. La bella giovinetta gridò di spavento e accorsero i familiari e i servi. Ma quando si affaccìarono videro il corvo lontano lontano come un punto perduto nel verde di smeraldo del cielo.
Trascorsero molti giorni e non si pensava più all'accaduto, quando, una seconda volta, mentre era intenta al ricamo, il corvo entrò per il balcone e, calato sul ricamo, prese nel becco le forbici e volò via.
La questione si ripeté ancora una volta. Dopo pochi giorni, infatti, il corvo involò il ditale mentre la bella, smesso il cucito, riguardava l'orlatura.
Ma se la prima volta lo spavento prese il cuore, la seconda e la terza volta un senso vivo di rispettoso timore si impossessò di lei. In questi avvenimenti le sembrava di scorgere un segno.
Erano forse lontani presagi di chissà quali Destini vaghi e fantasiosi?
Le storie udite da fanciulla, nelle quali si narrava di strani amori ed avventure misteriose, le tornavano alla mente. E, in questo vago ondeggiare, trascorreva il tempo.
Ora avvenne cbe una donna che andava da paese a paese a chiedere l'elemosina la sorprese piangente. Alle prime domande non rispose e tentò di dissimulare, ma, alle ripetute insistenze della vecchia, raccontò tutta la storia del corvo pregandola di non raccontarla.
La leggenda continua dicendo che quella donna si recò a chiedere l'elemosina fuori di città in un magnifico palazzo nel quale, per l'uscio aperto, si introdusse un corvo. La vecchia lo seguì su per la scala principesca e per le stanze. Vide il corvo tuffarsi in una vasca marmorea piena di acqua profumata e di là uscire trasformato in un bel cavaliere. La vecchia ebbe paura ma si nascose dietro un uscio. Osservò il giovane il quale, tolto da un cofano cesellato un pettine d'avorio, un ditale e le forbici, piangendo prese a inveire contro il destino che lo condannava ad essere corvo mentre la bella giovinetta da lui amata se ne stava lontana ed inconsapevole del suo grande amore. Poi, il figlio del re, vinto dal dolore, si addormentò.
La vecchia piano piano si allontanò e corse dalla figlia del mercante e raccontò quanto aveva visto e udito.
Trascorsero i giorni e una sera la giovane, non sapendo più resistere all'attrazione e al segreto desiderio, guidata dalla vecchia lasciò la casa natia e andò nel palazzo dove il Destino la conduceva.
Si incantò della bellezza e della dolcezza del figlio del re e quando il giovane cominciò a lamentarsi gli apparve splendida e consolatrice. Dopo il primo smarrimento si abbracciarono e tra dolci carezze e abbandoni confidenti, il principe raccontò del suo destino che lo dannava a esser corvo fino al giorno che una donna venuta da lontano non avesse riempite di lacrime un'anfora.
Allora la giovane cominciò a piangere mentre scoloriva e la persona perdeva la delicata bellezza. Già l'ultima stilla era caduta nell'anfora quando il giovane, divenuto per sempre uomo, disse a lei che raggiante si asciugava il viso:
 "Troppo sei stata ingiusta a lasciare la tua famiglia, a donarti a me e a piangere per me. Non posso più amarti. Addio".***
E subito il palazzo scomparve per incanto e la giovane, sola e addolorata, si ritrovò in mezzo ai campi, timida e paurosa.
Allora - dice la leggenda -le apparve un vecchio e le domandò perché fosse così sciupata e triste. La donna, che aveva bisogno di confidarsi, tutto gli disse. Il vecchio consolandola le consegnò una verga che le ridonò la bellezza. Poi il vecchio, che era San Martino, le disse che con la verga poteva ordinare, in un istante, tutto ciò che avesse voluto e disparve. La donna rimase confusa, ma subito comandò alla verga di trasportarla di fronte al palazzo del principe redento. E ordinò che sorgesse il più bel palazzo del mondo. Vi andò ad abitare e dai balconi, dalle terrazze, dai giardini, nello sfolgorio degli abiti e delle gemme, bella ed altera, la bellissima donna si faceva vedere dal principe che se ne innamorò e cercò di averla in sposa offrendo doni preziosi.
Inviò, ad esempio, in una scatola di fine cesellatura su di un vassoio d'oro, le perle orientali che sua madre metteva nelle circostanze solenni.
La giovane fece lungamente attendere colui che presentava il dono, e poi con i segni del più gran disgusto, ordinò che le perle si dessero in pasto alle oche.
E i doni continuarono a pervenire ancora ma non vennero accolti con maggiore fortuna. Una corona tempestata di gemme venne mandata e venne usata come tripode in cucina; una veste serica di valore e antica, fu adibita a stracci.
Per questo disprezzo l'animo del giovane rimaneva sempre più preso d'amore, quasi alla follia...
Finalmente un giorno il re la invitò a una festa. La bellissima accettò a patto che dalle logge di casa sua a quelle del re, ch'eran dirimpetto, sorgesse un ponte e sul ponte si allungasse un vasto tappeto di bottoni di rose, non ancora sbocciate.
Era d'inverno e le rose non avevano messo che qua e là qualche bottone e il tempo stringeva. Ma il ponte sorse subito e il tappeto di bottoni non ancora sbocciati venne steso.


Abbey E.A.

La festa era stata indetta e i cavalieri più brillanti e le più belle dame eran raccolte nel salone reale a ricevere la regina della festa. Già la giovane era avviata ed era giunta a metà cammino quando un bottone per incanto sbocciò in una bella rosa proprio davanti ai suoi piedi. La donna allora con spietato sdegno si volse indietro e si allontanò dalla festa.
Il principe infelice allora le scrisse una lettera nella quale dichiarava di essere pronto a ogni sacrificio che ella volesse imporgli. Ed ella rispose che doveva fingersi morto, farsi trasportare in una bara per la città e passare dinanzi al suo balcone. Il principe accettò. La città fu pavesata a lutto. In un lungo ordine passarono i frati salmodiando, seguivano le truppe e in mezzo ai dignitari della corte, su di un sarcofago, era il principe, mentre una folla di popolo assisteva alla strana cerimonia...
Il corteo percorse la città e passò sotto Il suo balcone. La donna bellissima e astuta vedendo la scena dette in uno scoppio di risa e disse:
"Quante ne fa un uomo per una donna!".
Il principe fece fermare il corteo e, riconosciutala, le chiese perdono e confessò il suo errore. E la donna amante e generosa perdonò e divenne sua sposa. Tra canti e musica.





*** Nella versione di Italo Calvino, "La Colomba Ladra", fiaba n.153 della sua raccolta, tratta dal testo in Siciliano del Pitrè, "La Palumma", che spero di riuscire a tradurre presto, il Principe ex-stregato è ancòra più violento e arrogante. La fanciulla , per liberarlo, trascorre un anno e un mese e un giorno con il viso esposto al sole e alle intemperie, rivolto alla montagna dove è prigioniero:
"E a poco a poco diventava scura, sempre più scura, finché non fu nera come la pece. Così passò un anno e un mese e un giorno e la colomba ridiventò uomo e scese dalla montagna. Appena vide che la Reginella era diventata così nera, esclamò: 'Ppuh! Come sei brutta! Non ti vergogni di farti vedere così imbruttita per un uomo! Va' via!', e le sputò."
Frase che fa perfettamente pendant con la frase della ragazza nel finale.

Da:
"Leggende e Racconti popolari della Calabria", a cura di Grisi F.

sabato 17 agosto 2013

La Baba-jaga e Morto-di-fame, Fiaba Russa

'era una volta un vecchio e una vecchia, che non avevano figli. Per quanto facessero, per quanto pregassero Dio, bambini la vec­chia non ne metteva al mondo. Una volta che l'uomo andava nel bosco in cerca di funghi, incontrò per strada un vecchio nonnino.
"Io lo so cos'hai nella testa, - dice - tu pensi sempre ai bambini. Va' dunque in giro per il paese, fatti consegnare un uovo per ogni casa, e mettili sotto una chioccia; cosa succederà, lo vedrai tu stesso!"
Il vecchio tornò al paese; nel loro villaggio c'erano quarantuno famiglie, ed egli andò attorno per ogni casa, raccolse in cia­scuna un ovetto e mise la chioccia sulle quarantuno uova. Passano due settimane, il vecchio guarda, anche la vecchia guarda, ed ecco che dalle uova nacquero dei ragazzini; quaranta forti e pieni di salute, uno invece era riuscito male, debole e magrolino! Il vecchio cominciò a dar loro un nome; lo diede a tutti, ma per l'ultimo non riusciva a trovarne uno. "Be', - dice - tu sarai Morto-di-fame!"
Dal vecchio e dalla vecchia i bambini cominciano a crescere; crescono non a giorni, ma a ore; cresciuti che furono cominciarono a lavorare, ad aiutare il padre e la madre: i quaranta giovani si recano sul campo, e Morto-di-fame riordina la casa. Arrivò il tempo della fienagione; i fratelli falciarono l'erba, ammucchiarono i covoni; per una settimana lavorarono, e poi tornarono a casa; mangiarono quel che c'era, e si misero a dormire. Il vecchio li vede e dice: "Gioventù! mangiano tanto, dormono duro, ma il lavoro non l'hanno fatto di certo!"
"Va' prima a vedere, babbino!", dice Morto-di-fame. Il vecchio si vesti e andò sul campo; guarda: ave­vano ammucchiato quaranta covoni di fieno:
"Ah che bravi ra­gazzi! quanto fieno hanno tagliato e ammucchiato in una settimana!"
Il giorno dopo il vecchio si recò di nuovo sul campo, a godersi i suoi averi; arrivò e vide che mancava un mucchio! Torna a casa, e dice: "Ah figlioli! è sparito un covone".
"Non te la prendere, babbino - risponde Morto-di-fame - lo acchiapperemo noi il ladro; dammi cento rubli e vedrai che sistemo la cosa".



Dugin A. e Dugina O.

Prese dal padre cento rubli e andò da un fabbro.
"Puoi forgiarmi una catena che basti ad avvolgere un uomo dalla testa ai piedi? "
"Perché no! "
"Ma bada di farla ben forte; se la catena regge ti pagherò cento rubli, ma se non regge, il tuo guadagno andrà in fumo!"
Il fabbro forgiò una catena di ferro; Morto-di-fame se l'avvolse  tutta intorno, tirò, e la catena si ruppe. Il fabbro la fece due volte più forte, e questa volta tenne. Morto-di-fame prese quella catena, pagò cento rubli e andò a far la guardia al fieno; sedette sotto un covone e attese.
A mezzanotte in punto si levò una bufera, il mare divenne agitato e dalle profondità marine usci una cavallina fatata che corse verso il primo covone, e si mise a masticare il fieno. Morto-di-fame saltò su, l'imbrigliò con la catena di ferro e le saltò in groppa . La cavallina comincia a correre in tutte le direzioni, lo porta per monti e per valli, ma niente da fare, non riesce a disarcionare il cavaliere! Allora si fermò e disse:
"Suvvia, bravo giovanotto! Visto che hai saputo stare in sella su di me, prendi e comanda anche i miei puledri".
Corse vicino al mare e nitrì; l'azzurro mare s'agitò e vennero a riva quarantuno puledri: una bestia più bella dell'altra! puoi girare tutto il mondo, non ne troveresti una migliore!
Un mattino il vecchio ode nella corte nitriti, scalpitii; che succede? Era il suo figliolo Morto-di-fame che sospingeva un intero branco di cavalli.
"Salute fratelli! - dice - adesso c'è un cavallo per ognuno di voi; andiamo a cercarci una fidanzata"
"Andiamo!"
Il padre e la madre li benedissero e i fratelli partirono per vie e strade lontane.
A lungo cavalcarono per il mondo, ma dove trovare tante fidanzate? Separatamente non volevano sposarsi, perché gli altri non avessero a restarne offesi; e quale madre poteva vantarsi di aver fatto proprio quarantuno figlie? Millanta terre attraversarono i giovani. Arrivarono in un punto; guardano: su un ripido monte stavano dei palazzi di marmo bianco, racchiusi da alte mura, con aste di ferro ai cancelli. Le contarono, erano quarantuno; vi legarono i loro prodi cavalli ed entrarono nella corte.
Vien loro incontro una baba-jaga:
"O voi, non-chiamati non-richiesti! come avete osato legare i cavalli senza prima chiedere il permesso?"
"Su, vecchia, perché gridi? dacci prima da mangiare e da bere, portaci al bagno, e poi chiederai notizie."
La baba-jaga diede loro da mangiare e da bere, li accompagnò al bagno, e finalmente cominciò a chiedere:
"Bravi giovinotti, cercate l'avventura o fuggite la sventura?"
"Cerchiamo l'avventura, nonna!"
"E cosa v'occorre?"
"Siamo in cerca di fidanzate."
"Io ho delle figlie", dice la baba-jaga; si precipitò nell'alto terem e riportò quarantuno ragazze.
Qui si fidanzarono, cominciarono a bere, a far baldoria, a prepararsi alle nozze. La sera Morto-di-fame andò a sorvegliare la sua cavalcatura. Quando il suo buon cavallo lo scorse, disse con voce umana:
"Bada padrone! quando andrete a dormire con  le giovani spose, abbigliatele con i vostri abiti, e voi mettete quelli femminili: se no sarete tutti perduti!"
Morto-di-fame disse questo ai fratelli; essi vestirono le giovani spose dei loro abiti, e presero per sé quelli da donna, poi andarono a dormire. S'addormentarono tutti, salvo Morto-di-fame che non chiuse occhio. A mezzanotte in punto la baba-jaga gridò con voce acuta: "Ehi voi, servi miei fedeli! tagliate la testa agli ospiti indesiderati! "
I servi fedeli accorsero e tagliaron le teste impetuose delle figlie della baba-jaga, Morto-di-fame svegliò i suoi fratelli e raccontò loro tutto quel ch'era successo; essi presero le teste recise, le piantarono sulle lance di ferro che correvano lungo le mura, poi sellarono i cavalli e si allontanarono veloci.
 Al mattino la baba-jaga s'alzò, guardò dal finestrino: tutto at­torno alle mura spuntano sulle lance le teste delle figlie; allora s'infuriò terribilmente, ordinò che le portassero il suo scudo in­fuocato e si gettò all'inseguimento sparando con lo scudo da tutti e quattro i lati. Dove potevano nascondersi i giovani? Dinanzi hanno l'azzurro mare, dietro la baba-jaga che fiammeggia e spara!
Dovevano morire tutti, ma Morto-di-fame era stato previdente; egli non aveva dimenticato di prendere alla baba-jaga un fazzolettino; lo agitò dinanzi a sé, e d'improvviso un ponte attraversò tutto l'azzurro mare; i bravi giovani passarono dall'altra parte. Morto-di-fame agitò il fazzolettino dal lato opposto, e il ponte sparì; la baba-jaga tornò indietro e i fratelli se ne andarono a casa.

Afanas'ev n.71

venerdì 16 agosto 2013

Tulipana, Fiaba Lombarda di un Principe Gatto-Ranocchio

'erano una volta quattordici sorelle, e la più giovane si chiamava Tulipana: era una lazzarona, che non aveva proprio voglia di comportarsi bene. La madre preparava le medicine, faceva l'erborista, e tutte le mattine mandava le figlie in montagna con la gerla a raccogliere le erbe medicinali. Partivano tutte e quattordici, ma tredici lavoravano, si davano da fare, mentre la quattordicesima tutto il giorno rincorreva le farfalle. Le sorelle la sera le davano tutte una manciata d'erba, e così anche lei riempiva la gerla; poi andavano a casa, nella grande cucina vuotavano le gerle, e dopo la cena dividevano le erbe una ad una, scegliendo una qualità e un'altra. Una sera, giunte a casa con le gerle, come al solito le vuotarono, ma da quella di Tulipana uscì una vipera che, s'ich s'ich s'ich si mise a correre per la cucina; la madre spaventata urlò:" Mi hanno portato la morte in casa!", poi chiese in quale gerla si trovasse la vipera. Le figlie risposero:" In quella di Tulipana", e lei subito rivolta alla madre disse:
" Sono state le mie sorelle a metterla dentro!".
" Ah sì! - la rimproverò la madre - Sono state loro? Bene, via, tutte a letto senza cena".
Avevano lavorato tutto il giorno ed erano affamate, allora arrabbiate, dissero a Tulipana:
" Questa ce la pagherai, ce la pagherai salata!"
Il mattino seguente si alzarono, fecero colazione, si caricarono le gerle sulla schiena e come al solito andarono a raccogliere le erbe; Tulipana rincorreva le farfalle e neppure guardava l'erba. Si fece sera, per tutta la giornata le sorelle non le avevano rivolto nemmeno una parola, e riempite le gerle si avviarono lasciandola indietro.
"Aspettatemi! - gridò loro Tulipana - cosa faccio qui da sola?".
Cominciava a farsi buio, e le sorelle neppure si voltarono; Tulipana continuava a chiamarle:
"Aspettatemi, ho paura!", ma nessuna si voltò. Allora si mise a piangere e pensava tra sé:'Mi hanno proprio abbandonato. Cosa posso fare adesso? Se avendo con la gerla vuota, cosa potrò raccontare a mia madre?'. E così d'un tratto si mise a gridare:" Lupi della foresta, venite in mio aiuto! Belve della foresta, venite in mio aiuto! Cani e gatti della foresta, venite in mio aiuto!". D'improvviso comparve un grosso gatto rosso, con due gobbe e due occhi di fuoco. Tulipana, appena lo vide, urlò spaventata:
" Via, brutta bestia!"
" Tu mi hai chiamato - disse il gatto - ed io sono venuto".
" Mi fai paura, vattene che non ti voglio", ripeteva Tulipana. Ma il gatto la consolò:
" Non far così, Tulipana, io ti aiuterò a raccogliere l'erba in fretta, io conosco anche le scorciatoie, e così potrai passare avanti alle tue sorelle!".
Poi si mise a raccogliere l'erba con le zampe, le riempì la gerla e gliela sistemò sulle spalle, quindi le disse:" Andiamo per questi sentieri, arriverai a casa prima delle tue sorelle". Tulipana prese la gerla e s'incamminò, ma di tanto in tanto guardava se il gatto la seguiva o se restava indietro: ma lui era sempre di qua o di là, e intanto pensava: ' Quando arriverò al cancello, entrerò e ti chiuderò fuori!".
Quando arrivarono davanti alla casa, Tulipana aprì il cancello, entrò e lo richiuse in fretta. Ma il gatto fece un balzo e la seguì.
'Bene, arriverò alla porta, e là non riuscirai più ad entrare!', pensava Tulipana. Infatti arrivò alla porta, lei entrò, e lo chiuse di fuori: 'Meno male, adesso non c'è più!'. Tulipana era ancora impaurita, andò in cucina, vuotò la gerla, si mise a mangiare, quando ebbe finito 'Vado a letto', si disse, e si avviò verso la sua stanza. Il gatto era scomparso. Quando fu sotto le coperte d'improvviso sentì:“Tirati in là! Ho lavorato tutto il giorno, voglio dormire anch' io!”.
“Santo cielo!”esclamò Tulipana: il gatto aveva fatto il giro della casa ed era entrato dalla finestra, ed ora si era infilato nel letto accanto a lei. Per tutta la notte non riuscì a chiudere occhio. AI mattino la madre svegliò le ragazze. Come era solita fare, Tulipana scese in cucina, ma nella scodella trovò solo metà del latte: “Come mai?”, disse meravigliata. Di sotto il tavolo il gatto le rispose: “Ho lavorato anch'io, voglio mangiare anch'io”. Tulipana mangiò la sua mezza scodella di latte, poi si disse: 'Devo partire affamata, e stare così tutto il giorno!'.
Era arrabbiata: per tutto il giorno non guardò mai il gatto, ma lui intanto le raccolse l'erba, le riempì la gerla, come aveva fatto la sera prima. 'Beh, riuscirò a disfarmene!', pensò alla fine Tulipana mentre si caricava la gerla sulle spalle. Ma non ci riuscì. Lui corse avanti, ed entrò in casa prima di lei. Tulipana andò per mangiare la sua minestra, le scodelle erano pronte, ma la sua era piena solo a metà: l'altra metà l'aveva mangiata il gatto. Al colmo della rabbia, Tulipana pensò: 'Mangia anche metà del mio cibo, come farò?', e rivolta al gatto gli disse: “Vattene, non ti voglio più!”.
“Ho lavorato anch'io - le rispose il gatto - ascolta, non arrabbiarti, stasera metti una trappola nella legna: prenderai un topo, sarà bianco, ti pregherà di lasciarlo andare, ma tu non lasciarlo, dallo a me, altrimenti io mangerò ancora il tuo cibo”
“Va bene”, disse Tulipana, ma per tutto il giorno rimase imbronciata. La sera, quando fu a letto, il gatto, che era accanto a lei, le disse: “Senti? La trappola è scattata!” Subito la ragazza si alzò, e dentro la trappola trovò un topolino bianco, tanto bello, che la implorava:
“Tulipana, non avrai il coraggio di farmi mangiare da quella brutta bestia! Guarda come sono bello, lasciami andare!". II topolino la pregava, la supplicava, ma lei non lo liberò, e lo diede da mangiare al gatto.
Il mattino seguente il gatto non aveva più le gobbe, era diventato bello, ma era ancora rosso.
"Come sei bello questa mattina!”, gli disse Tulipana.
“Guarda, stasera io non toccherò il tuo cibo, ma tu metti ancora la trappola", le disse il gatto. Tulipana così fece. Rimasero a lungo in attesa; la trappola non scattava mai. Quando finalmente scattò, scesero di corsa: trovarono un topino ancora più bello dell'altro, bianco anche quello, che la pregò e la pregò di lasciarlo andare. Ma Tulipana non si lasciò impietosire: lo diede al gatto e questi se lo mangiò.
Il mattino seguente il gatto era tutto bianco, un bel gattone tutto bianco.
 “Come sei bello!”, gli disse la ragazza tutta contenta. Rimasero insieme tutto il giorno. La sera il gatto di nuovo le disse: "Guarda che stasera ne prenderai un altro, ti pregherà tanto, ma tu non lasciarlo andare, dallo a me”.
“No, no, non lo lascerò davvero!”, lo rassicurò Tulipana.
Rimasero lì fino a mezzanotte, fino a quando la trappola scattò; allora scesero, e nella trappola c'era un topino tutto bianco, con le orecchie rosa e gli occhietti celesti, tanto bello! Tulipana tra sé e sé si diceva: “Domani mattina sarà così anche il mio gatto”.
Il topino la pregò di lasciarlo andare, piangeva e piangeva; “No, non ti lascio andare”, gli disse Tulipana, e anche quello lo diede al gatto.
Al mattino quando si svegliò, Tulipana vide il gatto sul balcone che la guardava: era così bello! Lei balzò in piedi per prenderlo, ma lui le disse:”Addio,Tulipana, io me ne vado al Castello di corallo rosso: se vorrai rivedermi, verrai là”.
Fece un balzo, e sparì.
Tulipana si mise a piangere, ma poi si vestì a festa, scese e disse:"Mamma, vado!"
“Dove vai?”, le chiese stupita la madre.
“Vado in cerca del Castello di corallo rosso”.
“Sei matta, non s'è mai sentito neppure nominare!”, ribattè la madre.
“Sì, io vado a cercarlo, deve esserci!”. E partì.
Cammina cammina, girò a lungo, domandò a tutti; nessuno ne aveva mai sentito parlare. Stanca, si trovò ad un certo momento su di un prato, lontano dalle case; faceva buio, e d'un tratto vide una casina; guarda: non c'era né uscio per entrare, né una finestra, solo sotto il tetto c'era una piccola finestrina. Rimase a lungo a guardare, domandandosi: “Come si farà ad entrare? Come si farà?” Dalla finestrina vide uscire una farfalla. 'Ah, adesso ti prendo!', pensò, e la prese per una ala. La farfalla continuava va a dibattersi, finché l'ala rimase in mano a Tulipana, e la farfalla fuggì. Tulipana allora mise l'ala nel fazzoletto, ben ripiegato, poi posò il fazzoletto in terra, come un cuscino, vi poggiò il capo e si addormentò. Prima di addormentarsi,però, guardando in alto, si diceva: "Se almeno uscisse qualcuno da quella finestrina!”. Ed ecco che si era affacciato un serpente.
Quando si svegliò la casina non c'era più, al suo posto Tulipana trovò un grande lago in cui nuotavano i cigni di mare. Stupita mentre guardava tutto questo, si chiedeva:
'Cosa è mai accaduto? Com'è tutto cambiato intanto che ho dormito!”
Uno dei cigni le si avvicinò e le disse: “Tulipana, sali che ti porto sull'altra sponda". Lei ubbidiente salì e si fece trasportare dall'altra parte.
Una volta che fu sul dorso del cigno gli chiese:
"Sai dove si trova il Castello di corallo rosso?"
"Quando ti poserò di là - le rispose il cigno - ti insegnerò una strada: andrai per quella via, incontrerai qualcuno che ti darà indicazioni". Quando giunsero sull'altra sponda, il cigno col becco si tolse una penna da un'ala, una penna dall'altra e una penna dalla coda, dicendo: "Prendi queste tre penne: quando incontrerai degli ostacoli, dei pericoli, toccali con queste penne, e i pericoli, gli ostacoli scompariranno". Tulipana lo ringraziò e si incamminò per la via che le era stata indicata. Cammina e cammina, incontrò un signore e gli chiese:
"Sapete dove si trova il Castello di corallo rosso?"
"Non ne ho mai sentito parlare!", le ri­spose quello meravigliato.
'Come farò?', si diceva Tulipana. Cammina ancora un poco, incontrò un altro signore:
"Sapete dove si trova il Castello di corallo rosso?", chiese anche al secondo.
"Vai avanti un poco e vedrai che lo troverai", le disse questo signore.
Allora tutta contenta, cammina e cammina, ad un tratto vide un bel Castello di corallo rosso: il cancello era aperto, la porta era aperta, fece per entrare, ma ecco che al cancello comparve un lupo. Tulipana con una penna lo toccò sulla testa, e Il lupo subito si trasse in disparte e la lasciò passare. Giunta alla porta, si vide davanti un leone: prese l'altra penna, lo toccò sulla testa, e anche il leone la lasciò passare. Cerca di qua cerca di là, nelle stanze non c'era nessuno. Si avvia su per le scale, ed ecco un serpente scendere fin giù, in modo che non poteva salire. Allora prese l'ultima penna e lo toccò sulla testa: il serpente si trasse da parte e la lasciò passare. Arrivata in cima alle scale, cerca e cerca, non tro­vava niente, finché vide una piccola porta, la aprì e si trovò in una stanzetta. Nel centro della stanzetta, tutta tappezzata d'oro, stava un tavolino, sopra il tavolino c'era un cuscino e su di esso dormiva il suo gatto. Tulipana si avvicinò: "Ah eccoti qui! - disse - Mi hai fatto tanto penare!".



Come il gatto si svegliò, balzò a terra e subito si trasformò in un giovane che le disse:
"Mi hai salvato! I maghi mi avevano confinato nel bosco, e se tu non avessi fatto questo lungo viaggio, io sarei rimasto qui per sempre. Sappi che io sono il figlio del re, ed ora che mi hai salvato, andremo a casa, dai miei genitori e ci faremo conoscere da loro".
E la storia è sempre la stessa: si sono sposati

han fatto pastino e pastone 
non ne hanno offerto nemmeno un boccone*


*Le formule finali di molte fiabe di magia (dove si presentano con più costanza rispetto alle novelle, o alle favole a catena) possono suggerire le occasioni in cui questi testi venivano spesso narrati. Senza dilungarmi qui in una analisi che richiederà un lungo lavoro, posso solo accennare all'ipotesi avanzata da Glauco Sanga, che cioè le formule finali siano in realtà in gran parte richieste di cibo, di aiuto materiale. Ipotesi che può essere confermata anche dal fatto che, come riferiscono molti narratori di professione, essi si spostavano specie d'inverno, di casa in casa a raccontare le loro storie aspettandosi in cambio alloggio e cibo per una o più notti. [N.d.A]


Da:
"Leggende e Racconti popolari della Lombardia", a cura di Lidia Beduschi

giovedì 15 agosto 2013

La Storia di Luda, Fiaba Popolare Araba

n tempi antichi viveva una donna di età avanzata che aveva sei figli. Alla soglia della vecchiaia ne mise al mondo un settimo che, al momento della nascita, era piccolissimo.
Sette giorni dopo la nascita il bambino parlò e disse:
"Madre mia, chiamami Luda. Mettimi in un piccolo scrigno, e io vivrò lì, protetto dal resto del mondo".
La madre prese il piccolo e lo mise in uno scrigno. Ogni giorno si recava da lui e lo allattava.
Un giorno, i suoi fratelli ormai grandi decisero di partire per un lungo viaggio. Luda chiese di poterli accompagnare ma essi gli risposero:
"Sei troppo piccolo e non ci serviresti a nulla; anzi ci saresti di intralcio."
Luda allora si trasformò in un anello di pietre preziose e si piazzò sulla strada, lungo il cammino. Il fratello più giovane lo trovò e disse:
"Che fortuna trovare un anello così prezioso!". Lo prese e se lo mise al dito.
Giunti alla fine del viaggio, l'anello gridò:
"Fratello, il tuo dito è troppo grosso e mi fa male. Scuotilo forte!"
Il fratello obbedì e l'anello cadde a terra. Subito si trasformò in un fez* e il fratello se lo mise in testa. Poco dopo il fez parlò:
"Fratello, il sole mi brucia, mettimi all'ombra."
Il fratello obbedì, e non appena il fez fu all'ombra, riprese le sembianze di Luda.
I fratelli lo videro e, pensando che era troppo tardi per rimandarlo indietro, decisero di tenerlo con loro.
Durante il cammino, i giovani incontrarono una vecchia che sorvegliava un gregge di pecore. Ella fu molto gentile e offrì loro ospitalità nella sua casa.
Ma Luda disse sottovoce ai fratelli:
"Fratelli, state attenti perché la vecchia in realtà è una ghula.**"
Infatti, ella preparò loro una bella cena, poi li condusse in una camera e aspettò che si addormentassero per poterli mangiare.
Ma Luda non dormiva e quando la ghula entrò cominciò a piagnucolare. La ghula, irritata, disse:
"Luda, Luda, come faceva la tua mamma a farti addormentare?"
Luda rispose: "Prendeva del grasso di montone e me lo faceva mangiare a piccoli bocconi."
La ghula andò a sgozzare un montone del suo gregge, fece cuocere il grasso e lo portò a Luda. Glielo fece mangiare e poi aspettò che si addormentasse.
Quando ritornò, Luda piagnucolava ancora.
"Che cosa c'è adesso?" chiese la ghula sempre più irritata.
"Portami dell'acqua fresca del pozzo" rispose Luda.
Non appena la ghula si fu allontanata, Luda svegliò i suoi fratelli e disse:
"Presto, presto, scappiamo: la ghula ci vuole mangiare."
Tutti insieme fuggirono verso casa.
Quando arrivarono alle porte del loro villaggio, videro che era cresciuto un grosso giuggiolo carico di frutti.
I fratelli stavano per raccoglierne, ma Luda li fermò:
"Non toccatelo! È la ghula che ha preso quell'aspetto."
I sette fratelli corsero a casa e sprangarono porte e finestre.
Il giorno seguente, tutti i bambini del villaggio andarono a raccogliere le giuggiole e vennero catturati dalla ghula che li mise a guardia dei suoi montoni, un attesa di mangiarli.
Le mamme del villaggio si recarono da Luda e gli chiesero di aiutarle a ritrovare i loro bambini. Luda si trasformò in un agnellino. Andò a casa della ghula e disse ai bambini che sorvegliavano il gregge:
"Mi chiamo Luda e sono venuto per aiutarvi. Andate dalla ghula e ditele che una pecora ha partorito un agnello."
La vecchia accorse subito e domandò:
"O agnellino, sei proprio figlio della mia pecora? Se è così, diventa giallo."
L'agnellino diventò giallo.
La ghula, ancora sospettosa, chiese:
"Se sei veramente figlio della pecora diventa verde."
E l'agnello diventò verde.
"Se sei figlio della mia pecora diventa rosso."
E l'agnello diventò rosso.
Allora la ghula, tranquillizzata, se ne andò.
I bambini, uno alla volta, fuggirono e tornaronoal villaggio dalle loro mamme.
Quando la ghula se ne accorse, si trasformò in una fanciulla bellissima e andò al villaggio, dove tutti gli uomini si innamorarono di lei e chiesero la sua mano.



Dugina O.

Ella disse: "Sposerò solamente colui che riuscirà a vincere la forza del mio pugno." Ella, infatti, aveva un pugno fortissimo.
Uno dei fratelli di Luda accettò la sfida e riuscì a vincere la fanciulla.
Ben presto vennero celebrate le nozze con grandi festeggiamenti.
Quella sera gli sposi si addormentarono e la ghula aspettò che il marito si addormentasse per poterlo mangiare.
Ma Luda, che era piccolo piccolo, si era nascosto sotto il letto e ogni volta che la ghula domandava: "Dormi, maritino mio?" egli rispondeva:
"Non riesco a dormire per la felicità di aver sposato una donna così bella."
Così fino al mattino.
Allora la ghula, arrabbiata, strappò gli occhi al marito e fuggì. Luda la precedette. Prese le sembianze della figlia della ghula e si mise della paglia sotto la veste per formarsi un grosso ventre.
Non appena la ghula arrivò, disse:
"Madre mia, sono di nuovo incinta e il marito mio è diventato cieco."
"Prendi questi due occhi, li ho strappati or ora al fratello di Luda. Con questa colla magica li incollerai al posto di quelli di tuo marito."
Allora Luda prese gli occhi, poi si sbarazzò del falso ventre e gridò:
"Sono Luda, grazie degli occhi, brutta ghula! Grazie tante!"
La ghula scoppiò di rabbia e morì sul colpo.

*  Un tipo di Copricapo.
** E' la femmina del Ghoul, sorta di Dèmone-Orco. Ricordano le Lamie, rapitrici di bambini e cannibali.

Da: "Fiabe popolari Arabe"

domenica 11 agosto 2013

Puccettino, Collodi Traduce Perrault, (Illustrazioni G.Dorè)

'era una volta un taglialegna e una taglialegna, i quali avevano sette figliuoli, tutti maschi: il maggiore aveva dieci anni, il minore sette. Farà forse caso di vedere come un taglialegna avesse avuto tanti figliuoli in così poco tempo: ma egli è, che la sua moglie era svelta nelle sue cose, e quando ci si metteva, non faceva meno di due figliuoli alla volta. E perché erano molto poveri, i sette ragazzi davano loro un gran pensiero, per la ragione che nessuno di essi era in grado di guadagnarsi il pane.
La cosa che maggiormente li tormentava, era che il minore veniva su delicato e non parlava mai: e questo che era un segno manifesto di bontà del suo carattere, lo scambiavano per un segno di stupidaggine.
Il ragazzo era minuto di persona; e quando venne al mondo, non passava la grossezza di un dito pollice; per cui lo chiamarono Puccettino.
Capitò un'annata molto trista, nella quale la carestia fu così grande, che quella povera gente risolvettero di disfarsi de' loro figliuoli.





Una sera che i bambini erano a letto, e che il taglialegna stava nel canto del fuoco, disse, col cuore che gli si spezzava, alla sua moglie:
"Come tu vedi, non abbiamo più da dar da mangiare ai nostri figliuoli: e non mi regge l'animo di vedermeli morir di fame innanzi agli occhi: oramai io sono risoluto a menarli nel bosco e farveli sperdere; né ci vorrà gran fatica, perché, mentre essi si baloccheranno a far dei fastelli, noi ce la daremo a gambe, senza che abbiano tempo di addarsene".
"Ah!- gridò la moglie - e puoi tu aver tanto cuore da sperdere da te stesso le tue creature?"
Il marito ebbe un bel tornare a battere sulla miseria, in cui si trovavano; ma la moglie non voleva acconsentire a nessun patto. Era povera, ma era madre: peraltro, ripensando anch'essa al dolore che avrebbe provato se li avesse veduti morire di fame, finì col rassegnarvisi, e andò a letto piangendo. Puccettino aveva sentito tutti i loro discorsi: e avendo capito, dal letto, che ragionavano di affari, si levò in punta di piedi, sgattaiolando sotto lo sgabello di suo padre, per potere ascoltare ogni cosa senz'esser visto.





Quindi ritornò a letto, e non chiuse un occhio nel resto della nottata, rimuginando quello che doveva fare. Si levò a giorno, e andò sul margine di un ruscello, dove si riempì la tasca di sassolini bianchi: poi chiotto chiotto se ne tornò a casa.
Partirono, ma Puccettino non disse nulla ai suoi fratelli di quello che sapeva.
Entrarono dentro una foresta foltissima, dove alla distanza di due passi non c'era modo di vedersi l'uno coll'altro. Il taglialegna si messe a tagliar legne, e i ragazzi a raccogliere delle frasche per far dei fastelli.
Il padre e la madre, vedendoli intenti al lavoro, si allontanarono adagio adagio, finché se la svignarono per un viottolo fuori di mano.
Quando i ragazzi si videro soli, si misero a strillare e a piangere forte forte.
Puccettino li lasciò berciare, essendo sicuro che a ogni modo sarebbero tornati a casa; perché egli, strada facendo, aveva lasciato cadere lungo la via i sassolini bianchi che s'era messi nella tasca.
"Non abbiate paura di nulla, fratelli miei - disse loro - il babbo e la mamma ci hanno lasciati qui soli; ma io vi rimenerò a casa: venitemi dietro."
Essi infatti lo seguirono, ed egli li menò per la stessa strada che avevano fatta, andando al bosco. Da principio non ebbero coraggi d'entrarvi: e si messero in orecchio alla porta di casa per sentire quello che dicevano fra loro, il padre e la madre.
Ora bisogna sapere che quando il taglialegna e sua moglie rientrarono in casa, trovarono che il signore del villaggio aveva mandato loro dieci scudi, di cui era debitore da molto tempo, e sui quali non ci contavano più. Questo bastò per rimettere un po' di fiato in corpo a quella povera gente, che era proprio a tocco e non tocco per morir di fame.
Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro. E siccome era molto tempo che non s'erano sfamati, essa comprò tre volte più di carne di quella che ne sarebbe abbisognata per la cena di due persone.
Quando furono pieni, la moglie disse:
"Ohimè! dove saranno ora i nostri figliuoli? se fossero qui potrebbero farsi tondi coi nostri avanzi! Ma tant'è, Guglielmo, se' stato tu che hai voluto smarrirli: ma io l'ho detto sempre che ce ne saremmo pentiti. Che faranno ora nella foresta? Ohimè! Dio mio! i lupi forse a quest'ora l'hanno bell'e divorati. Proprio non bisogna aver cuore, come te, per isperdere i figliuoli a questo modo!...".
Il taglialegna perse la pazienza, perché la moglie tornò a ripetere più di venti volte che egli se ne sarebbe pentito, e che essa l'aveva di già detto e ridetto: e minacciò di picchiarla se non si fosse chetata.
Questo non voleva dire che il taglialegna non potesse essere anche più addolorato della moglie; ma essa lo tormentava troppo: ed egli somigliava a tanti altri, che se la dicono molto colle donne che parlano con giudizio, ma non possono soffrire quelle che hanno sempre ragione.
La taglialegna si struggeva in pianti, e seguitava sempre a dire:
"Ohimè! dove saranno ora i miei bambini? i miei poveri bambini?".
Una volta, fra le altre, lo disse così forte, che i ragazzi, che erano dietro l'uscio, la sentirono e gridarono tutti insieme:
"Siamo qui! siamo qui!".
Essa corse subito ad aprir l'uscio e, abbracciandoli, disse:
"Che contentezza a rivedervi, miei cari figliuoli! Chi lo sa come siete stanchi, e che fame avete! e tu, Pieruccio, guarda un po' come ti sei inzaccherato! vien qua, che ti spillaccheri".
Pieruccio era il maggiore dei figliuoli e la madre gli voleva più bene che agli altri, perché era rosso di capelli come lei.
Si messero a tavola e mangiarono con un appetito, che fecero proprio consolazione al babbo e alla mamma, ai quali raccontarono, parlando quasi tutti nello stesso tempo, la gran paura che avevano avuta nella foresta.







Quella buona gente era tutta contenta di rivedere i figliuoli in casa; ma la contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando questi finirono, tornarono al sicutera delle miserie, e allor decisero di smarrirli daccapo; e per andare sul sicuro, pensarono di condurli molto più lontani della prima volta. Peraltro di questa cosa non poterono parlarne con tanta segretezza, che Puccettino non sentisse tutto; il quale pensò di cavarsene fuori col solito ripiego: se non che, quantunque si alzasse sul far del giorno per andare in cerca di sassolini bianchi, rimase proprio come quello, e non poté far nulla, perché trovò l'uscio di casa serrato a doppia mandata.
Egli non sapeva davvero che cosa stillarsi, quando ecco che la madre dette a ciascuno di loro un pezzo di pane per colazione. Allora gli venne in capo che di quel pane avrebbe potuto servirsene, invece dei sassolini, seminando i minuzzoli lungo la strada per dove sarebbero passati. E si messe il pane in tasca.




Il padre e la madre li condussero nel punto più folto e più oscuro della foresta: e quando ci furono arrivati, essi presero una scappatoia e via.
Puccettino non se ne fece né in qua né in là, perché sapeva di poter ritrovare facilmente la strada coll'aiuto dei minuzzoli sparsi; ma figuratevi come rimase, quando si accorse che i minuzzoli glieli avevano beccati gli uccelli.
Eccoli dunque tutti afflitti, perché più camminavano e più si perdevano nella foresta. Intanto si fece notte e si alzò un vento da far paura. Pareva ad essi di sentire da tutte le parti urli di lupi, che si avvicinavano per mangiarli. Non avevano fiato né per discorrere, né per voltarsi indietro.
Venne poi una grand'acqua che li bagnò fin sotto la pelle: a ogni passo sdrucciolavano e cascavano nella mota: e quando si rizzavano tutti infangati, non sapevano dove mettersi le mani.





Puccettino montò in cima a un albero per vedere se scuopriva paese; e guardando da ogni parte, vide un lumicino piccino, come quello di una candela, il quale era lontano lontano, molto al di là della foresta.
Scese dall'albero: e quando fu in terra, non vide più nulla. Questa cosa gli diede un gran dolore. Nonostante, camminando innanzi coi suoi fratelli, verso quella parte dove aveva veduto il lumicino, finì col rivederlo da capo mentre usciva fuori del bosco.
Arrivarono finalmente alla casa dove si vedeva questo lume: non senza provare delle grandi strette al cuore, perché di tanto in tanto lo perdevano di vista, segnatamente quando camminavano in qualche pianura molto bassa.
Picchiarono a una porta: una buona donna venne loro ad aprire, e domandò loro che cosa volevano. Puccettino disse che erano poveri ragazzi che s'erano spersi nella foresta, e che chiedevano da dormire per amor d'Iddio.





La donna, vedendoli tutti così carini, si messe a piangere, e disse:
"Ohimè! poveri miei figliuoli, dove siete mai capitati? Ma non sapete che questa è la casa dell'Orco che mangia tutti i bambini?".
"Ah, signora - rispose Puccettino, il quale tremava come una foglia, e così i suoi fratelli - Che cosa volete che facciamo? Se non ci pigliate in casa, è sicuro che i lupi stanotte ci mangeranno. E in tal caso, è meglio che ci mangi questo signore. Forse se voi lo pregate, potrebbe darsi che avesse compassione di noi."
La moglie dell'Orco, sperando di poterli nascondere a suo marito fino alla mattina dopo, li lasciò entrare e li menò a riscaldarsi intorno a un buon fuoco, dove girava sullo spiede un montone tutt'intero, che doveva servire per la cena dell'Orco.
Mentre cominciavano a riscaldarsi, sentirono battere tre o quattro colpi screanzati alla porta. Era l'Orco che tornava.
In men d'un baleno, la moglie li nascose tutti sotto il letto ed andò ad aprire.
L'Orco domandò subito se la cena era lesta e il vino levato di cantina: e senza perder tempo si mise a tavola. Il montone non era ancora cotto e faceva sempre sangue, e per questo gli parve anche più buono. Poi, fiutando di qua e di là, cominciò a dire che sentiva odore di carne viva.
"Sarà forse - disse la moglie - quel vitello che ho spellato or ora, che vi mette per il naso quest'odore."
"E io dico che sento l'odore di carne viva - riprese l'Orco guardando la moglie di traverso - e qui ci deve essere qualche sotterfugio!..."
Nel dir così si alzò da tavola e andò difilato verso il letto.
"Ah!- egli gridò - tu volevi dunque ingannarmi, brutta strega? Non so chi mi tenga dal fare un boccone anche di te. Buon per te, che sei vecchia e tigliosa! Ecco qui della selvaggina, che mi capita in buon punto per far trattamento a tre Orchi miei amici, che verranno da me in questi giorni."
E li tirò fuori di sotto il letto, uno dietro l'altro.






Quei poveri bambini si buttarono in ginocchio, chiedendogli perdono, ma avevano da fare col più crudele di tutti gli Orchi, il quale, facendo finta di sentirne compassione, li mangiava di già cogli occhi prima del tempo, dicendo alla moglie che sarebbero stati una pietanza delicata, in specie se gli avesse accomodati con una buona salsa.
Andò a prendere un coltellaccio, e avvicinandosi a quei poveri figliuoli, lo affilava sopra una lunga pietra che egli teneva nella mano sinistra. 
E ne aveva già agguantato uno, quando la moglie gli disse:
"Che ne volete voi fare a quest'ora? non sarebbe meglio aspettare a domani?".
"Chetati, te!- riprese l'Orco - Così saranno più frolli."
"Ma ve ne avanza ancora tanta della carne! C'è qui un vitello, un montone e un mezzo maiale..."
"Hai ragione - disse l'Orco - rimpinzali dunque per bene, perché non abbiano a smagrire, e portali a letto."





Quella buona donna, fuor di sé dalla contentezza, dette loro da cena: ma essi non poterono mangiare a cagione della gran paura che avevano addosso.
In quanto all'Orco, ricominciò a bere, soddisfattissimo di aver trovato di che regalare ai suoi amici. Vuotò una dozzina di bicchieri di più del solito, finché il vino gli die' al capo e fu obbligato ad andare a letto.
L'Orco aveva sette figliuole, che erano sempre bambine, le quali erano tutte di un bel colorito, perché, come il padre, si cibavano di carne cruda; ma avevano degli occhiettini grigi e tondi, e il naso a punta e una bocca larghissima, con una rastrelliera di denti lunghi, affilati e staccati l'uno dall'altro.
Non erano ancora diventate cattive: ma promettevano bene, perché di già mordevano i fanciulli per succhiare il sangue.
Le avevano mandate a dormire di buon'ora, ed erano tutte e sette in un gran letto, ciascuna con una corona d'oro sulla testa.
Nella stessa camera c'era un altro letto della medesima grandezza. Fu appunto in questo letto che la moglie dell'Orco messe a dormire i sette ragazzi; e dopo andò a coricarsi accanto a suo marito. Puccettino, che s'era avviso che le figlie dell'Orco portavano una corona d'oro in capo, e che aveva sempre paura che l'Orco non si ripentisse di averli sgozzati subito, si levò verso mezzanotte, e prendendo i berretti dei fratelli ed il suo, andò pian pianino a metterli sul capo delle sette figlie dell'Orco, dopo aver loro levata la corona d'oro, che pose sul capo suo e de' suoi fratelli, perché l'Orco li scambiasse per le proprie figlie, e pigliasse le sue figlie per i fanciulli che voleva sgozzare.
E la cosa andò appuntino com'egli se l'era figurata; perché l'Orco, svegliatosi sulla mezzanotte, si pentì di aver differito al giorno dopo quello che poteva aver fatto la sera stessa.
Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il coltellaccio:
"Andiamo un po' a vedere - disse - come stanno queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte". Quindi salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno Puccettino, che ebbe una gran paura quando sentì l'Orco che gli tastava la testa, come l'aveva già tastata ai suoi fratelli.
L'Orco sentendo la corona d'oro, disse:
"Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne ho bevuto mezzo dito di più".
Allora andò all'altro letto, e avendo sentito i berretti dei ragazzi:
"Eccoli - disse - questi monellacci! Lavoriamo di fine".
E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole.






Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie.
Appena che Puccettino sentì l'Orco che russava, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi subito e di seguirlo. Scesero in punta di piedi nel giardino e scavalcarono il muro. Corsero a gambe quasi tutta la notte, tremando come foglie, e senza sapere dove andavano.
Quando l'Orco si svegliò, disse alla moglie: 
"Va' un po' a vestire quei monelli di ieri sera".
L'Orchessa restò molto meravigliata della bontà insolita di suo marito, e non le passò neanche dalla mente che per vestirli egli volesse intendere un'altra cosa, credendo in buona fede di doverli andare a vestire. Salì dunque di sopra, e rimase senza fiato in corpo, vedendo le sue sette figliuole scannate e immerse nel proprio sangue. Cominciò subito dallo svenirsi, essendo questo il primo espediente, a cui in simili casi ricorrono tutte le donne.
L'Orco, temendo che la moglie non mettesse troppo tempo a far quello che le aveva ordinato, salì di sopra anche lui per darle una mano; e non rimase meno sconcertato alla vista di quello spettacolo orrendo.
"Ah! che ho mai fatto? - gridò - Ma quei disgraziati me la pagheranno, e subito!"
E senza mettere tempo in mezzo, gettò una brocca d'acqua sul naso della moglie, e così avendola fatta tornare in sé:
"Dammi subito - disse - i miei stivali di sette chilometri, perché io li voglio raggiungere".
E uscì fuori all'aperta campagna, e dopo aver corso di qua e di là, finalmente infilò la striù di carne di quella che ne saquei poveri ragazzi, che erano forse distanti non più di cento passi dalla casa paterna.
Essi videro l'Orco che passava di montagna in montagna, traversando i fiumi colla stessa facilità come se fossero stati rigagnoli.
Puccettino avendo occhiata una roccia incavata, lì vicino al luogo dove si trovavano, vi fece nascondere i sei fratelli, e vi si nascose anch'esso, senza perdere peraltro di vista tutte le mosse dell'Orco.
L'Orco che cominciava a sentirsi rifinito dalla strada fatta (perché gli stivali di sette chilometri son molto faticosi per chi li porta), pensò di ripigliar fiato, e il cielo volle che andasse per l'appunto a sedersi sopra la roccia, dove quei ragazzi si erano nascosti.
E siccome era stanco morto, dopo essersi sdraiato si addormentò, e si messe a russare con tanto fracasso, che i poveri ragazzi ebbero la stessa paura di quando lo videro col coltellaccio in mano, in atto di far loro la festa.
Ma Puccettino non ebbe tutta questa paura, e disse ai fratelli di scappare a gambe verso casa, mentre l'Orco dormiva come un ghiro; e di non stare in pena per lui.
Essi non se lo fecero dir due volte, e in pochi minuti arrivarono a casa.
Puccettino intanto si avvicinò all'Orco: gli levò adagino gli stivali, e se l'infilò per sé.
Questi stivali erano molto grandi e molto larghi, ma perché eran fatati, avevano la virtù d'ingrandirsi e di rimpicciolirsi, secondo la gamba di chi li calzava: per cui, gli tornavano precisi, come se fossero stati fatti per il suo piede.






Eglì andò di carriera alla casa dell'Orco, dove trovò la moglie che piangeva per le figlie uccise. "Vostro marito - le disse Puccettino - si trova in un gran pericolo: è cascato fra le mani di una banda di assassini, che hanno giurato di ucciderlo, se non consegna loro tutto il suo oro e il suo argento. Mentre gli stavano col pugnale alla gola, esso mi ha visto, e mi ha pregato di venir qui per avvertirvi della sua trista condizione e per invitarvi a darmi tutto quello che egli possiede di prezioso, senza ritenervi nulla, perché caso diverso, lo uccideranno senz'ombra di misericordia. E siccome il tempo stringe, egli ha voluto che prendessi i suoi stivali di sette chilometri, come vedete, e non solo perché mi spicciassi, ma anche perché possiate accertarvi che non sono un imbroglione."
La buona donna, tutta spaventata, gli diede ogni cosa che aveva; perché l'Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini.
Puccettino, col carico addosso di tutte le ricchezze dell'Orco, tornò a casa del padre, dove fu accolto con grandissima festa.
C'è per altro della gente che non crede che la cosa finisse così; e pretendono che Puccettino non commettesse mai questo furto a danno dell'Orco: e che solo non si facesse scrupolo di prendergli gli stivali di sette chilometri, perché egli se ne serviva unicamente per dare la caccia ai ragazzi.
Questi tali accertano di aver saputo la verità proprio sul posto, per essersi trovati a mangiare e bere nella stessa casa del taglialegna.
Raccontano, dunque, che quando Puccettino ebbe infilato gli stivali dell'Orco, se ne andò alla Corte, dove stavano tutti in gran pensiero per un'armata, che era in campagna alla distanza di duecento chilometri, e per l'esito di una battaglia data pochi giorni avanti.
Dimodoché Puccettino andò a trovare il Re e gli disse che se lo desiderava avrebbe potuto portargli le notizie dell'armata, prima del calar del sole. E il Re gli promise una grossa somma, se egli fosse stato da tanto.
La sera stessa Puccettino ritornò colle notizie dell'armata; e questa prima corsa avendolo messo in buona vista, guadagnava quel che voleva; perché il Re lo pagava profumatamente, valendosi di lui per portare i suoi ordini al campo; e un'infinità di signore gli davano quel che chiedeva, per aver le nuove dei loro amanti; e questo fu il guadagno più concludente di tutti gli altri. Ci furono anche alcune mogli che gli consegnarono delle lettere per i loro mariti; ma esse pagavano coi gomiti, e il profitto era così meschino, che egli non si degnò nemmeno di segnare nel libro degli utili i piccoli benefizi che gli pervenivano per questo titolo.
Dopo aver fatto per qualche tempo il mestiere del corriere, e avere ammassato grandi ricchezze, ritornò alla casa di suo padre, dove non è possibile immaginarsi la festa che gli fecero nel rivederlo fra loro.
Egli messe la sua famiglia nell'agiatezza; comprò degl'impieghi, di recente fondazione, per il padre e per i fratelli: formò a tutti uno stato conveniente; e gli rimase sempre un ritaglio di tempo, tanto da fare il damerino colle signore.
La storia di questo piccolo eroe, che i francesi chiamano Petit Poucet, perché era grande appena come il dito pollice, è stata forse inventata apposta per dar ragione e autorità a quell'antico proverbio che dice:
"Gli uomini non si misurano a canne!".

Traduzione di "Le Petit Poucet" (C. Perrault) di Carlo Collodi, "I Racconti delle Fate".
Illustrazioni di G. Dorè.

Qui, per quel che riguarda, in generale, considerazioni e rimandi.

sabato 3 agosto 2013

La Betulla, (Variante Russa de Il Pescatore e Sua Moglie)

'era una volta un vecchio e una vecchia che vivevano in grande povertà. Un giorno il vecchio si procurò della farina e la portò alla moglie, che cominciò a preparare una schiacciata. Purtroppo però era finita la legna.
"Vecchio, va' nel bosco che non c'è legna e bisogna accendere la
stufa". Il vecchio si preparò e andò nel bosco. Scelse una robusta betulla, sollevò la scure e fece per vibrare il colpo. Ma ecco che la betulla si mise a piangere e a supplicarlo:
"Non abbattermi -  diceva - abbi pietà dei miei figli! Guarda quanti ne ho, devo crescerli. Quando sarò morta, che ne sarà di loro?".
Il vecchio, a queste parole, ebbe pietà della betulla e andò oltre. Arrivò a un pioppo e fece per colpirlo. Ma ecco che anche il pioppo prese a supplicarlo allo stesso modo. Il vecchio s'impietosì. Giunse a un ginepro ma anche questo si mise a piangere e a implorarlo! Il vecchio risparmiò anche il ginepro. Arrivò a un abete, e anche l'abete scoppiò a piangere: "Guarda - diceva - quanti figli piccoli ho, e tu vuoi uccidermi. Chi li crescerà?". Il vecchio non se la sentì di abbatterlo. Giunse a una quercia e anch'essa cominciò a implorarlo.Toltosi il berretto il vecchio si grattò la nuca, indeciso sul da farsi. 'Come potrò tornare senza legna? - si chiedeva - La vecchia mi mangia vivo e mi scaccia di casa. Cosa posso fare?'
In quel momento comparve un vecchio canuto che gli si avvicinò e gli chiese:
"Vecchio, come mai sei così pensieroso?".
"Come potrei non esserlo? Mia moglie mi ha mandato nel bosco a far legna, ma tutti gli alberi a cui mi avvicino mi supplicano di non abbatterli, cosa devo dunque fare? Penso a come tornare a casa senza far infuriare mia moglie..."
Il vecchio allora disse:
"Va bene nonno; tu hai avuto compassione dei miei figli. Eccoti una verga d'oro. Se tua moglie inveisce, tu dillo alla verga. E se hai bisogno di qualche cosa, recati al formicaio, fai tre giri intorno, agita questa verga d'oro e chiedi ciò che ti serve: verrai accontentato. Bada però di non chiedere qualcosa di impossibile perché la verga non potrà esaudirlo".
Così il vecchio se ne tornò a casa. La moglie gli si scagliò contro, ma lui, senza pensarci due volte, sussurrò alcune parole alla verga. Ed ecco balzar fuori bastoni da ogni parte che cominciarono a colpire la vecchia, fino a che il marito non disse: Fermati, verga! (il vecchino gli aveva insegnato anche a fermarla). Poi andò al formicaio, girò tre volte intorno, agitò la verga e ordinò di preparare la legna. Tornato a casa, ne trovò già lì una carrata pronta. La moglie, tutta contenta preparò la schiacciata. Avevano un ripostiglio cadente e anche l'izba era malmessa. Allora il vecchio pensò: 'Voglio proprio vedere se la verga sistemerà questo faccenda'.
Uscì, fece per tre volte il giro del formicaio, agitò la verga e chiese che il ripostiglio venisse risistemato. Tornato a casa, trovò il ripostiglio rimesso a nuovo. 'Vuol dire che il vecchino non mi ha ingannato, ha detto la verità', pensò, e, tornato al formicaio, chiese lo stesso anche per l'izba.
Al ritorno la trovò perfettamente in ordine. E così vissero il vecchio e la moglie con i loro figli. Lui non raccontò mai nulla a nessuno e fece sempre tutto in segreto. Quando fu lì lì per morire, lasciò ai figli la verga, spiegò loro come servirsene e li ammonì a non esprimere desideri irrealizzabili perché non sarebbero stati esauditi. Anche i figli del vecchio trascorsero bene la loro vita e quando morirono lasciarono ai loro figli la verga d'oro, e anche essi se ne servirono.
Quando pero la verga passò all'ultimo nipote, questi si rivelò avido. Anche se la verga esaudiva ogni suo desiderio, lui non era mai soddisfatto. Volle diventare boiaro e la verga lo accontentò. Passò qualche tempo e anche questo non gli bastava più. 'Chiederò di diventare Dio' si disse; fece per tre volte il giro del formicaio, agitò la verga e chiese di diventare Dio. Ma la verga di colpo prese fuoco e gli cadde addosso, bruciandolo. Al villaggio si accorsero della sua assenza: dove si era cacciato? Seguendo le orme nel bosco arrivarono fino al formicaio, e lo trovarono incenerito: qui cessavano le tracce. I nipoti più vecchi, comprendendo ciò che era accaduto, dissero: "Ecco fino a che punto era grande l'avidità di quell'uomo: fino al punto di chiedere l'irrealizzabile".



Anderson A.

Da: A.V.Vorobjev (a cura di), "Skazki, pensni, castuski, prislovja, Leningradskoj oblasti", raccolta da V.Bachtin