domenica 26 marzo 2017

La Signorina Esperson, di Stephen Grendon

Ricordavo la signorina Esperson molto vagamente, quando lessi il suo cognome nella colonna dei necrologi di un giornale metropolitano. Suppongo sia sempre per queste vie misteriose che si creano ponti per i ricordi, specie per i ricordi d'infanzia, anche se poi non riusciamo a spiegare il flusso di pensieri che si intrecciano successivamente.
Nel caso della Esperson, forse fu la differenza tra la visione delle cose dell'uomo maturo e la visione delle cose del ragazzo che non ero più. Di sicuro era improbabile che esistesse un rapporto tra il gentiluomo appena defunto di nome Esperson, e la dolce vecchietta di quella piccola cittadina della Louisiana dove avevo trascorso tanta parte dell'infanzia.



Paul Hoecker



Il fatto è che avevo dimenticato completamente la signorina Esperson. Erano dieci anni che non ripensavo più a lei, e l'imbattermi nella lettura del nome Esperson tra i necrologi fu assolutamente un caso di pura coincidenza. L'avevo appena scorso, così, distrattamente, quando dai recessi della mia memoria uscì improvvisamente l'immagine della signorina Esperson, e in un attimo mi ritrovai nelle vesti di un ragazzino di un'oscura cittadina della Louisiana.
Ecco la Esperson, alta, con la sua bizzarra faccia rettangolare, la mascella forte - quasi equina, a ripensarci adesso - e i suoi meravigliosi occhi scuri incastonati tra i capelli d'argento... Ecco la sua piccola "proprietà", circondata da filari di alberi e da un giardino di rose, separata dal resto della città, affacciata sulla strada ombrosa dietro al fiume che tracciava i confini della sua terra, quei prati che erano un vero paradiso per i fortunati bambini che vi arrivavano per caso... Ed ecco di nuovo quel terrore superstizioso così sciocco, agli occhi di un bambino. Perché la Esperson, che era di sicuro lo spirito della dolcezza incarnato e che non faceva del male a nessuno, avviandosi serenamente sulla strada del tramonto come si conveniva all'ultima superstite di una famiglia estinta, era vittima di una strana paura superstiziosa da parte della popolazione nera della città. Una paura oltremodo strana proprio perché era assolutamente infondata.



La signorina Esperson, infatti, in tutta la sua vita, non aveva mai pronunciato una sola parola offensiva contro i negri, anzi, semmai li trattava con maggiore cortesia di tutti gli altri cittadini bianchi. Eppure i negri, non appena la vedevano, attraversavano la strada, o evitavano di guardarla negli occhi, oppure la scrutavano con la coda dell'occhio.
Non era mai qualcosa di diretto, la manifestazione di questa loro paura. Se alla signorina occorreva aiuto in casa, le donne negre alle quali si rivolgeva si ricordavano sempre di un altro lavoro da fare proprio quel giorno, oppure "speravano" di poter venire un giorno o l'altro. Non osavano offenderla direttamente, e quando, in rare occasioni, accettavano il lavoro, era evidente che lo facevano per paura. Che fossero sempre trattate con ogni riguardo e ben pagate, per loro non sembrava avere importanza.
C'era qualcosa, in lei, che risvegliava bruscamente gli istinti primitivi dei neri, e la loro reazione nei suoi confronti era sempre la stessa, dal più vecchio al più mocciosetto. I loro bambini, quando parlavano di lei con noi bianchi, ci lasciavano capire tra le righe che la Esperson era una persona terribile e che era dotata di certi "poteri" perché era nata nelle Indie Occidentali, dove suo padre era Console, e aveva imparato molte cose dai negri superstiziosi di quel paese dove era cresciuta.
I negretti la chiamavano con un soprannome che avevano sentito mormorare, di sicuro, dai loro genitori; la chiamavano "Obi", una parola che per noi non aveva significato, anche se a volte, per scherzare, la chiamavamo così pure noi. Ma noi bianchi che abitavamo nel vicinato non avevamo la minima paura della signorina Esperson, perché sapevamo che la sua casa era una mecca, un posto dove avremmo trovato cose che ci avrebbero fatto impazzire di gioia: torte, biscotti, gelati, fragole al miele, cocomero, e perfino dei giochi, che lei faceva con noi. Forse si sentiva sola? Doveva essere così, pur se aveva la sua cerchia ristretta di amici, i quali le facevano visita e ai quali faceva visita, e che l'amavano in proporzione diretta a come i negri ne avevano paura.
Ricordai tutto quanto. Come ho detto, la scena riapparve dal passato inalterata, senza ombre; eppure vi trovavo un'indefinibile differenza, non tanto nei fatti riportati alla memoria, quanto nel modo in cui questi venivano interpretati. Era mutata la prospettiva.
Da quell'ultima volta in cui, ancora ragazzo, avevo visto la salma della signorina Esperson composta nella dignità della morte, non ero più riandato col pensiero a quegli anni, ed ecco che adesso, stranamente, a causa di un giornale assolutamente estraneo alla sua vita e alla sua persona, esce fuori una donna che, pur rimanendo la stessa di allora, offre misteriosamente qualcosa di più, una sorta di rivelazione, a un adulto meno sicuro del significato della vita e della morte e al tempo stesso più sicuro del ragazzino di vent'anni prima.
Ricordai la signorina Esperson, e ricordai Jamie.
Jamie abitava con il padre e con la matrigna alla destra della proprietà della Esperson, così come io abitavo alla sua sinistra, e per entrambi la casa della signorina era una sorta di rifugio. Ma non ero io ad aver bisogno di quel rifugio, era Jamie, perché la sua matrigna era perfida e crudele.
Rammento ancora con quale furia cieca e impotente ascoltavo che cosa gli faceva la matrigna quando il padre non era in casa, con quanto odio lo maltrattasse, e ricordo l'istinto di protezione che suscitavano in me tutte quelle sofferenze. Jamie doveva avere circa sette anni a quel tempo; sua madre era morta due anni prima, e il padre si era risposato con una donna dai capelli particolarmente rossi che aveva conosciuto a New Orleans.
Questa donna aveva preso in antipatia Jamie fin dal primo momento; inizialmente, forse, perché lui continuava a pensare alla mamma, e lei lo aveva interpretato come una critica nei suoi confronti, reagendo, anziché con la pazienza che ci vuole in queste circostanze, con un antagonismo che il ragazzo aveva avvertito immediatamente; sicché, qualunque speranza ci fosse in futuro di instaurare un rapporto tra i due, era stata irrimediabilmente bruciata. Inoltre, lei lo aveva colpito nel punto più vulnerabile, cercando di privarlo, cioè, di tutti gli oggetti che lo legavano alla mamma, perfino dei vestiti che la madre gli aveva cucito e riparato, malgrado non gli entrassero più. Era una crudeltà raffinata che andava ben oltre la severità, e che ben presto degenerò in violenza fisica quasi animalesca, quando Jamie, cioè, le dichiarò apertamente il proprio odio, continuando a restare attaccatissimo al ricordo della madre.


Boris Kustodiev



Ogni volta che Jamie riusciva a scapparle, correva a casa mia, oppure dalla Esperson, la quale aveva conosciuto sua madre e che rappresentava, perciò, un altro legame con il passato, dove crudeltà e dolore non erano esistiti. E a noi, e a nessun altro - neppure a suo padre, visto che la matrigna riusciva sempre a metterlo in cattiva luce ai suoi occhi - raccontava tutto quello che era successo, con una riluttanza che nasceva dalla necessità di sgravarsi in qualche modo della sofferenza rendendone partecipi altre persone. E la signorina, con i suoi modi gentili, lo consolava sempre, ed era molto brava in questo.
"Non va mai così male come si crede", gli diceva.
"Non mi ha voluto dare niente da mangiare a colazione, tranne un po' di latte scremato", le confessava Jamie.
La chiamava sempre lei. Neppure la frusta sarebbe riuscita a convincerlo a chiamarla con un qualsiasi altro nome che suggerisse una relazione materna.
"E allora mangerai qui da me tutto quello che desideri."
E mentre mangiava il cibo che la signorina gli portava, Jamie continuava a snocciolarle tutti i suoi crucci. Non era un bambino lagnoso. Insomma, non si lamentava mai senza un buon motivo, anche se quegli occhioni tristi e la carnagione pallida sotto la quale trasparivano le vene gli conferivano un aspetto languido. No, Jamie si limitava a recitare la storia dei suoi patimenti in tono monotono e piatto con una nota di incertezza, come se temesse che quello che stava dicendo fosse troppo assurdo per essere creduto, perfino da due come noi, di cui si fidava.
Verso la fine - perché ci fu una fine alle miserie di Jamie, anche se noi, all'epoca, non fummo capaci di prevederlo - la Esperson lo convinse a mostrarle i segni della cinghia che aveva sulla schiena ossuta. A rivedere adesso quella scena, con gli occhi di un adulto, ricordo con chiarezza come trasalisse, le prime volte, e poi come diventasse pallida, e quale luce risoluta brillasse nei suoi occhi.
"Oh! Povero ragazzo!", lo consolava, scortandolo in casa sua, dove gli medicava la schiena ferita. E, quando Jamie se ne andava, gli riempiva le tasche con qualcosa di speciale - dei cioccolatini, o una torta al miele fatta da lei - per fargli scordare i suoi guai.
Ma Jamie pensava continuamente alla propria situazione, anche se non si lamentava. Glielo leggevi negli occhi ogni volta che guardava casa sua, sebbene si vedesse ben poco dalla siepe e dagli alberi.
Sul retro della sua casa, come anche della mia e di quella della signorina, c'era un bel prato che arrivava fino al fiume. Da quando la mamma era morta, non esisteva più il giardino, in quanto la matrigna, che non trovava il tempo neanche per lei stessa, figurarsi se poteva trovarne per pensare al prato o per trovare un giardiniere, che andava sempre reclutato tra la popolazione nera.
E guardandolo capivi anche che aveva avuto la proibizione, già da tempo, di far visita alla Esperson. La matrigna sospettava di sicuro che l'anziana signorina l'avesse preso in simpatia, perché una volta, prima ancora che prendesse l'abitudine di picchiarlo, era entrata marciando nel suo cortile e aveva agguantato Jamie per un braccio.
L'aveva trascinato letteralmente a casa - anche se aveva già detto alla signorina che cosa pensava di lei - lasciando la Esperson tutta tremante, bianca in volto e con il fazzoletto alla bocca, a seguire con lo sguardo i due che si allontanavano tra gli alberi, mentre Jamie protestava strillando e inciampava per strada, e il rumore delle botte della signora Fallon che piovevano addosso al ragazzo. Ripetei una cosa che avevo sentito dire a mia madre.
"La Fallon non è una signora, vero, signorina Esperson?"
"Temo di no, Stephen - rispose lei - Non si comporta come dovrebbe comportarsi una signora, vero?"
Ma Jamie continuò a venire lo stesso. Aveva un disperato bisogno di rifugiarsi dalla Esperson, un bisogno più forte della paura della punizione che di sicuro sarebbe seguita se avesse disubbidito alla matrigna. Era qualcosa di più importante, per lui, della repulsione che gli ispirava la certezza della punizione, fisica o morale che fosse.
Mia madre amava definire Fallon un "uomo fatuo". Sebbene nessuno sapesse quali frottole gli raccontasse la seconda moglie, avrebbe dovuto rendersi conto lo stesso di quello che stava accadendo. Forse la nuova signora Fallon recitava la scenetta dell'affetto sincero verso Jamie ogni volta che il signor Fallon era in casa, sapendo che il marito l'avrebbe lodata con orgoglio, mentre lei, in realtà, aveva passato tutta la giornata a maltrattare il ragazzo.
Sicuramente esistevano diversi modi per ingannare quell'uomo, molte occasioni per nascondergli la verità e metterlo contro suo figlio senza che se ne accorgesse. Fallon, in tutti i modi, restava "uno stupido con le donne", come aggiungeva mio padre.
Credo che la tortura di Jamie andasse avanti per circa un anno. Adesso, a vent'anni di distanza, non ne sono tanto certo; alcuni ricordi sono rimasti perfettamente nitidi nella mia memoria, ma il tempo altera sempre le cose. Di sicuro durò un bel pezzo; è possibile che si trattasse anche di più di un anno, perché la salute di Jamie, alla fine, era diventata malferma, ed era evidente che la matrigna aveva tutte le intenzioni di sbarazzarsi di lui. Forse non si sarebbe fermata neanche davanti all'aperto omicidio, se fosse stata sicura di sfuggire alle conseguenze del crimine.
Un giorno Jamie si presentò con una nuova storia. Era una giornata particolarmente calda, che seguiva una nottata incredibilmente fredda. Si era preso un brutto raffreddore. La Esperson, preoccupata dei continui colpi di tosse, gli chiese premurosamente come fosse successo.
"Non avevo abbastanza coperte", disse il ragazzo.
"Oh! Ma ti bastava srotolare l'imbottita, Jamie", disse la signorina, sapendo che dormiva con una piccola imbottita ai piedi del letto, come facevamo quasi tutti, per premunirci in caso di notte facesse particolarmente freddo.
"Me l'ha presa lei."
Per un secondo la signorina Esperson non seppe cosa dire; sul suo viso apparve un conflitto di reazioni, anche stupore.
"Quando?", gli chiese alla fine.
"Quando è venuta ad aprire le finestre."
La nottata era stata troppo fredda per aprire le finestre.
"Tu dormivi?", volle sapere lei.
"Lei credeva di sì."
Quello che per un ragazzo di otto anni come me non era evidente non era certamente sfuggito invece alla signorina Esperson. Se la matrigna di Jamie era entrata in camera sua mentre lui dormiva per togliergli l'imbottita e aprire al tempo stesso le finestre, allora doveva avere ogni intenzione di fargli prendere un bel raffreddore... o peggio. Peggio, probabilmente.
Il tentativo, comunque, era fallito, e la signorina lo portò in casa sua e gli massaggiò il petto con grasso d'oca, dandogli anche della roba calda da bere che preparò miscelando qualche cosa che conservava in piccoli sacchetti riposti nella credenza.
L'odore dolce e speziato di quella bevanda era fantastico per noi ragazzi; dovevano essere delle erbe, perché la signorina andava a raccoglierle lungo il fiume, dove cominciavano le paludi, e dove vivevano i negri, i quali, non appena la vedevano, correvano a rinchiudersi nelle loro catapecchie, sbarrando tutte le finestre, in preda a una paura irrazionale.
E così il raffreddore di Jamie passò.
Ma la Esperson non scordò tanto facilmente la preoccupazione che si era presa. Al contrario, era sempre in apprensione, come se temesse che Jamie, un giorno, non avrebbe più attraversato di nascosto la siepe per venire da noi, quasi temesse di trascurarlo, anzi, come se tutti e due potessimo trascurarlo, dal momento che riusciva a farmi sentire che io e lei facevamo fronte comune nel proteggere Jamie.
E così era, suppongo, perché, se la collera e l'odio avessero potuto uccidere la Fallon, lo avrei fatto con gioia. Ricordo di aver pianto molte volte, per la rabbia di non poter far niente per proteggere Jamie dalla crudeltà della matrigna. Sicché dividevamo anche la sofferenza e la preoccupazione, oltre ai dolcetti al miele e ai giochi.
Un'altra volta, Jamie si presentò strisciando sotto la siepe. Stava così male che non si reggeva in piedi. La Esperson lo vide dal soggiorno, corse a prenderlo, e lo portò nella sua camera da letto, dove io lo trovai diverse ore dopo, gravemente malato, anche se lei gli aveva dato qualcosa.
Quando arrivai, la trovai che camminava su e giù, bianca come le margherite dentro al vaso sotto la finestra e, non appena mi vide, versò un po' del vomito di Jamie in un vasetto di marmellata, e mi spedì di corsa con un biglietto dal dottor Lefevre, un anziano medico in pensione che, come la Esperson, veniva da una delle più antiche famiglie della Louisiana.
Quando Jamie si sentì un po' meglio, la signorina gli rivolse alcune domande. Che cosa aveva mangiato?
Niente, oltre la colazione.
E in cosa era consistita la colazione?
"Latte e pane tostato. Aveva un sapore strano."
Poi si era sentito sempre peggio, e a mezzogiorno aveva cominciato a dare di stomaco. La matrigna lo aveva rinchiuso in bagno, e lo aveva lasciato lì. Lui si era arrampicato sulla finestra, debole e terrorizzato. La Esperson sapeva di sicuro che l'istinto lo aveva guidato bene.
Dopodiché si allacciò il cappello, prese l'ombrello, e uscì decisa.
Ma non suonò, alla fine, alla casa della Fallon e del padre di Jamie. Che fosse quella la sua intenzione era evidente, perché si diresse immediatamente da loro. Arrivata alla siepe, tuttavia, si fermò e tornò dentro da me; poi, senza dire una parola, si tolse il cappello e posò l'ombrello.
Jamie era ancora molto debole, ma si sentiva un po' meglio.
Ricordo la faccia della signorina, quando rientrò nella camera. Aveva uno sguardo strano; se non l'avessi conosciuta così bene, mi sarei spaventato. Si sedette accanto a Jamie e gli prese una mano, cominciando a parlargli. Gli parlò in un modo curioso, diverso dal solito, anche se era gentile come sempre.
"Jamie, la tua matrigna ha dei capelli bellissimi", disse.
"Non mi piacciono i capelli rossi."
"E quando si pettina, gliene cade qualcuno."
"Vorrei che le cascassero tutti quanti. Vorrei strapparglieli io stesso."
"Jamie, sai se la tua matrigna conserva i capelli?"
"Sì."
"Me ne porteresti un po'?"
"Certo."
Allora lei sorrise, lui sorrise, e nell'aria vibrò qualcosa. Era strano, anche se a quel tempo, forse, mi parve soltanto insolito; i bambini accettano molte cose che i grandi non accettano, perché il mondo infantile è una rivelazione costante che non ha bisogno della causa e dell'effetto.


Auguste Toulmouche



Certo la signorina Fallon, come gran parte delle donne bianche di quella città - e sicuramente di tutte le cittadine di provincia di quei tempi - conservava i capelli rimasti dentro al pettine per gonfiare l'acconciatura. Che cosa pensasse Jamie non lo so, ma doveva aver capito che stava per entrare in una cospirazione con la Esperson; e doveva sapere che la matrigna non gli avrebbe mai permesso di impossessarsi dei suoi capelli, e questa consapevolezza aggiungeva determinazione alla promessa fatta.
Così un giorno si presentò con la sospirata ciocca di capelli e la consegnò alla signorina, la quale la mise al sole e disse:
"Oh! Guarda come brilla al sole!", e "Ah! Quanto si arrabbierebbe, se sapesse che l'hai portata a me!". Al che scoppiarono a ridere tutti e due, complici nel loro segreto. "Ma non li avrai presi tutti, spero? Avrai lasciato qualche ciocca di capelli, mi voglio augurare?"
"Dio! No, signorina!"
"Allora se ne accorgerà. Poi si insospettirà e comincerà a porsi delle domande", disse lei, infilandosi la ciocca rossa in tasca.
Dopo quella volta non parlammo mai più della ciocca rubata alla signora Fallon; Jamie, tuttavia, non abbassò neanche un attimo la guardia. Sapeva che doveva stare attento a quello che mangiava, specie se aveva un sapore strano; se poi veniva costretto a mangiare qualcosa di sospetto - perché la Esperson aveva considerato anche questa eventualità - doveva ingerire qualche pillola del tubetto che gli aveva dato il dottor Lefevre per provocare il vomito.



Paul Hoecker



Passarono così circa due settimane. Avevamo cominciato a fare un nuovo gioco che la signorina ci stava ancora insegnando. Dovevamo costruire uno "stagno" per il suo pesciolino d'oro, scavando prima di tutto una buca nel prato, dove andavano messi sassolini e sabbia. Poi bisognava rimediare un tubo per portare l'acqua dalla casa allo stagno, e infine scavare un canaletto di scarico per far confluire l'acqua dentro al fiume. Avremmo dovuto realizzare, infine, un paesaggio in miniatura per far somigliare lo stagno a un grande lago oppure a un affossamento in un fiume, visto che l'acqua entrava e usciva.
Lavorammo al progetto per giorni, e la signorina Esperson, di tanto in tanto, veniva a darci qualche suggerimento o ad apportare qualche modifica. Intorno allo stagno c'era un boschetto nano degradante, molto simile a quello che costeggiava il fiume sotto il giardino della Esperson, che veniva separato mediante una siepe proprio al centro dello stagno.
La signorina, però, non si decideva a gettare in acqua i pesciolini, anche se ogni giorno cambiava questo o quello, e non ci lasciava il tempo di chiederci come mai. Pensammo che probabilmente aveva paura che qualche gatto li divorasse. Ad ogni modo non ci importava molto dei pesciolini; lo stagno era una grande novità, e tutti e tre parlavamo di altri progetti simili, come creare, ad esempio, un ruscelletto con tanto di cascate. La Esperson ci disse che sì, la cosa si poteva fare, ma non adesso.
Tutti i giovedì Jamie prendeva lezioni di musica. La matrigna non glielo avrebbe mai permesso, se avesse sospettato che la sua avversione per la musica era tutta una finzione; così lo costringeva ad andarci, nella convinzione di peggiorare ulteriormente, in tal modo, la sua già grama esistenza.
Di solito io lo accompagnavo, ma quel giovedì faceva molto caldo, e la casa della signorina Quentin, dove si svolgevano le lezioni, era vecchia e umida. Passare lì il pomeriggio, con quella calura e con lo strimpellio di Jamie, sarebbe stato tutt'altro che piacevole. Ma era troppo caldo anche per andare a giocare per strada con George Washington Osmond e gli altri negretti, quindi non ci andai. Rimasi a dormire il più a lungo possibile, poi mi alzai, con l'intenzione di recarmi dalla Esperson.
La signorina, ovviamente, non mi aspettava, sapendo che il giovedì andavo con Jamie.
Mi affacciai alla finestra della mia camera, che si trovava al secondo piano. Di sotto mia madre stava trafficando in cucina e parlava con Libby, la cuoca negra; la mia sorellina, che si era svegliata prima di me, giocava nel portico sul retro con le bambole; i bambini negri giocavano nel vicolo e facevano un gran baccano, insensibili al caldo; e laggiù, oltre la siepe, la signorina Esperson si divertiva con il suo piccolo stagno. Chissà, forse si era decisa a buttare in acqua i pesciolini rossi.
Mi venne voglia di correre da lei.
Ma qualcosa di insolito nelle sue mosse mi lasciò perplesso. Stava in ginocchio, infatti; proprio lei, che di solito stava in piedi a dare istruzioni per cambiare questo o quello. E poi teneva la schiena molto eretta, e faceva dei movimenti a scatti, come se imitasse un congegno meccanico. Pareva parlasse da sola e, dopo averla osservata per un po', ebbi l'impressione che per terra, davanti a lei, ci fosse qualcosa, e che lo stesse trascinando, poco a poco, verso lo stagno.
Mi abbassai sotto la finestra e la spiai tra le persiane, e allora cominciai a sentirmi come quando vedo un gatto che gioca col topo e lo imprigiona con la zampa e poi lo lascia andare, per imprigionarlo e lasciarlo andare un'altra volta, all'infinito. Che sensazione orribile! La ricordo ancora oggi, soprattutto perché la trovavo inspiegabile, allora.
Ma si stava avvicinando il momento in cui Jamie sarebbe rincasato, e sapevo che, prima di rientrare in casa, sarebbe venuto a cercarmi da me oppure dalla Esperson per vedere che fine avevo fatto. Mi rialzai e mi allontanai dalla finestra. Non appena non vidi più la signorina, quella sensazione orrenda scomparve.
Uscii. Dio, come faceva caldo! Non avevo nemmeno voglia di prendere in giro Clara.
"Ecco lo zio Stephen", disse Clara alle bambole, quando mi vide passare.
Faceva troppo caldo perfino per il cane, che non aveva la forza di muovere la coda e se ne stava a sonnecchiare in un angolo all'ombra.
Mi infilai sotto la siepe.
La signorina Esperson era ancora inginocchiata. Forse riuscivo a sorprenderla, chissà, perfino a spaventarla. Sarebbe stato divertente vederla saltare.
Attraversai il prato senza far rumore, nascondendomi dietro ai cespugli. Quando le fui abbastanza vicino, la sentii parlare. Aveva una voce strana. Era rauca, gutturale; somigliava a quella di Libby quando parlava da sola in cucina, o a quella del vecchio Mosè, che lavorava alle stalle e parlava ai cavalli.
Non l'avevo mai sentita borbottare a quel modo. Che cosa strana! Eppure non ero spaventato, anche se mi accorsi che non stava parlando in inglese, ma in una sorta di linguaggio animalesco. Sentire uscire quei suoni dalla bocca della signorina Esperson era come sentire bestemmiare un santo.
Mi avvicinai alle sue spalle, e lei mi sentì. Rapida come un fulmine, coprì qualcosa con la mano, e mi accorsi che con l'indice spingeva qualcosa sotto l'acqua... qualcosa che era rimasto alla luce del sole, nell'acqua bassa al bordo dello stagno. Ma io ebbi il tempo di vedere che cos'era... Era una bambolina vestita di bianco con i capelli rossi... rossi come quelli della signora Fallon.
"Ah! - esclamò la Esperson, fingendosi spaventata - Che spavento! Sei un mascalzoncello, Steve!"
"Non credo proprio", risposi.
E in quel momento vidi Jamie che scavalcava la siepe e mi correva incontro, gridando:
"Ma dove eri finito?".
"Faceva troppo caldo", dissi.
"Tua madre lo sa che sei venuto senza prima cambiarti i vestiti?", si informò la signorina, in tono severo.
"No. Non è in casa", rispose Jamie, guardando lo stagno con aria d'accusa. "Perché non mi avete aspettato?"
"Guarda che sono appena arrivato", gli dissi.
La Esperson sorrise.
"Non essere egoista, Jamie. Oggi cominceremo a lavorare al ruscello, come vi avevo promesso."
Si sporse sull'acqua e cominciò a distruggere il paesaggio in miniatura: i finti alberi, la siepe alla sua destra, il punto in cui aveva spinto giù la bambolina, facendola cadere a fondo. Scomparve tutto in un attimo. Poi fu la volta del boschetto. Sollevò leggermente il bordo della vasca e cominciò a formarsi una cascata. Noi due, nel frattempo, ci eravamo messi già in ginocchio, in impaziente attesa delle sue istruzioni. E queste vennero, con esattezza e precisione.
"Jamie, prendi i sassolini e prepara il letto del ruscello fino al fiume - disse - E tu, Stephen... tu creerai un argine, in modo che l'acqua non possa uscire. Immaginiamo per un attimo che i miei pesci rossi siano qui dentro, finalmente: non vogliamo farli scappare, no?"
Scoppiò a ridere, e noi ridemmo insieme a lei e cominciammo il gioco.
Ecco come la vedevo quand'ero ragazzo: una donna strana, per molti versi. Ma adesso mi chiedo spesso: c'era veramente qualcosa dentro quello stagno che lei non voleva lasciar fuggire? E ricordo che, tutto sommato, il paesaggio in miniatura dello stagno era molto simile al vero paesaggio circostante, con tanto di siepe e tutto; e la bambola finita in fondo all'acqua era caduta dalla parte che corrispondeva alla siepe dei Fallon. Da ragazzo un'idea del genere non mi sarebbe mai venuta in mente; ma i ragionamenti di un adulto possono essere molto contorti.
Quella sera mio padre rincasò tardi, con la faccia seria. Mia madre se ne accorse subito.
"John... È successo qualcosa?", esclamò.
"L'hai saputo?"
"No! Che è successo?"
"La signora Fallon. È annegata nel fiume oggi pomeriggio."
"Ma è terribile!"
"Abbiamo appena ritrovato il corpo. Era finito molto a fondo. Era bloccato da qualcosa... da radici, da un sasso... chissà. Solo Dio sa perché ha voluto togliersi la vita... ma l'ha fatto."
Ricordo quanto fui felice per Jamie; ricordo quant'era felice anche lui, anche se con gli altri cercava di nasconderlo. Ma adesso, ripensando al passato, ricordo con quale nome i negri chiamavano la signorina Esperson; ricordo quella strana bambolina dai capelli rossi; e ricordo la qualità magnetica dei suoi occhi neri... la profondità imperscrutabile di quegli occhi in cui si nascondeva qualcosa che i bambini non potevano vedere.
(1928)


Paul Hoecker


di Stephen Grendon.
Dall'antologia "Storie di Streghe", (1996), a cura di Gianni Pilo.

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