sabato 29 aprile 2017

La Penta Mano-Mozza, Pentamerone, Terza Giornata, Secondo Trattenimento

Penta respinge indignata le nozze propostele dal fratello e, tagliatesi le mani, gliele manda in dono. Quegli la fa gettare a mare in una cassa, che capita a una spiaggia, dove un marinaio la raccoglie e conduce Penta a casa sua; ma la moglie, gelosa, la fa rigettare a mare nella stessa cassa. Raccolta da un re, gli diventa moglie; ma, pei raggiri della stessa malvagia femmina, è discacciata dal regno, e, dopo lunghi travagli, ritrova il marito e il fratello, e restano tutti contenti e consolati.



Il re di Pietrasecca, rimasto vedovo, senza donna a fianco, fu istigato da Farfarello [Nome di uno dei diavoli della quinta bolgia dell'Inferno dantesco] a prendere in isposa la propria sorella, Penta; onde un giorno, chiamatala da solo a sola, le disse:
"Non è, sorella cara, da uomo di giudizio far andar via il bene dalla casa propria: oltre che non sai quel che ti tiri addosso, lasciandovi metter piede a gente forestiera. Ho riflettuto assai su questo punto e sono venuto infine nella risoluzione di prendere te per moglie. Tu sei fatta al fiato mio, e io conosco l'indole tua: contentati, dunque, di fare con me quest'incastro, questa lega di botteghe [1], questo unianlur acin [2], questo misce et fiat polum [3], che condurremo l'uno e l'altra una vita serena".
Penta, al sentire questo sbalzo di quinta rimase fuor di sé, e un colore le usciva e un altro le entrava; perché non avrebbe potuto mai immaginare che il fratello venisse a siffatte stravaganze e cercasse di dare a lei un paio d'uova barIacee, mentre esso proprio aveva bisogno, per suo conto, di cento uova fresche [4]. Stette, per un pezzo, muta, pensando quale risposta potesse dare a domanda cosi impertinente e fuor di proposito; ma, in ultimo, scaricando la soma della pazienza, disse:
"Se voi perdete il senno, io non voglio perdere la vergogna: mi meraviglio di voi che vi fate scappare dalla bocca proposte di cotesta sorta, che, se sono dette per celia, sono asinerie, se sul serio, puzzano di caprone; e mi duole che, se voi avete una lingua per dire di queste brutte cose, io abbia orecchie per udirle. Io, moglie a voi? Dove avete il cervello ?. Da quando in qua si fanno di coteste capriate [5], di coteste olle podride, di coteste mischianze? E dove stiamo? Al Ioio?. Vi sono sorella o cacio cotto con olio? [6]. Mettete la testa a segno, per la vita vostra, e non vi fate più scivolare dalla bocca parole come queste; se no, farò cose da non credere, e, se voi non mi onorerete come sorella, io non vi tratterò da quello che mi siete!".
Ciò detto, corse in furia a chiudersi in una camera, puntellandola di dentro, e non vide la faccia del fratello per più di un mese, lasciando lo sciagurato re, che era andato con una fronte da maglio a stancare le palle (5\ scornato come un fanciullo che ha lotto l'orciuolo, e confuso come una cuoca alla quale il gatto ha portato via il tocco di carne.
A capo di quei tanti giorni, Penta fu citata di nuovo dal re alla gabella delle sue sfrenate voglie; ed essa volle appurare esattamente di che cosa il fratello si fosse incapricciato nella persona sua, e, uscita dalla camera, lo andò a trovare.
"Fratello mio, - gli disse - io mi sono vista e mirata allo specchio, e non trovo in questo mio volto cosa che possa essere meritevole dell'amor vostro; che, in verità, non sono un boccone cosi goloso da far commettere pazzie alla gente".
Il re le rispose:
"Penta mia, tu sei tutta bella e compita dal capo al piede; ma la mano è quella che sopr'ogni cosa mi rapisce: la mano, forchettone che dalla pignatta di questo petto tira fuori le interiora; la mano, uncino che dal pozzo di questa vita porta su la secchia dell'anima; la mano, morsa che stringe questo spirito, mentre Amore vi lavora di lima. O mano, o bella mano, che sei mestolo che minestra dolcezza, tenaglia che strappa le voglie, paletta che aggiunge carbone per far bollire il mio cuore!".


W. Goble



E più voleva dire, quando Penta rispose:
"Sta bene: v'ho inteso. Aspettate un po', non vi movete di qui, che or ora torno". E, rientrata nella sua camera, fece chiamare un suo schiavo mezzo insensato, gli consegnò un coltellaccio con un gruzzolo di patacche e gli disse:
"Ali mio, tagliare mani mie, volere fare bella secreta e diventare più bianca".



Lo schiavo, credendo di farle servigio, con due colpi gliele troncò nette; e Penta, fattele mettere in un bacile di faenza, le inviò, coperte di un tovagliuolo di seta, al fratello, con l'imbasciata che si godesse quello che più gli piaceva con buona salute e figli maschi.
Il re, vedendosi giocare questo tiro, montò in tanta collera che divenne furente, e ordinò di far subito una cassa tutta impeciata, dentro la quale cacciò la sorella e la gettò in mare. Dopo qualche giorno, la cassa, spinta dalle onde, die in una spiaggia; e qui alcuni marinai, che tiravano la rete, la presero e l'apersero, e vi trovarono Penta, bella più assai della Luna, quando pare che abbia fatto la quaresima a Taranto [7]. E Masiello, che era tra quella gente il principale e il più autorevole, se la condusse a casa, raccomandando alla moglie, Nuccia, di usarle carezze. Ma costei, che era la mamma del sospetto e della gelosia, non appena il marito ebbe ripassato la soglia, tornò a cacciare Penta nella cassa, e la rigettò al mare. E qui, sbattuta dalle onde, tanto andò ballonzolando, finché fu scontrata da un vascello, sul quale navigava il re di Terraverde. Veduto galleggiare qualcosa di strano, il re fece calar la vela e mettere il battello a mare, e, tirata su la cassa, l'aprirono e vi trovarono dentro la sventurata giovane, in quella cassa di morto bellezza viva. Sembrò al re di avere scoperto un gran tesoro, quantunque gli piangesse il cuore che uno scrigno, pieno delle gioie di Amore, fosse privo di maniglie. E la condusse al suo regno, assegnandola per damigella alla regina, alla quale essa prese a rendere ogni sorta di servigi, fino a infilare l'ago e cucire, a inamidare i coilari e ravviare i capelli, tutto facendo coi piedi, onde essa era tenuta cara come una figlia.
Qualche mese dopo, citata la regina
 a comparire alla banca della Parca a pagare il debito alla natura, chiamò presso il suo letto il re.
"Poco ancora può tardare - gli disse - l'anima mia a sciogliere il nodo matrimoniale col corpo; perciò sta' sano, marito mio, e scriviamoci qualche volta. Ma, se mi vuoi bene e se desideri che quest'anima se ne vada consolala all'altro mondo, m'hai da fare una grazia".
"Comandami, muso mio dolce, - rispose il re; - che se non ti posso dare in vita i testimoni del mio cuore, ti darò pegno in morte del bene che ti voglio".
"Orsù - continuò la regina: - poiché me lo prometti, ti prego quanto posso che, dopo che a causa della polvere avrò chiuso gli occhi, tu ti sposi Penta, la quale, quantunque non sappiamo chi sia né donde venga, pure, al marco dei buoni costumi, si fa conoscere cavallo di razza".
"Campami di qui a cent'anni! - replicò il re; - ma, quando tu avessi a dirmi buona notte per dare a me il cattivo giorno, ti giuro che me la prenderò per moglie, e non importa che sia priva di mani e scarsa di peso, perché delle cose tristi, come sono le donne, giova prenderne sempre il meno che si può".
Ma queste ultime parole le borbottò nella lingua, perché la moglie non se ne offendesse.
Spenta che ebbe la regina la candela dei giorni suoi, il re prese Penta per moglie, e la prima notte la innestò a figlio maschio. Poi, bisognandogli compiere un'altra veleggiata al paese d'Altoscoglio, tolse licenza da lei e levò l'ancora. A capo di nove mesi, Penta die alla luce un vago bambino, e se ne fecero luminarie per tutta la città, e subito il Consiglio spedi apposta una feluca per l'annunzio al re. La feluca corse cosi forte burrasca, che ora si vide manicata dalle onde e sbalzata alle stelle, ora rotolata in fondo al mare; e, in ultimo, come volle il Cielo, dette in terra, a quella marina stessa dove Penta era stata raccolta dalla compassione di un uomo e donde era stata scacciata dalla crudeltà canina di una donna.
Per disgrazia, proprio allora quella stessa Nuccia stava colà a lavare fasce e pannilini del suo fantoccio; e, curiosa come sono le donne dei fatti altrui, domandò al padrone della feluca di dove veniva, dov'era avviato, e per parte di chi. Il padrone rispose:
"Vengo da Terraverde e vado ad Altoscoglio dal re, che è in quel paese, a dargli una lettera, per la quale mi mandano apposta. Credo che gli scriva la moglie; ma non ti saprei dire propriamente di che cosa si tratta".
"E chi è la moglie di cotesto re?", insistè Nuccia.
E il padrone:
"Per quel che intendo, dicono che è una bellissima giovane, chiamata Penta dalle mani mozze, perché le mancano tutte e due le mani. E ho sentito dire che fu trovata in una cassa in mare, e, per la sua buona sorte, è diventata moglie del re, e non so che cosa ora gli scriva di premura. Ma mi bisogna navigare col trevo per arrivare presto".
Udito ciò, quella giudea di Nuccia invitò il padrone a bere, e, ubbriacatolo fin dentro gli occhi, gli tolse la lettera dalla saccoccia, e la portò ad uno studente, suo cliente [8], perché gliela leggesse. Ascoltò la lettura con tale un'invidia da schiattarne, che quasi non ci fu sillaba a cui non gettasse un sospiro; e poi, dallo stesso studente, fece falsificare quella mano di scrittura e comporre un'altra lettera, nella quale si diceva che la regina aveva partorito un cane deforme, e si aspettavano gli ordini per quel che s'avesse a fare.
Scritta e sigillata la lettera, la rimise nella saccoccia del marinaio, il quale, quando si fu scosso dal sonno, vedendo che il tempo si era rasserenato, andò a orza a orza a prendere garbino in poppa. Quando arrivò presso il re e gli ebbe consegnata la lettera, il re rispose che facessero stare allegra la regina e le raccomandassero di non prendersi nemmeno un'oncia di dispiacere, perché si trattava di cose permesse dal Cielo e l'uomo dabbene non deve rivoltarsi contro le stelle.
Sulla via del ritorno, il padrone giunse, dopo due sere, di nuovo alla casa di Nuccia, la quale, fattigli grandi complimenti, lo rimpinzò di cibo e lo colmò di vino, sicché andò daccapo a gambe in aria, e, infine, pesante e stordito, si buttò a dormire. Nuccia gli frugò nella tasca di coscia e trovò la risposta, e corse a farsela leggere; e poi ve ne sostituì un'altra falsa, con la quale si comandava al Consiglio di Terraverde di far subito subito bruciare madre e figlio.
E il padrone, quando ebbe digerito il vino, riparti. Allorché egli, giunto a Terraverde, presentò la lettera del re, e il Consiglio la lesse, fu un grande susurro tra quei saggi vecchioni, e, assai dibattendo quest'affare, conclusero che il re o era diventato pazzo o era stato affatturato, perché, avendo una perla di moglie e un gioiello di erede, voleva fare di entrambi polvere pei denti della Morte. Per questa considerazione, vennero nell'avviso di prendere la via di mezzo, mandando la giovane col figlio a errare pel mondo, che non se ne avesse più nuova alcuna; e cosi, provvistala di una manata di tornesetti per campare la vita, levarono dalla cassa reale un tesoro, dalla città una lanterna splendente, dal marito due puntelli delle sue speranze.
La povera Penta, vedendosi dare lo sfratto, quantunque non fosse né femmina disonesta, né parente di bandito, né studente fastidioso [9], si prese in braccio il suo cetriuolo, che innaffiava di latte e di lacrime, e s'avviò verso Lagotorbido. Era di quel luogo signore un mago, che, ammirando questa bella storpia che storpiava i cuori, costei che faceva più guerra coi suoi moncherini che Briareo con le cento mani, volle sentire tutt' intera la storia delle sventure che aveva sofferte da quando il fratello, per essergli negato il pasto della carne, volle farla pasto ai pesci, fino a quel giorno che aveva messo piede nel suo regno.
Il mago, all'amaro racconto, versò lacrime senza fine, e la compassione, che gli entrava pei pertugi delle orecchie, vaporava in sospiri per lo spiraglio della bocca. Alla fine, la confortò con buone parole:
"Sta' di buona voglia, figlia mia, che per infracidita che sia la casa di un'anima, si può reggere tuttavia, se la puntella la speranza. Perciò, non lasciare smarrire l'animo, ché il Cielo tira talvolta le disgrazie umane all'estremo della ruina par fare più mirabile l'opera sua. Non dubitare, dunque, perché tu hai trovato in me mamma e padre, e io t'aiuterò col mio sangue stesso".
La povera Penta lo disgraziò:
"Non importa - gli disse - che il Cielo piova disgrazie e grandini ruine, ora che sono sotto la tettoia della grazia vostra, di voi che potete e valete: e già questa vostra bella faccia m'incanta". E cosi, dopo mille parole di cortesia da una parte e di ringraziamento dall'altra, il mago le assegnò un ricco appartamento nel palazzo suo e la fece governare come una figlia. E, la mattina dopo, ordinò di pubblicare un bando: che alla persona che fosse venuta alla sua corte a raccontare la più grande delle disgrazie, avrebbe dato una corona e uno scettro d'oro: due belle cose, che valevano più d'un regno.
Correndo questo grido per tutta l'Europa, vennero al paese del mago più gente che non siano i broccoli, per guadagnarsi la ricchezza promessa. E chi raccontava che aveva servito in corte tutta la vita, e, dopo avervi perduto il ranno e il sapone, la gioventù e la salute, era stato pagato con un caciocavallo. Chi diceva che gli era stata fatta un'ingiustizia da un superiore e non gli era concesso di lagnarsene, tanto che gli bisognava inghiottire la pillola e non evacuare la collera. Uno si lamentava di aver posto tutte le sue sostanze in una nave, e che un po' di vento contrario gli aveva tolto il cotto e il crudo. Un altro si doleva di avere speso tutti gli anni suoi a esercitare la penna, senza cavarne mai l'utile di una sola penna; e, soprattutto, si disperava che le fatiche della penna sua avevano avuto cosi poca ventura, laddove le materie dei calamai [10] erano tanto fortunate al mondo.
In questo mezzo, il re di Terraverde tornò nel regno e, trovata a casa quella dolce bevanda che non s'aspettava, proruppe in atti da leone scatenato, e avrebbe fatto scuoiare tutti i consiglieri, se essi non gli avessero senz'altro posto soit'occhi la lettera che avevano ricevuta da lui. Ma, quando la vide, e conobbe la falsa mano di scrittura, chiamò a sé il corriere e gli ordinò di raccontare tutto quanto gli era occorso nel viaggio. Cosi, a poco a poco, venne a penetrare che la moglie di Masiello gli aveva macchinato la rovina; onde, armata subito una galea, andò di persona a quella spiaggia. Ivi, ritrovata la femmina, con bel modo le cavò di corpo tutto l'intrigo; e, avendo inteso che causa del fatto era stata la gelosia, volle che essa diventasse di cera e, incerata e spalmata di sego, la fece mettere sopra una grande catasta di legna secche, alla quale fu dato fuoco.
Poiché ebbe assistito alla fiammata, e veduto che il fuoco, vibrando una lingua rossa rossa, s'era divorata la trista femmina, fece vela; e, in alto mare, incontrò una nave, che portava il re di Pietrasecca. Dopo molte cerimonie scambievoli, questi disse all'altro che navigava verso Lagotorbido a causa del bando pubblicato dal signore di quel luogo, per tentare la sorte sua, come colui che non cedeva per mala fortuna al più dolente uomo del mondo.
"Se è per questo - disse il re di Terraverde, - io ti salto di sopra a piedi giunti, e posso dare quindici e fallo al più sventurato che sia al mondo; e, dove gli altri misurano i dolori a lucernette io li posso misurare a tomoli. Perciò voglio venire con te, e facciamola tra noi da galantuomini, e chi di noi vince, spartirà da buon compagno esaltamente la vincita".
"Siamo intesi", disse il re di Pietrasecca; e si dettero reciprocamente la fede. Andarono cosi di conserva a Lagotorbido, dove, approdati, si presentarono al mago, che li onorò di grandi accoglienze, quali si convenivano a teste coronate, e li fece sedere sotto il baldacchino, salutandoli mille volte benvenuti. E, poiché ebbe udito che si presentavano alla prova degli uomini sventurati, volle conoscere quale peso di dolore li rendesse soggetti agli scirocchi dei sospiri.
Il re di Pietrasecca cominciò allora a narrare l'amore che aveva posto al sangue suo, l'alto da donna onorata che fece sua sorella, il fiero cuore che egli mostrò col chiuderla in una cassa impeciata e gettarla a mare; per le quali cose, da una parte, lo trafiggeva la coscienza del proprio errore, e dall'altra, lo pungeva l'affanno della sorella perduta; di qua, lo tormentava la vergogna, di là il danno; di guisa che tutti i dolori delle più angosciate anime dell'inferno, posti a un lambicco, non sgocciolerebbero una quintessenza di affanni come quelli che provava il cuor suo.
Finito ch'ebbe questo re di parlare, incominciò l'altro:
"Oimè, che le doglie tue sono ciambellette inzuccherate, franfellicchi e strùffoli a paragone del dolore che io sento, perché quella Penta dalle mani mozze, che trovai nella cassa come torcia di cera di Venezia per fare le mie esequie, io la presi per moglie, ed essa mi partorì un bel bambino, e, per malignità di una brutta arpia, poco è mancato che non fossero l'una e l'altro arsi dal fuoco. Nondimeno, oh chiodo del mio cuore! oh dolore per cui non mi posso dar pace! li hanno scacciati tutti e due, mandandoli fuori del mio stato; di tal che, vedendomi alleggerito di ogni piacere, non so come, sotto la soma di tante pene, non caschi prostrato a terra l'asino della mia vita!".
Udito il mago l'altro re, conobbe al fiuto che l'uno era il fratello e l'altro il marito di Penta; e, fatto chiamare Nufriello, il fanciullo, gli disse:
"Va', e bacia i piedi a tata, signore tuo"; e il fanciullo obbedì al mago.
Il padre, vedendo la buona grazia di quel marmocchietto, gli gettò una bella catena d'oro al collo. Dopo di che, il mago tornò a parlare:
"Bacia la mano allo zio, bel ragazzo mio"; e quel bel pacioncello fece subito l'ubbidienza; e l'altro re, ammirando la vivacità di quella fraschetta, gli die un bel gioiello, e domandò al mago se gli era figlio, e quegli rispose che ne domandasse la madre.


Joseph E. Southall




Penta, che, nascosta dietro una portiera, aveva ascoltato tutto questo negozio, venne fuori; e, come cagnolina sperduta che, ritrovando dopo tanti giorni il padrone, lo lecca, scodinzola, e fa mille segni di allegria, essa, ora correndo al fratello ora al marito, ora tirata dall'affetto dell'uno, ora dalla carne dell'altro, abbracciava ora questo ora quello, con tanto giubilo che non si potrebbe immaginare. Fa' conto che eseguivano un concerto a tre di parole smozzicate e di sospiri interrotti.
Fatta pausa a questa musica, si ritornò a carezzare il fanciullo, e ora il padre e ora lo zio a vicenda lo stringevano e lo baciavano, e se ne andavano in brodo di giuggiole. E, dopo che da questa parte e da quella fu fatto e fu detto, il mago concluse con queste parole:
"Sa il Cielo quanto esulta il mio cuore a vedere consolata la signora Penta, la quale per le sue belle qualità merita di essere tenuta in palma di mano e per la quale ho cercato con tanta industria di condurre a questo regno il marito e il fratello, per darmi all'uno e all'altro schiavo incatenato. Ma, poiché l'uomo si lega con la parola e il bue con le corna, e la promessa di un uomo dabbene è contratto, giudicando che il re di Terraverde abbia sofferto dolore da morire, gli voglio mantenere la parola e dargli non solo la corona e lo scettro promessi col bando, ma altresì il regno. Io non ho né figli né fastidi di famiglia; e perciò, con buona grazia vostra, voglio per miei figli adottivi questa bella coppia di marito e moglie, che mi sarà cara quanto le pupille degli occhi. E perché non ci sia più altro da desiderare alla felicità di tutti, orsù, Penta si metta i moncherini sotto il grembiule, che ne trarrà fuori le mani, più belle che non erano prima".
Penta cosi fece, e la cosa riusci appuntino come il mago aveva detto. E di ciò la gioia fu grandissima; e ne gongolarono tutti, e particolarmente il marito, che stimò più assai questa bella fortuna che il nuovo regno donatogli dal mago. Dopo aver trascorso alcuni giorni in magnifiche feste, il re di Pietrasecca se ne tornò al regno suo, e il re di Terraverde, mandato il cognato al suo minor fratello perché da sua parte lo incaricasse della cura delio stato, rimase col mago, scontando a canne di diletto le dita di travaglio che aveva sofferte, e rendendo testimonio al mondo che:
non può il dolce aver caro 
chi provato non ha, prima, l'amaro.

Traduzione e note di Benedetto Croce.
Il testo in lingua originale è nella Pagina: "G.B. Basile".

Dalle note:

[1] Società tra due negozianti.
[2] Come nei processi, quando si riuniscono insieme gli atti di due o più cause. [3] Formula delle ricette dei medici.
[4] Cioè, era venuto matto. La cura, alla quale in quei tempi erano sottomessi i pazzi dello spedale degl'Incurabili di Napoli, consisteva nel girare la ruota per attingere l'acqua dal pozzo, mangiare cento uova come cibo nutriente e leggiero, e ricevere periodiche bastonature.
[5] Capriata, miscuglio di vino bianco e vino nero: cfr. lo spagn. calabriada.
[6] Testo: "o caso cucito": sottintendendo (come, in altri testi, si trova compiuta la frase) "con olio", ossia in guisa ripugnante al cacio. Vuol dire: come se non fossimo in alcun modo parenti.
[7] La luna piena. Poiché Taranto abbonda di pesci e crostacei squisiti, vi si può passare una quaresima, cioè mangiar di magro, pur soddisfacendo la gola e diventando grassi e tondi.
[8] Clientela, che getta un'ombra anche sulla condotta coniugale della malvagia Nuccia.
[9] Tre categorie di persone, che si soleva allora più di frequente rimuovere dai luoghi dove abitavano o scacciare dal Regno.
[10] Cioé il corno.

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