Un giorno le chiamò tutt’assieme e disse alla maggiore:
"Quanto mi vo’ tu bene?"
"Quant’al pane", quella gli arrispose.
"Allora i’ son contento", dice ’l padre.
Poi s’arrivolse alla mezzana:
"E te quanto mi vo’ tu bene?"
"Babbo mio, quant’al vino".
Fa il padre: "Anco di te i’ son contento, perché il vino mi garba e il paragone è giusto. E te, piccina, dimmelo anco te, quanto mi vo’ tu bene?"
Dice la piccina: "Quant’al sale".
"Oh! birbona - sbergola il Re - dunque, tu mi vo’ veder distrutto?"
E s’incattivì, ché alla figliola, per bone ragioni che lei gli portassi del su’ pensieri, nun ci fu verso di farlo persuaso e d’abbonirlo.
Dice lui: "Sì, tu mi vo’ distrutto, perché ’l sale si strugge anco da sé indove si mette. Dunque una figliolaccia come te con meco nun ci pole più stare. Va’ via di casa e ti maledico, e vai indove più ti garba. Ma fuggi via subbito dalla mi’ presenzia e ch’i’ nun ti rivegga più mai".
"Re Lear", Abbey E.A.
Quella poera ragazza, che gli aveva a mala pena quindici anni, fu ubbligata dalle cattive parole di su’ padre a nuscire dalla stanza, e con le lagrime agli occhi andiede a trovare la su’ balia e gli raccontò quel che gli era intravvienuto.
Dice:
"Oh! come farò io, me sciaurata, a girar sola per il mondo e maladetta da mi’ padre?"
La balia la racconsolò, e poi gli disse:
"Nun vi sgomentate. I’ vierrò con voi. Pigliate un sacchetto di monete d’oro e si partirà assieme per indove ci mena la fortuna".
Fecero dunque accosì le du’ donne, e quand’ebbano in mano il sacchetto con le munete e messo a ordine un fagottino di panni, la mattina fuggirno dal palazzo e s’avviorno fora di una porta. Loro camminorno per dimolti giorni; ma tutti i giovani che riscontravano devan dietro alla ragazza e nun la lassavano ben avere, perché la gli dasse retta: la balia era sgomenta, nun sapendo come salvargli l’onore, e sempre con la paura che gli portassen via la ragazza per forza.
Una sera però, arrivate a una città le du’ donne, s’imbatterno in un mortorio e gli dissano che era il funerale d’una vecchia morta a cento anni. Pensa subbito la balia: 'Se mi vendano la pelle di questa vecchia, no’ siemo salve'.
Vanno dunque nella chiesa, e doppo finite le funzioni la balia cerca del becchino e gli domanda, se lui vole vendere la pelle della vecchia. Il becchino in sulle prime gli arrispose di no; ma poi, siccome la balia gli profferse venti scudi, lui s’accordò, e con un coltello scorticata per bene tutta la vecchia, la su’ pelle la diede alla balia. La balia quand’ebbe avuto in mano la pelle della vecchia col viso, i capelli bianchi, le mane con l’ugne e tutto, la fece conciare e cucitala su del cambrì, mascherò con quella la ragazza, sicché la nun si ricognosceva più, e pareva propio la vecchia co’ su’ cento anni addosso e più i quindici della ragazza. Doppo si rimessane in cammino, e i giovanotti alla ragazza nun gli devan più noia; ma la gente correva a vedere quella vecchina che parlava tanto sverta e camminava lesta com’un frullino.
Un giorno le du’ donne arrivorno a una gran città e per istrada riscontrorno il figliolo del Re, che era un giovanotto piuttosto allegro, e andeva a spasso co’ su’ genitori. Quando lui vedde la ragazza travestita da vecchia gli parse di molto buffa, sicché fermò la balia e gli disse:
"Quella donna, quant’anni ha ella codesta vecchia? "
Arrisponde la balia: " Addimandategliene".
E lui: "Nonnina, oh! quant’anni avete voi?"
"I’ n’ho centoquindici".
Scrama il figliolo del Re: "Càspita! Nun mi burlate voi? E d’addove siete?"
E la vecchia: "Del mi’ paese".
"E i vostri genitori chi sono?"
"Guà! il mi’ babbo e la mi’ mamma".
"E ’l mestieri, che mestieri vo’ fate?"
"To’! i’ vo a spasso".
Il figliolo del Re in nel sentire tutte quelle matte risposte rideva a più nun posso; poi dice al Re e alla Regina:
"Vo’ m’avete a fare una grazia".
Dicon loro: "Chiedi pure".
"S’ha da pigliare questa vecchina allegra in nel palazzo e camparla insino a fin di vita".
Dissan loro: "Sì, come ti garba".
A farla corta, la vecchina la condussan nel palazzo reale, e gli assegnorno una stanza nel mezzanino, e il figliolo del Re andeva spesse volte ugni giorno a parlargli, perché ci si divertiva. La balia poi, quand’ebbe accomido al sicuro la su’ ragazza, se ne tornò diviata a casa sua.
La finta vecchia, dunque, la steva lì nel palazzo reale, che nun gli mancava nulla; e siccome pareva che ’gli avessi gli occhi cisposi, e’ gli messane il soprannome d’Occhi-Marci.
Un giorno la Regina gli disse: "Ma che propio vo’ nun sapete far nulla?" Arrisponde la vecchia: "Che vole! Quand’i’ avevo soltanto quindici anni i’ sapevo fare dimolte cose, e anco filavo bene e cucivo. Ma ora, con questi mi’ occhi i’ lavoro male, e le mane e le labbra nun mi servan più al filato".
Dice la Regina: "In ugni mo’, vi potete almanco provare a filarmi un po’ di lino, tanto per nun v’annoiare".
E la vecchia: "Guà! i’ farò l’ubbidienza".
Frederick G.
Gli fece dunque portare la Regina del lino scardassato, e la vecchia, quando tutti furno iti via, si serrò a chiave in cammera e, cavatosi d’addosso la finta buccia, filò tutto quel lino, che era proprio una maraviglia a vedersi. Il figliolo del Re, la Regina e tutta la Corte rimasano sbalorditi, che una vecchia grinzosa, mezzo cieca e con le mane tremolanti avessi possuto lavorare a quel modo. Doppo un po’ di tempo dice la Regina alla vecchia:
"Siccome vo’ lavorate tanto bene di filato, vo’ dovete provarvi a cucire una camicia al mi’ figliolo".
E la vecchia: "Com’i’ so e posso, veh!"
Gli portorno dunque della tela sopraffina; e la vecchia, serrata al solito la porta di cammera sua, tagliò e cucì la camicia tutta di trapunto, e nella pettorina ci ricamò delle rappe a fiori d’oro, ché di meglio era ’mpossibile trovare. Tutti, guà! ’gli è naturale, erano istupiditi e nun sapevano che si pensare di simile bravura. Ma il figliolo del Re poi nun era dimolto persuaso, che non ci fussi qualche malìa sotto, e però si mettiede ’n capo di scoprire ugni cosa; perché lui ragionava ’ntra di sé accosì: 'Questa vecchia la si serra in cammera a chiave, quando lei lavora e quando mangia, che nissuno la pole vedere allora. I’ vo’ sapere quel che lei ci fa lì sola'. Con questo pensieri il figliolo del Re, quando alla vecchia gli portorno da desinare, se n’andiede al buco della toppa, e vede che la vecchia si spogliava ignuda e poi si levava quella buccia finta, e che di sotto c’era una bellissima ragazza. Nun fece discorsi il figliolo del Re; con un calcio butta giù la porta, nentra in cammera e abbraccia la ragazza diviato, sicché lei tutta vergognosa scappò in un cantuccio a ricoprirsi con quel che potiede.
Dice il figliolo del Re: "Oh! chi siei? Perché tu stevi travestita a quel modo?" Arrispose con gli occhi bassi la ragazza e gli raccontò tutta la su’ storia, e come il babbo, che era pur lui un Re, l’aveva scacciata di casa e maladetta.
Il figliolo del Re, allegro a quelle novità, corse a chiamare i su’ genitori e gli disse: "Sapete, i’ ho trovo moglie. Una figliola d’un Re. Vienite a vederla". Vanno, e la ragazza s’era in quel mentre vestita per bene, che pareva un occhio di sole: e anco il Re e la Regina rimaseno a quella bellezza di quindici anni e al racconto che lei fece di quel che gli era successo. Insomma e’ s’accordorno che diventassi moglie del figliolo, e bandirno lo feste per lo sposalizio a tutti i regni vicini e lontani.
Il giorno del banchetto delle nozze ci viense pure il Re babbo della sposa; ma lui nun la ricognoscette. L’apparecchio era, che ognuno aveva a tavola pietanze da sé, e la sposa si mettiede a siedere tra su’ padre e ’l su’ sposo; ma a su’ padre gli fece servire tutto insenza sale, sicché lui nun mangiò propio nulla.
Quando fu finito il desinare, disse la sposa a su’ padre:
"E lei, che è vienuto di tanto lontano, com’è contento di queste feste? Perché lei nun ha mangiato nulla?"
Dice lui: "Che vole! Se ’gli è uso di questi paesi, istarò zitto; ma la robba insenza sale io nun la posso mangiare".
"Dunque lei al sale gli vole bene?", addimandò la sposa.
Dice lui: "Sicuro, ché insenza sale i’ nun so fare io".
Bussière G.
"Oh! allora, signor padre - scramò la sposa - perché mi mandò via di casa, quand’i’ paragonai il bene ch’i’ gli volevo al bene ch’i’ voglio al sale?"
A queste parole ’mprovvise il padre s’accorgette che era la su’ figliola e disse forte: "T’ha’ ragione! I’ feci male dimolto, e ti chieggo perdono, e ti benedisco con tutto il core".
Accosì, fatte le paci e tornati tutti d’accordo, si feciano grandi allegrie, ché di simili nun se n’eran ma’ viste, e poi ognuno ritornò a casa sua lassando gli sposi a godersela libberamente.
(Raccontata dalla Luisa vedova Ginanni)
Novella n.13 da: "Sessanta Novelle Popolari Montalesi", di Gherardo Nerucci
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