Un giorno la vicina di casa mia amica mi dice:
"Ho visto una
trasmissione televisiva sulle donne straniere che fanno le operaie.
Lavorano tutto il giorno in fabbrica e la sera si occupano della casa, dei
figli".
Io dico:
"È quello che ho fatto io, appena arrivata in Svizzera".
Lei dice:
"Ma loro, per di più, non sanno nemmeno il francese".
"Neanch'io lo sapevo".
La mia amica è seccata. Non può raccontarmi la storia impressionante
che ha visto alla televisione sulle donne straniere che fanno le operaie. Ha
dimenticato così bene il mio passato che non riesce più a immaginare che
anch'io ho fatto parte di quella categoria di donne che non conoscono la
lingua del posto, che lavorano in fabbrica e che la sera si occupano della
famiglia.
Io invece me ne ricordo: la fabbrica, la spesa, la bambina, i pasti. E la
lingua ignota.
In fabbrica è difficile riuscire a parlarsi, le macchine fanno troppo
rumore. Si riesce a parlare solo nelle toilette, fumando a gran velocità una
sigaretta.
Le mie amiche operaie mi insegnano l'essenziale. Dicono: Oggi è bel
tempo, indicandomi il paesaggio di Val-de-Ruz. Mi toccano per
insegnarmi altre parole: capelli, braccia, mani, bocca, naso.
Di sera torno a casa con la bambina. La mia figlioletta mi guarda con gli
occhi sgranati quando le parlo in ungherese. Una volta si mette a piangere
perché io non la capisco, un'altra volta perché è lei a non capirmi.
Cinque anni dopo essere giunta in Svizzera parlo il francese, ma
continuo a non saperlo leggere. Sono tornata analfabeta. Io che leggevo già
a quattro anni.
Conosco le parole. Quando le leggo, non le riconosco. Le lettere non
corrispondono a niente. L'ungherese è una lingua fonetica, il francese è
l'esatto contrario.
Non so come ho potuto vivere senza la lettura per cinque anni.
C'era,
una volta al mese, la Gazzetta letteraria ungherese, che all'epoca
pubblicava le mie poesie; c'erano anche i libri ungheresi della Biblioteca di
Ginevra che ricevevamo per corrispondenza. Erano libri il più delle volte
già letti, ma che importava, era sempre meglio rileggere che non leggere
del tutto.
La bambina sta per compiere sei anni, e sta per cominciare la scuola.
Anch'io comincio, ricomincio la scuola. All'età di ventisette anni, mi
iscrivo ai corsi estivi dell'Università di Neuchàtel, per imparare a leggere.
Sono corsi di francese rivolti a studenti stranieri. Ci sono inglesi,
americani, tedeschi, giapponesi, svizzeri tedeschi. L'esame di ammissione
è un esame scritto. Consegno un foglio bianco, mi ritrovo con i
principianti.
Dopo qualche lezione il professore mi dice:
"Lei parla molto bene il
francese. Come mai è in un corso per principianti?"
Gli dico: "Non so né leggere, né scrivere. Sono analfabeta".
Lui si mette a ridere: "Questo lo vedremo".
Due anni dopo conseguo il Certificato di Studi Francesi con un'ottima
valutazione.
So leggere, so di nuovo leggere. Posso leggere Victor Hugo, Rousseau,
Voltaire, Sartre, Camus, Michaux, Francis Ponge, Sade, tutto quello che
voglio leggere di francese, e anche gli autori non francesi ma tradotti,
Faulkner, Steinbeck, Hemingway.
Il mondo è pieno di libri, di libri finalmente comprensibili, anche per
me.
In seguito avrò ancora due figli. Con loro farò ancora esercizi di lettura,
di ortografia, di coniugazione. Quando mi chiedono il significato di una
parola, o la sua ortografia, non dico mai: Non lo so. Dico: Vado a
vedere. E vado a vedere nel dizionario, senza stancarmi mai. Divento
un'appassionata di dizionari.
Non appena padroneggio un po' la lettura, mi fisso un altro obiettivo:
scrivere in francese. Questo è diventato una necessità, perché attorno a me
tutti parlano francese. Se la sera dovessi descrivere in ungherese la mia
giornata, il racconto dovrebbe essere tradotto. Ovviamente ci sono anche
altre ragioni. Non sono una scrittrice dissidente nota, nessuno mi
tradurrebbe, e non mi pubblicherebbero nemmeno in Ungheria. Per cui non
mi resta che accettare la sfida e negli anni Settanta comincio a scrivere in
francese. Nel 1972 porto a termine le mie prime due pièce teatrali. Mi ci
vorranno ancora più di dieci anni per cominciare timidamente a scrivere un
romanzo.
Questa lingua, il francese, non l'ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso,
dalle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli
scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida.
La sfida di un'analfabeta.
Ho incontrato per strada il mio professore di un tempo. Mi ha detto:
"Un mio allievo sta facendo un lavoro sul suo libro".
Ho detto: "È divertente, non trova?"
"Divertente? Sì, è proprio la parola giusta".
Agota Kristof ha scritto i romanzi Il grande quaderno (uscito da
Guanda nel 1988 con il titolo Quello che resta), La Prova (Guanda 1989) e La Terza Menzogna, pubblicato insieme ai due libri precedenti da Einaudi
nella Trilogia della città di K. (1998). Nel 1997 Marco Lodoli ha tradotto,
sempre per Einaudi, Ieri, portato sullo schermo da Silvio Soldini con il
titolo Brucio nel vento.
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