venerdì 21 agosto 2015

Leggende di Contarape (Boemia)

ui parnasici Sudeti della Slesia abita l'autorevole spirito della montagna, Contarape, che ha reso queste alte montagne più note di quanto non abbiano fatto i poeti slesiani. Questo principe degli Gnomi sulla superficie terrestre controlla solo un piccolo territorio, ampio poche miglia e circondato da una catena di montagne.


Simanchuk Andrew


Altri due potenti sovrani, che condividono con lui questo regno, non vogliono però riconoscere i suoi diritti.
Poco sotto la crosta terrestre comincia invece il territorio su cui regna incontrastato, e il suo dominio si spinge per ben sessantotto miglia nella profondità della terra, fino a raggiungerne il centro.
Talvolta, egli, sottraendosi alle preoccupazioni del suo regno sotterraneo, viene a distrarsi sulle montagne, dove si prende gioco degli uomini con gran baldanza. Perché, amici, dovete sapere che Contarape è uno spirito potente, lunatico, turbolento, strano: a volte villano, rude, presuntuoso; altre, orgoglioso, vanitoso, volubile; oggi è un amico affettuoso, domani è freddo e distante; a volte, sa essere bonario, nobile e sensibile, ma decisamente pieno di contraddizioni: stupido e saggio, tenero e duro, ingenuo e disincantato, cocciuto e malleabile, a seconda del momento e dell'umore.
Nella notte dei tempi, Contarape infuriava già sulle montagne selvagge, incitava orsi e buoi a combattere gli uni contro gli altri, oppure spaventava la selvaggina e la faceva precipitare dagli erti picchi nella valle profonda. Stanco di questa caccia, ritornava poi al suo regno sotterraneo, dove rimaneva chiuso per centinaia di anni, fino a che gli tornava la voglia di uscire alla luce del sole, per godersela sulla terra.
Come si meravigliò una volta al suo ritorno, quando, guardando giù dalle vette dei Monti dei Giganti, trovò la regione completamente trasformata! I boschi oscuri e impenetrabili erano stati abbattuti e trasformati in campi coltivati. Tra le distese di alberi da frutto spiccavano i tetti di paglia di alcuni paeselli e dai loro camini usciva un pennacchio di fumo; qua e là, sul crinale della montagna, si poteva scorgere qualche isolata torre di guardia a protezione della regione; nei prati pieni di fiori pascolavano pecore e bestiame e dai boschetti provenivano le dolci melodie dei pifferi.
La novità e la piacevolezza di quella visione ritemprarono lo spirito del meravigliato sovrano, tanto che non si adirò neppure con questi coltivatori indipendenti, che senza chiedergli il permesso avevano fatto tutti quei cambiamenti e vivevano tranquillamente.
Decise perciò di non disturbarli, di non contestare loro nulla e di lasciarli vivere come un benevolo padrone di casa ospita sotto il suo tetto una rondine o un passero.
Pensò addirittura di far conoscenza con gli uomini, questa strana specie a metà tra gli spiriti e gli animali, di scoprire la loro natura e di stringere rapporti con loro.
Assunse quindi le sembianze di un uomo ed entrò in servizio presso il primo agricoltore.
Tutto quello che faceva gli riusciva molto bene e ben presto il lavorante Rips era conosciuto in tutto il paese come il migliore.
Il suo padrone però, crapulone e gaudente com'era, scialacquava quello che il fedele servo gli faceva guadagnare e non gli era affatto grato per il gran da fare che si dava.
Abbandonò quindi il primo padrone per entrare a servizio dal vicino, che gli affidò il suo gregge. Il servo lo custodiva con solerzia, lo portava al pascolo in luoghi solitari e sulle montagne, dove cresceva l'erba migliore.
Sotto la sua tutela anche il gregge crebbe e si moltiplicò, nessuna pecora precipitò più dalle rocce, nessuna venne assalita dall'avvoltoio né sbranata dal lupo.
Ma il padrone era uno spilorcio, che non solo non lodava il fedele servitore come avrebbe dovuto, ma che arrivò persino a rubare il più bel montone dal gregge, per poi, con la scusa della perdita, diminuire il salario del suo pastore.
Rips abbandonò quindi anche il secondo padrone per entrare a servizio presso il giudice, divenendo il flagello dei ladri e servendo con zelo la giustizia. Il giudice era però un uomo empio, che usava la legge a suo piacimento e se ne prendeva gioco.
Poiché Rips non voleva diventare uno strumento di ingiustizia, si licenziò e fu gettato in carcere, da dove però, come sempre fanno gli spiriti, riuscì a evadere facilmente passando per il buco della serratura.
Questo primo tentativo di conoscere gli uomini non lo indusse certo ad amarli. Tornò scontento sulle vette, da dove poteva padroneggiare con lo sguardo i ridenti campi, resi ancor più belli dal lavoro umano e si meravigliò che madre natura potesse elargire i suoi doni a degli esseri simili.
Ciò nonostante decise di fare un'altra puntatina tra gli uomini.



Bauer J.


Questa volta si trovò davanti una affascinante fanciulla nuda, bella come una Venere medicea, che si accingeva a fare il bagno.
Le sue compagne di giochi si erano distese sull'erba nei pressi di una cascata, scherzavano e scambiavano affettuose effusioni con la loro sovrana, in un'atmosfera di spensierata felicità.
Questa visione ebbe un tale effetto sullo spirito della montagna, che dimenticò la sua diversa natura e le sue peculiarità, desiderando anche per sé il destino dei mortali e guardando con brama la bella fanciulla della stirpe degli uomini. Gli organi degli spiriti sono però così delicati che non riescono a percepire una forte impressione per lungo tempo. Lo gnomo pensò allora di aver bisogno di un corpo, per poter veder con gli occhi quella bella ragazza e fissarla nella sua immaginazione.
Assunse quindi le sembianze di un corvo e volò su un frassino, che sovrastava il bacino formato dalla cascata, per godersi la graziosa scena.
Non fu però una buona idea perché si ritrovò a veder tutto con gli occhi di un corvo e ad avere la sensibilità di un corvo: un nido di topi di bosco lo attraeva ora più della bella al bagno.
Non appena si rese conto di questo inconveniente, corse ai ripari: il corvo volò in un cespuglio e si tramutò in un fiorente giovinetto.
Sperimentò così delle sensazioni mai provate in tutto il corso della sua lunga esistenza: si sentì irrequieto, provava un nuovo slancio e un potente desiderio verso qualcosa di indefinibile, a cui non sapeva dare un nome.
Un impulso irresistibile lo spingeva verso la cascata, ma nel contempo provava una forte resistenza, una vaga paura ad avvicinarsi, nelle sue spoglie umane, alla bella Venere che stava facendo il bagno. Preferì allora rimanere nel cespuglio, da dove poteva comodamente spiarla.
La bella ninfa era la figlia del faraone slesiano, che regnava allora in quella regione. Costei era solita passeggiare con le ragazze della sua corte per i boschi montani, raccogliendo fiori ed erbe odorose o ciliegie e fragole per la tavola paterna.
Quando faceva caldo, era solita poi rinfrescarsi alla sorgente nei pressi della cascata.


Stegg A.


La visione della bella fanciulla al bagno accese l'amore dello gnomo che non abbandonò più il luogo, aspettando ogni giorno con impazienza il ritorno della affascinante ragazza.
Verso mezzogiorno di una calda giornata, la principessa tornò alla cascata. Fu molto stupita di trovare il luogo completamente trasformato: la volgare roccia era coperta di marmo e alabastro, la cascata non precipitava con forza irruente dalla ripida parete rocciosa ma, interrotta da molti scalini, scendeva dolcemente con un tranquillo sciacquio al candido bacino di marmo, in mezzo al quale zampillava un allegro getto d'acqua, che ruotando spruzzava ora un lato, ora l'altro.
Margheritine, colchici e il romantico nontiscordardime crescevano ai margini del bacino, cespugli di rosa si mescolavano al gelsomino selvatico formando un angolino delizioso.
Lateralmente alla cascata si trovava la duplice entrata a una grotta, le cui pareti e volte erano coperte di mosaici, rilucenti di una luce quasi accecante. In diverse nicchie erano stati preparati vari rinfreschi, dall'aspetto straordinariamente invitante.
La principessa, meravigliata, non credeva ai suoi occhi, e non sapeva se entrare in questo luogo incantato o fuggire.
Era però figlia di Eva, incapace di resistere al desiderio di vedere tutte quelle piacevolezze e di assaggiare i deliziosi frutti, che sembravano lì proprio per lei.
Dopo aver mangiato a sazietà e osservato tutto con somma attenzione, le venne voglia di fare il bagno nella vasca.
Ordinò alle ragazze del suo seguito di fare la guardia e stare all'erta, affinché nessun occhio indiscreto potesse spiarla e dissacrare la sua virginale pudicizia.
Ma appena la bella ninfa si calò nella vasca la corrente la inghiottì e, prima ancora che le giovani del suo seguito facessero in tempo ad afferrarle i biondi capelli, scomparve.
Le fanciulle spaventate si misero a piangere e lamentarsi, si torsero le mani, pregarono invano le Naiadi, continuando a camminare intorno alla vasca, mentre lo zampillo d'acqua le bagnava a intervalli regolari.
Ma nessuna di loro ebbe il coraggio di tuffarsi, salvo Brihild, che si buttò in acqua pronta a condividere il destino della sua più cara amica.
Galleggiò però sull'acqua come un leggero pezzo di sughero e nonostante tutti i suoi sforzi non riuscì a immergersi.
Non c'era null'altro da fare che informare il re del triste incidente. Le ragazze piangenti lo incontrarono sulla via del ritorno, mentre egli si recava nel bosco con i suoi cacciatori.
Il re si strappò le vesti dal dolore, si tolse la corona dal capo, nascose il volto nel suo purpureo mantello, pianse e si lamentò ad alta voce della perdita della bella Emma.
Dopo che il suo dolore ebbe trovato un po' di sfogo nelle lacrime, si fece coraggio e si recò alla cascata per vedere di persona il luogo dell'incidente. L'incantesimo era sparito, il luogo era tornato selvaggio, non c'era più né grotta, né vasca di marmo, né rose, né gelsomini.
Il buon re non pensò affatto a un rapimento di sua figlia per mano di qualche cavaliere errante, poiché cose di questo tipo non si usavano allora nel paese, e non cercò nemmeno di estorcere alle compagne una confessione che fosse più credibile della verità.
Credette senza problemi al racconto che gli era stato fatto, pensando che Thor o Wodan, o qualche altro dio fosse implicato nella vicenda, quindi proseguì la sua battuta di caccia, consolandosi velocemente della perdita della figlia.
I re terreni infatti non si preoccupano d'altro che della perdita della loro corona.
L'affascinante Emma intanto non si trovava affatto male nelle mani dello spirito innamorato.
L'annegamento era stato solo una messa in scena per sottrarre la ragazza al suo seguito e condurla attraverso una via sotterranea in uno stupendo palazzo, col quale la residenza paterna non reggeva il confronto.
Quando la principessa tornò in sé si trovò su un comodo divano di raso rosa con un disegno in seta blu. Un giovane dal bell'aspetto giaceva ai suoi piedi e le faceva un'ardente dichiarazione d'amore, che lei ascoltava arrossendo.



Bauer J.


Lo gnomo le spiegò la sua vera identità e le sue condizioni, le raccontò degli stati sotterranei che dominava, la condusse attraverso le sale e le stanze del castello mostrandole tutto lo sfarzo e la ricchezza della sua dimora.
Il palazzo era circondato su tre lati da uno stupendo giardino, che, con i suoi fiori e i prati ombreggiati, piacque molto alla ragazza.
Gli alberi da frutto erano carichi di mele purpuree e dorate, i cespugli erano pieni di uccellini che facevano risuonare le loro diverse melodie.
La tenera coppia passeggiava per i vialetti guardando la luna, e lo gnomo si preoccupava che il fiore sul petto della sua amata fosse sempre fresco.
Pendeva dalle labbra della fanciulla, ogni sua parola era come nettare: in una vita lunga come quella di Enone lo spirito non aveva mai goduto ore così intense, come ora gli venivano concesse dal suo primo amore.
L'affascinante Emma però non era altrettanto felice, una certa malinconia e un dolce languore le conferivano sì un fascino particolare, ma lasciavano anche intravedere che i desideri nascosti nel suo cuore non erano completamente in sintonia con quelli dell'innamorato.
Contarape scoprì ben presto che nonostante tutti i tentativi di conquistarsi il cuore di Emma con mille favori, l'impresa era rimasta senza esito.
Tuttavia, con la sua ostinata pazienza, non si stancò di persistere, esaudendo tutti i suoi desideri e tentando di vincere la sua ritrosia.
La sua totale inesperienza in campo amoroso lo portava a pensare che le difficoltà che si contrapponevano alla realizzazione del suo desiderio, facessero parte del gioco d'amore, poiché - come poteva constatare - questa resistenza aveva certo un suo fascino e tendeva ad aumentare ulteriormente lo sperato trionfo finale.
Eppure, nuovo nello studio degli esseri umani, non aveva la minima idea di quale fosse la causa reale della ritrosia della sua amata; egli supponeva che il cuore di lei fosse libero come il suo, e che quindi potesse appartenergli di diritto, come un possedimento ancora intoccato appartiene al primo proprietario.
Ma il piccolo gnomo si sbagliava di grosso! Un giovane essere umano, il principe Ratibor, aveva già conquistato il cuore della dolce fanciulla.
La felice coppia guardava già al giorno in cui la loro unione si sarebbe realizzata, quando d'un tratto la sposa sparì.
Questo terribile evento tramutò l'innamorato Ratibor in una specie di Orlando Furioso: abbandonò il suo palazzo e si ritirò schivo in solitari boschi, a lamentarsi con le rocce della sua disgrazia.
La fedele Emma, nascosta tra le mura del suo grazioso carcere, sospirava per la pena ma celò i suoi sentimenti nel profondo del cuore, in modo da non lasciar trapelare niente allo gnomo, sempre all'erta.
Da tempo andava arrovellandosi pensando a un sotterfugio per raggirarlo e fuggire dalla sua prigione.
Dopo alcune notti insonni le venne in mente un piano che poteva essere degno di un tentativo.
La smise di tormentare il paziente gnomo con la sua freddezza mortale, i suoi sguardi cominciarono a lasciare qualche speranza, e diventò più malleabile. Queste propizie disposizioni d'animo vengono normalmente sfruttate subito dal sospirante innamorato.
Il nostro spirito si accorse immediatamente, grazie alla sua raffinata sensibilità, del mutamento avvenuto nella graziosa fanciulla.
Un incantevole sguardo, un'espressione amichevole, un significativo sorriso infiammavano il suo essere estremamente eccitabile, come il fuoco infiamma l'alcool.
Si rianimò e rinnovò la sua dichiarazione d'amore, che per un po' aveva taciuto, pregò che gli venisse prestato ascolto e non fu respinto.
Le sue richieste furono ora accolte, tanto che la fanciulla chiese solo un giorno per pensarci, e lo gnomo felice come una pasqua fu pronto a concederlo. Il mattino seguente, allo spuntar del sole, la bella Emma apparve al suo cospetto ornata da sposa, indossando tutti i suoi monili.
I suoi biondi capelli raccolti erano cinti da una corona di mirto, la guarnizione del vestito risplendeva di pietre preziose.
Accortasi che lo gnomo le veniva incontro in giardino si coprì castamente il viso con un lembo del velo.
"Divina fanciulla - cominciò a balbettare il nano - lasciami bere dai tuoi occhi la beatitudine dell'amore e non negarmi ancora a lungo quello sguardo d'assenso, che mi può far diventare l'essere più felice del mondo!"
Detto ciò cercò di scoprirle il volto per leggerle in viso la gioia, poiché non aveva il coraggio di estorcerle una confessione.
La ragazza però si avvolse ancora più stretta nel suo velo e rispose con modestia: "Può forse una mortale resistere al tuo amore? La tua insistenza ha vinto, te lo confesso, ma accontentati delle mie parole e lascia che il rossore del mio viso e le mie lacrime possano rimanere nascosti".
"Perché lacrime mia cara? - le chiese lo spirito inquieto - Ognuna delle tue lacrime è una goccia che brucia il mio cuore, voglio essere corrisposto con amore, non voglio alcun sacrificio".
"Perché interpreti male le mie lacrime? - rispose Emma - Il mio cuore apprezza la tua tenerezza, ma paurosi presentimenti lacerano la mia anima. Una donna non ha sempre il fascino di una giovane amante: tu non invecchi mai, ma la bellezza terrena è un fiore che appassisce in fretta. Chi mi assicura che tu continuerai a essere il più tenero, il più caro, il più servizievole e il più paziente dei mariti, come lo fosti quando chiedevi la mia mano?"
Lo spirito rispose:
"Pretendi pure una prova della mia fedeltà o della mia ubbidienza, oppure metti alla prova la mia pazienza per poter giudicare la forza del mio amore
irremovibile".
"Sia dunque così! - decise l'esile Emma - Voglio solo che tu mi dimostri di essere servizievole. Vai a contare tutte le rape che ci sono nel campo, ma non cercare di ingannarmi e non sbagliarti nel contare nemmeno di una unità, perché proprio questa è la prova che mi dimostrerà la tua fedeltà".
Staccandosi a malincuore dalla sua affascinante amata, lo gnomo ubbidì e cominciò a contare saltellando tra le rape come un medico di un lazzaretto francese tra i malati.
Quando ebbe terminato, per maggiore sicurezza, ripeté il conteggio, e con gran rabbia scoprì che i conti non tornavano, quindi si accinse a ricominciare. Anche questa volta però i conti risultarono sballati: non c'è da meravigliarsi perché un grande amore può far andare in confusione anche il miglior cervello matematico! La scaltra Emma aveva tenuto d'occhio il suo paladino mentre si preparava alla fuga.
Tenne pronta una bella rapa succosa, che in un attimo tramutò in un cavallo munito di sella e briglie, sul quale fuggì attraverso brughiere e steppe al di là delle montagne.
Il Pegaso fuggitivo, senza mai inciampare, la cullò sulla sua comoda schiena fino alla valle di Maien, dove si gettò nelle braccia di Ratibor che le corse incontro trepidante.


Millais J.


Nel frattempo, lo gnomo affaccendato era così assorto nei suoi conteggi, che non si era accorto di nulla.
Con gran fatica gli era infine riuscito di contar tutte le rape, comprese le più piccole, e corse dalla sua amata per darle la risposta.
Era infatti sicuro di averle dimostrato, con la sua ubbidienza, di essere il marito più servizievole e sottomesso che mai figlia di Adamo avesse dominato con le sue fantasie e i suoi capricci.
Compiaciuto per questo egli tornò al prato, ma non trovò Emma; corse allora tra gli alberi e i sentieri del giardino ma dell'amata non vi era traccia; si precipitò allora al palazzo dove setacciò ogni angolo, chiamandola ad alta voce ma il suo nome riecheggiava nelle stanze vuote, senza risposta.
Allora sospettò di essere stato preso in giro.
Velocemente si liberò delle sue sembianze umane, si alzò in volo e scorse in lontananza la sua amata in fuga, proprio nel momento in cui il cavallo stava varcando il confine.
Lo spirito adirato afferrò alcune nuvole, le unì e, con un tuono roboante, scagliò un fulmine contro la quercia millenaria che segnava il confine proprio alle spalle della fuggitiva.
Più di questo però lo gnomo non poteva fare, e la nuvola si tramutò in una innocua nebbia.
Dopo aver attraversato disperato le regioni superiori lamentandosi coi quattro venti del suo amore sfortunato e dando libero sfogo alla sua passione tempestosa, fece tristemente ritorno al suo palazzo e vagò di stanza in stanza riempiendole di sospiri e gemiti.
Si recò poi nel giardino, che aveva ormai perso per lui ogni fascino: lo interessava solo l'orma del piede della sua infedele amata impressa nella sabbia per lui più attraente delle mele d'oro sugli alberi o di qualsiasi altra meraviglia.
Una sensazione di delizioso piacere si risvegliava in lui in ogni luogo in cui lei era passata o si era soffermata, dove aveva colto fiori, dove lui l'aveva spiata senza essere visto e dove, sotto spoglie umane, si era intrattenuto a parlare confidenzialmente con lei. Poi, dopo aver sepolto per sempre il suo primo amore, sfogò con una serie di terribili maledizioni tutta la rabbia che aveva in corpo, e non volle più saperne della razza umana.
Prendendo questa decisione batté per tre volte il piede a terra e il palazzo con tutte le sue meraviglie si polverizzò.
Lo gnomo si ritirò quindi nel suo regno sotterraneo, che inghiottì la sua rabbia.
Se ne tornò al centro della terra, portando con sé le sue fissazioni e il suo odio.
Nel frattempo il principe Ratibor era occupato a mettere in salvo la bella Emma, e a condurla in gran pompa alla corte del padre, dove ebbe luogo il matrimonio e dove divise con lei il trono, costruendo la città di Ratisbona, che ancora oggi porta il suo nome.
La strana avventura della principessa, la sua fuga coraggiosa con il suo lieto fine, divenne la favola della regione e fu tramandata di generazione in generazione per moltissimo tempo.
E le signore slesiane trassero insegnamento dallo stratagemma della scaltra Emma, mandando l'incomodo marito a contare rape, quando convocavano Pamante. Poiché gli abitanti di quella regione non conoscevano il vero nome dello spirito gli affibbiarono il nomignolo di Contarape.
Da sempre gli amanti infelici trovano rifugio nella madre terra.
Ma mentre gli uomini vi giungono per una strada senza ritorno, gli spiriti hanno il vantaggio di poter riemergere in superficie quando ne abbiano voglia, dopo aver trovato consolazione o dato libero sfogo alla loro passione.
Per gli uomini invece la via del ritorno è chiusa per sempre.


"Leggende di Contarape" (Boemia), J. K. A. Musaus.
Da : Il Bosco. Miti, leggende e fiabe, A. Mari - Ulrike Kindl.

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