mercoledì 21 maggio 2014

La Tragica Fine della Contessa di Challant, Matteo Bandello

Bandello non è a Milano al momento dell’esecuzione, per cui riferisce i fatti come riferitigli dal poeta milanese Antonio Sabino. Il novelliere insiste sulle basse origini della donna, che dice figlia di un ricchissimo usuraio di Casalmonferrato. In realtà Bianca Maria Gaspardone è figlia di conte, per quanto di recente nobiltà. Nel 1514, quando è poco più che quindicenne, sposa Ermes Visconti, attirato dalla cospicua dote. Dopo la morte del marito (giustiziato dai francesi per sospetto tradimento sulla piazza d’armi del Castello), è accolta dai Bentivoglio. Grazie alla straordinaria avvenenza è corteggiata da parecchi pretendenti. Nel 1522 il potente signore valdostano Renato di Challant riesce a conquistarla, ma non a farle apprezzare la vita solitaria nei castelli alpini, a lei che è abituata alla mondanità di Milano.

Federico Pastoris, I signori di Challant nel castello di Issogne

Bianca Maria scappa nel 1524 a Pavia, dove mena "una vita troppo libera e poco onesta", facendo "all’amore con questo e con quello".
"Ho ventidue anni e son già vedova due volte. La sorte può mutare", le fa dire Giacosa nella sua fortunata pièce teatrale. La descrizione bandelliana di Pavia come di città mondana e tentatrice può far oggi sorridere, ma coincide con la visione che nel passato si aveva della vivace città universitaria. Quis Papie demorans castus habeatur? (chi dimorando a Pavia potrebbe rimare casto?): cantavano i goliardi del medioevo.
Solo a posteriori – scrive Bandello – si capiscono le ragioni della gelosia del Visconti, dopo che la donna, libera dal controllo del consorte, si è mostrata in tutta la sua congenita disonestà, fino alla condanna per omicidio il 20 ottobre 1526. Eppure la dama aveva la fama di donna "costumata", quando – pur non potendosi permettere le libertà delle signore milanesi – praticava la Casa Bentivoglio. Con il senno di poi, Bandello la descrive come una puledra irrequieta, tenuta a freno dal marito, che le impedisce di presenziare alle occasioni mondane:
"ella ne le prime nozze era moglie del nostro signor Ermes Vesconte, che Dio abbia in gloria, perciò che egli era riputato esser di lei geloso. Del che era in Milano assai biasimato. Egli non permetteva che ella praticasse in molti luoghi, se non in casa de la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, ove spesso io la vedeva e seco domesticamente ragionava. Onde mi ricordo che, essendo ella fanciulletta, e volontarosa, come le fanciulle sono, d’andar a le feste con quella libertà che le donne milanesi vanno, pregò essa signora Ippolita, che l’impetrasse dal marito di poter andar in certo luogo, massimamente essendovi invitata. La signora Ippolita fece in effetto l’ufficio a la presenza mia con il signor Ermes, un giorno che di compagnia eravamo noi tre soli a ragionar insieme. Ascoltò il signor Ermes la richiesta fattagli, e poi sorridendo così le rispose: […] Voi mi perdonarete s’io non lascio andar la mia moglie ov’ella vuole e se non le do tanta libertà quanta in Milano si costuma, perché io conosco il trotto e l’andar del mio polledro…."



Bandello racconta la dinamica dei fatti con il consueto realismo. Nel secolo romantico, Giacosa e altri assolveranno la contessa dalla taccia di femmina depravata, indicando come causa della condanna capitale il rifiuto di lei a concedersi al duca di Borbone, governatore milanese. Ma Bandello non mostra pietà per la "putta sfacciata", perfida e ninfomane, sempre in cerca di un "gagliardo macinatore".

"Questo don Pietro era giovine di ventidui anni, brunetto di faccia ma proporzionato di corpo e d’aspetto malinconico, il quale veggendo un dì la signora Bianca Maria, fieramente di lei s’innamorò. Ella conoscendolo e giudicatolo piccione di prima piuma ed instrumento atto a far ciò che ella tanto bramava, se le mostrava lieta in vista, e quanto poteva più l’adescava, per meglio irretirlo e abbarbagliarlo. Egli, che più non aveva amato donna di conto, stimando questa esser una de le prime di Milano, miseramente per amor di lei si struggeva. A la fine ella se lo fece una notte andar a dormir seco, e con amorevolissime accoglienze lo raccolse, e mostrandosi ben ebra de l’amor di lui, li fece tante carezze e gli dimostrò tanta amorevolezza nel prender amorosamente piacer insieme, che egli si reputava esser il più felice amante che fosse al mondo, e in altro non pensando che in costei, così se le rendeva soggetto, che ella non dopo molto entrata in certi ragionamenti, domandò di singular grazia al giovine che volesse ammazzar il conte di Gaiazzo e il signor Ardizzino. Ma la disgraziata giovane, avendo di bocca sua confermata la confessione de l’amante, fu condannata che le fosse mózzo il capo. Ella, udita questa sentenza, e non sapendo che don Pietro era scappato per la più corta, non si poteva disporre a morire. A la fine essendo condutta nel rivellino del castello verso la piazza, e veduto il ceppo, si cominciò piangendo a disperare e a domandar di grazia che, se volevano che morisse contenta, le lasciassero veder il suo don Pietro; ma ella cantava a’ sordi. Così la misera fu decapitata. E questo fin ebbe ella de le sue sfrenate voglie."

Tratto da:
http://www.storiadimilano.it/

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