domenica 29 settembre 2013

Raperonzolo, La Fanciulla nella Torre, Grimm n.12

'era una volta un uomo e una donna che da molto tempo desideravano invano un bimbo. Finalmente la donna scoprì di essere in attesa. Sul retro della loro casa c'era una finestrella dalla quale si poteva vedere nel giardino di una maga, pieno di fiori ed erbaggi di ogni specie. Nessuno, tuttavia, osava entrarvi. Un giorno la donna stava alla finestra e, guardando il giardino vide dei meravigliosi raperonzoli in un'aiuola. Subito ebbe voglia di mangiarne e, siccome sapeva di non poterli avere, divenne magra e smunta a tal punto che il marito se ne accorse e, spaventato, gliene domandò la ragione.
"Ah! Morirò se non riesco a mangiare un po' di quei raperonzoli che crescono nel giardino dietro casa nostra." L'uomo, che amava la propria moglie, pensò fra sè: 'Costi quel che costi, devi riuscire a portargliene qualcuno.' Così, una sera, scavalcò il muro, colse in tutta fretta una manciata di raperonzoli e li portò a sua moglie La donna si preparò subito un'insalata e la mangiò con avidità. Ma i raperonzoli le erano piaciuti a tal punto che il giorno dopo la sua voglia si triplicò. L'uomo capì che non si sarebbe chetata, così penetrò ancora una volta nel giardino. Ma grande fu il suo spavento quando si vide davanti la maga che incominciò a rimproverarlo aspramente per aver osato entrare nel giardino a rubarne i frutti. Egli si scusò come potè‚ raccontando delle voglie di sua moglie e di come fosse pericoloso negarle qualcosa in quel periodo. Infine la maga disse:
"Mi contento di quel che dici e ti permetto di portar via tutti i raperonzoli che desideri, ma a una condizione: mi darai il bambino che tua moglie metterà al mondo."
Impaurito, l'uomo accettò ogni cosa e quando sua moglie partorì, subito comparve la maga, diede il nome di Raperonzolo alla bimba e se la portò via.
Raperonzolo divenne la più bella bambina del mondo, ma non appena compì dodici anni, la maga la rinchiuse in una torre alta alta che non aveva scala né porta, ma solo una minuscola finestrella in alto. Quando la maga voleva salirvi, da sotto chiamava:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli 
che per salir mi servirò di quelli." 

Raperonzolo aveva infatti capelli lunghi e bellissimi, sottili come oro filato. Quando la maga chiamava, ella scioglieva le sue trecce, annodava i capelli in alto, al contrafforte della finestra, in modo che essi ricadessero per una lunghezza di venti braccia, e la maga ci si arrampicava.



Un giorno un giovane principe venne a trovarsi nel bosco ove era la torre, vide la bella Raperonzolo alla finestra e la udì cantare con voce così dolce che tosto se ne innamorò. Egli si disperava poiché‚ la torre non aveva porta e nessuna scala era alta a sufficienza. Tuttavia ogni giorno si recava nel bosco, finché‚ vide giungere la maga che così parlò:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli 
che per salir mi servirò di quelli!"

Così egli capì grazie a quale scala si poteva penetrare nella torre. Si era bene impresso nella mente le parole che occorreva pronunciare, e il giorno seguente, all'imbrunire, andò alla torre e gridò:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli 
che per salir mi servirò di quelli!" 

Ed ecco, ella sciolse i capelli e non appena questi toccarono terra egli vi si aggrappò saldamente e fu sollevato in alto.
Raperonzolo da principio si spaventò, ma ben presto il giovane principe le piacque e insieme decisero che egli sarebbe venuto tutti i giorni a trovarla. Così vissero felici e contenti a lungo, volendosi bene come marito e moglie. La maga non si accorse di nulla fino a quando, un giorno, Raperonzolo prese a dirle:
"Ditemi, signora Gothel, come mai siete tanto più pesante da sollevare del giovane principe?"
"Ah, bimba sciagurata!- replicò la maga - cosa mi tocca sentire!"
Ella comprese di essere stata ingannata e andò su tutte le furie. Afferrò allora le belle trecce di Raperonzolo, le avvolse due o tre volte intorno alla mano sinistra, prese le forbici con la destra e zic zac, le tagliò. Indi portò Raperonzolo in un deserto ove ella fu costretta a vivere miseramente e, dopo un certo periodo di tempo, diede alla luce due gemelli, un maschio e una femmina.




La stessa sera del giorno in cui aveva scacciato Raperonzolo, la maga legò le trecce recise al contrafforte della finestra e quando il principe giunse e disse:

"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli
che per salir mi servirò di quelli!" 

ella lasciò cadere a terra i capelli. Come fu sorpreso il principe quando trovò la maga al posto dell'amata Raperonzolo!
"Sai una cosa?- disse la maga furibonda - per te, ribaldo, Raperonzolo è perduta per sempre!"
Il principe, disperato, si gettò giù dalla torre: ebbe salva la vita, ma perse la vista da entrambi gli occhi. Triste errò per i boschi nutrendosi solo di erbe e radici e non facendo altro che piangere.




Alcuni anni più tardi, capitò nello stesso deserto in cui Raperonzolo viveva fra gli stenti con i suoi bambini. La sua voce gli parve nota, e nello stesso istante anch'ella lo riconobbe e gli saltò al collo. Due lacrime di lei gli inumidirono gli occhi; essi si illuminarono nuovamente, ed egli potè vederci come prima.








Illustrazioni di P. Zelinsky


Grimm n.12, "Rapunzel"
Classificazione:  AaTh 310 [The Maiden in the Tower]

Il testo in lingua originale è nella pagina Brüder Grimm.

martedì 24 settembre 2013

Le Donne Cornute, Yeats W.B. (Irlanda)

na ricca signora era ancora alzata a tarda notte per cardare e preparare la lana, mentre tutti i familiari e i servi dormivano. Improvvisamente ci fu un colpo alla porta e una voce disse: "Aprite! Aprite!".
"Chi è là", disse la padrona di casa.
"Sono la Strega da un Corno", fu la risposta. La signora, pensando che fosse un vicino venuto per chiedere aiuto, aprì la porta, ed entrò una donna con in mano un paio di pettini per cardare la lana e con un corno sulla fronte che pareva proprio nato là. Si sedette in silenzio vicino al fuoco e cominciò a cardare la lana con terribile fretta. Improvvisamente si interruppe e disse a gran voce:
"Dove sono le donne? Tardano troppo".
Allora si udì un colpo alla porta e una voce disse, come prima:
"Aprite! Aprite!".
La padrona di casa sentì che qualcosa la costringeva ad alzarsi e ad aprire, e immediatamente entrò una seconda strega, che aveva sulla fronte due corna e in mano un arcolaio per filare la lana.
"Fammi posto - disse - sono la Strega dalle due Corna", e cominciò a filare alla velocità di un fulmine.
I colpi alla porta si ripeterono, si udirono le stesse parole, le streghe entrarono, e alla fine dodici donne sedevano attorno al fuoco - la prima con un corno, mentre l'ultima ne aveva dodici.
E cardavano il filato, facevano girare i loro arcolai, avvolgevano le matasse e tessevano.
Cantavano tutte insieme antichi versi, ma non dissero una sola parola alla padrona di casa. Strane a udirsi e spaventose a vedersi erano queste dodici donne, con le loro corna e i loro arcolai; e la padrona si sentiva sul punto di morire, e si sforzò di alzarsi per andare a cercare aiuto, ma non poteva muoversi né pronunciare una parola o lanciare un grido, poiché era sotto l'effetto dell'incantesimo delle streghe.
Allora una di loro le si rivolse in Irlandese e disse:
"Alzati, donna, e preparaci un dolce".
La signora cercò quindi un recipiente con cui portare l'acqua dal pozzo per poter impastare la farina e preparare il dolce, ma non riuscì a trovarne neppure uno.
E le streghe le dissero: "Prendi un setaccio e usa quello per portare l'acqua".
La donna prese il setaccio e andò al pozzo; ma l'acqua ne usciva, e non riusciva a prenderne neanche un po' per il dolce, e allora sedette vicino al pozzo e pianse.
Le giunse allora una voce che diceva: "Prendi dell'argilla fresca e del muschio, impastali insieme, poi rivesti il setaccio in modo che tenga".
La donna fece così e il setaccio tenne l'acqua per il dolce; e la voce disse ancora:
"Ritorna fuori, e, quando arrivi sull'angolo nord della casa, grida forte per tre volte: La montagna delle donne Feniane e il cielo sopra di essa sono in fiamme".
Così fece.


Lempicka Tamara de’


Quando le streghe che erano all'interno udirono il grido, un urlo alto e terribile uscì dalle loro labbra, si precipitarono fuori tra grida e lamenti selvaggi, e fuggivano via verso Slievenamon [1], dove era la loro abituale dimora. Ma lo Spirito del Pozzo disse alla padrona di casa di entrare e prepararsi a difendere la casa dagli incantesimi delle streghe, nel caso fossero tornate.
In primo luogo, per spezzare i loro incantesimi, sparse fuori dalla porta, sulla soglia, l'acqua nella quale aveva lavato i piedi del suo bambino (l'acqua dei piedi); in secondo luogo prese il dolce che le streghe avevano fatto in sua assenza con farina mescolata al sangue tolto alla famiglia addormentata, la fece a pezzetti e ne mise un pezzetto in bocca a ciascuno dei dormienti, ed essi tornarono a star bene; poi prese la stoffa che aveva intessuto e la mise mezza dentro e mezza fuori di una cassapanca col lucchetto; infine chiuse la porta con una grossa trave fissata agli stipiti, in modo che non potessero entrare. Una volta fatte queste cose attese. Le streghe non tardarono molto a tornare; erano furibonde e invocavano vendetta.
"Apri, apri!- urlarono - apri, acqua dei piedi!"
"Non posso - disse l'acqua dei piedi - sono stata sparsa per terra e ora sto scorrendo verso il Lago."
"Aprite, aprite, legno e alberi e trave!", gridarono alla porta.
"Non posso - disse la porta - perché la trave è fissata agli stipiti e non posso muovermi."
"Apri, apri, dolce che abbiamo fatto e impastato col sangue!", gridarono ancora.
"Non posso - disse il dolce - perché sono stato rotto e fatto a pezzi e il mio sangue è nelle labbra dei bambini addormentati."
Allora le streghe svolazzarono per l'aria con grandi grida e tornarono in volo a Slievenamon, lanciando oscure maledizioni allo Spirito del Pozzo, che aveva voluto la loro rovina; ma la donna e la casa furono lasciate in pace e un mantello caduto a una delle streghe in volo fu conservato dalla padrona, appeso al muro, a ricordo dell'orribile lotta di quella notte; e quel mantello è rimasto in possesso della famiglia, di generazione in generazione, per altri cinquecento anni.

 [1] Sliàbh-na-mban - cioè montagne delle donne.

Dalla raccolta di fiabe e leggende popolari di William Butler Yeats:
"Fiabe Irlandesi".

lunedì 23 settembre 2013

Agatuzza Messia, Raccontatrice di Storie Palermitana Presentata da Giuseppe Pitrè

"...le persone da cui ho cercato ed avute tante tradizioni sono state quasi tutte donne. La più valente tra esse è la Agatuzza Messia da Palermo, che io riguardo come novellatrice-modello. Tutt'altro che bella, essa ha parola facile,  frase efficace, maniera attraente di raccontare, che ti fa indovinare della sua straordinaria memoria e dell'ingegno che sortì da natura. La Messia conta già i suoi settant'anni, ed è madre, nonna, ed avola; da fanciulla ebbe raccontate da una sua nonna, che le aveva apprese dalla madre e questa, anche lei, da un suo nonno, una infinità di storielle e di conti; avea buona memoria, e non le dimenticò mai più, [....]

Tra le sue compagne del Borgo, rione, o, come dice il popolo, quartiere di Palermo, essa godeva riputazione di brava contatrice, e più la si udiva, e più si avea voglia di udirla. Presso che mezzo secolo fa, ella dovette recarsi insieme col marito in Messina, e vi dimorò qualche tempo: circostanza, questa, degna di nota, giacché le popolane nostre non uscivano mai dal proprio paese altro che per gravissime bisone. Tornando in patria, essa parlava di cose di cui non potevano parlare le comari del vicinato: parlava della Cittadella, fortezza che non c'era uomo che potesse prendere, tanto che non ci poterono gli stessi Turchi; parlava del Faro di Messina, che era bello ma pericoloso pe' naviganti; parlava di Reggio di Calabria, che, affacciandosi ella dalla Palizzata di Messina, pareva volesse toccare colle mani; rammentava e contraffaceva la pronunzia de' Milazzesi, che parlavano, diceva la Messia, tanto curiosi da far ridere. Tutte queste reminiscenze son restate vivissime nella sua memoria.
La Messia non sa leggere, ma la Messia sa tante cose che non le sa nessuno, e le ripete con una proprietà di lingua che è piacere a sentirla. Questa una delle caratteristiche sue, sulla quale chiamo l'attenzione deimiei  lettori. Se il racconto cade sopra un bastimento che dee viaggiare, ella ti mette fuori, senza accorgersene o senza parere, frasi e voci marinaresche che solo i marinai o chi ha a che fare con gente di mare conosce. Se la eroina della novella capita, povera e desolata, in una casa di fornai e vi si alloga, il linguaggio della Messia è così informato a quel mestiere che tu credi esser ella stata a lavorare , a cuocere il pane, quando in Palermo questa occupazione, ordinaria nelle famiglie de' piccoli e grandi comuni dell'Isola non è che de' soli fornai. Non parliamo ove entrino faccende domestiche, perché allora la Messia è come in casa sua; né può essere altrimenti di una donna che, ad esempio di tutte le popolane del suo rione, ha educato alla casa e al Signore, come esse dicono, i suoi figli e i figli de' suoi figli.



La Messia da giovane fu sarta; quando la vista per fatica si andò indebolendo, si mise a fare la cuttuninara, cioè cucitrice di coltroni d'inverno. Ma in mezzo a questo mestiere che le dà da vivere, essa trova tempo di compiere i suoi doveri di cristiana e di devota.

[...] La Messia mi vide nascere e mi ebbe tra le braccia: ecco perché io ho potuto raccogliere dalla sua bocca le molte belle tradizioni che escono col suo nome. Ella ha ripetuto al giovane le storielle che avea raccontate al bambino di trenta anni fa; né la sua narrazione ha perduta un'ombra dell'antica schiettezza, disinvoltura e leggiadria. Chi legge non trova che la fredda, la nuda parola; ma la narrazione della Messia, più che nella parola, consiste nel muovere irrequieto degli occhi, nell'agitar delle braccia, negli atteggiamenti della persona tutta, che si alza, gira intorno per la stanza, s'inchina, si solleva, facendo la voce ora piana, ora concitata, ora paurosa, ora dolce, ora stridula, ritraente la voce de' personaggi e l'atto che essi compiono.
Della mimica nelle narrazioni, specialmente della Messia, è da tener molto conto, e si può esser certi che, a farne senza, la narrazione perde metà della sua forza ed efficacia. Fortuna che il linguaggio resta qual è, pieno d'inspirazione naturale, a immagini tutte prese agli agenti esterni, per le quali diventano concrete le cose astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non  ebbero mai vita o l'ebbero solo una volta."

Da:
"Fiabe, Novelle e Racconti Popolari Siciliani"

A Proposito della Traduzione

Non avevo mai tradotto un testo dal Siciliano. E parliamo di un Siciliano ottocentesco, popolare e popolano. Quindi, di una lingua "viva", sfuggente come un'anguilla. Ovviamente, la mia traduzione non ha alcuna pretesa di scientificità. Non ho effettuato minuziose ricerche, sono andata molto "ad orecchio", essendo, comunque, anch'io Sudista, e mi sono consultata con Siciliane. Il problema è stato un altro: trasformare la "storiella" di Agatuzza Messia in una fiabuccia completamente e asetticamente italiana? (Asetticamente uguale: spogliarla di ogni caratterizzazione regionale, ma non solo, cancellarne anche il carattere popolare e discorsivo). Le traduzioni di Calvino, come sempre, non possono e non devono essere un punto di riferimento, né aiutano i suggerimenti dello stesso Pitrè, suggerimenti che ho postato sotto il testo in Siciliano nella pagina Testi in Lingua Originale.
Ho optato per una soluzione che adotterò anche in futuro. La traduzione è completa, non ho lasciato parole in Siciliano, ma ho cercato di preservare la "parlata", la cadenza...
Qualche esempio.
E 'sto Re e 'sta Regina tenevano una figlia solamente...
'Sto/'sta (laddove non diano troppo fastidio), "tenevano" in luogo di avevano, "una figlia solamente" per avevano un'unica figlia.
"Olà! Olà! La colomba si rubò la pettinessa!"-
Ho conservato il passato remoto e il "si" rubò.
Spesso, conservo il "ci", ( con le stesse precauzioni riservate al permanere di 'sto/'sta): e le Fate ci dissero (alla ragazza).
"Muoio! Mi punse una spina!".
Conservo il passato remoto e l'inversione soggetto-verbo.
Affinerò la tecnica con la pratica perché il Pitrè mi accompagnerà spesso.

Mab


mercoledì 11 settembre 2013

La Colomba, Fiaba Siciliana Raccolta da Giuseppe Pitrè

'erano una volta un Re e una Regina, e 'sto Re e 'sta Regina tenevano una figlia solamente; e, siccome 'sta ragazza aveva una treccia di capelli che era una magnificenza, non voleva che il parrucchiere glieli toccasse.
Un giorno, mentre si pettinava, entra una colomba, afferra la pettinessa [1] e scappa via.
“Olà! Olà! La colomba si rubò la pettinessa!”, gridò la Reginotta, ma non si potè far niente perché la colomba era sparita. L'indomani, alla stessa ora, torna la colomba, afferra l'intrecciatura [2] e scappa via.
“Olà! Olà! La colomba mi rubò l'intrecciatura!”
Passano tre giorni. La Reginotta aveva appena finito di pettinarsi e si stava lavando le mani, con l'asciugamani gettato sulla spalla. Cala la colomba, afferra l'asciugamani e scappa via. La ragazza, tutta arrabbiata, prende una scaletta di seta, si cala giù e le corre appresso. Ma la colomba, raggiunta, non fuggiva: come la vedeva avvicinarsi, spiccava il volo, e, poi, andava a posarsi ora di qua, ora di là. Figuriamoci la stizza della ragazza! La colomba s'infratta in un bosco: e lei, dietro; la colomba s'infila in una casina di campagna: e lei, dietro. Entra e vede un bel giovanotto, e gli domanda:
“Avete visto una bella colomba con un asciugamani nel becco?”
“Sì - le risponde il giovane - e son io quella colomba!”
“Voi? ”
“Sì! ”
“Ma com'è possibile? ”
“Le Fate m'hanno fatto l'incantamento. E io potrò andarmene di qua solo se starai un anno, un mese, e un giorno, con la faccia al Sole e alle intemperie, fissa a guardare quella montagna lì di fronte. E non fare che, se mi vedi con il mio aspetto d'uomo in compagnia delle Fate, ti metti a strillare, perché te ne verrà solo male!”
La Reginotta si siede vicino alla finestra aperta, e il giovane si trasforma in colomba, spicca il volo e va in cima alla montagna. Passa il primo giorno, passa il secondo, passa il terzo... passano settimane, e la ragazza, che se ne stava immobile come un pezzo di legno, diventò nera come la pece. Dopo un anno, un mese e un giorno, la colomba ridiventa uomo, e il giovane scende dalla montagna e va alla casina. Come vede la ragazza così nera: “Ppuh! Quanto ti sei fatta brutta! - dice, e ci sputa in faccia! - Ma non tieni vergogna a ridurti così per un uomo?” E la scaccia via.
Povera ragazza, si sentì morire! Corse via per la campagna, scoppiando in un pianto dirotto. Mentre piangeva, passano tre Fate:
“Che hai?”
“E che devo avere? E così, così e così...” E raccontò la sua disgrazia.
“Non ti preoccupare - dicono - ché non resterai così per sempre”
E la più grande delle tre Fate le passa la mano sulla faccia e la ragazza diventa bella, più bella del Sole. E anche le altre le fecero un regalo, chi una cosa, chi l'altra; e se la portarono con loro. Cammina cammina, e dove capitarono? Nella città di cui era Re quel giovane. Appena arrivate, in un batter d'occhio, innalzarono un palazzo cento volte meglio di quello del Re. Le Fate si finsero le serve, e lei, la padrona, a dare ordini, proprio come una vera Imperatrice. Dopo un paio di giorni, capita che il Re passa di là e vede la meraviglia di 'sto gran palazzo: si credeva di sognare. E, ad un balcone, vede seduta una bella ragazza, e, appena la vede, cominciò ad adocchiarla. E le Fate le dissero:
”Se il Re ti rivolge la parola, tu dagli corda”.



Von Blaas E.


E, infatti, così accadde: spizza oggi, adocchia domani, il Re le chiese se poteva farle visita, e la ragazza, istruita dalle Fate, gli rifilò un no tondo tondo come una palla.
“Reuccio, se tanto volete una visita, dovete fare un passaggio dal mio balcone al vostro, e il camminamento deve essere coperto da due palmi di petali di rosa senza spine.”
Neanche aveva finito di parlare che il Re ordinò che venisse costruito un passaggio dal suo balcone a quello di 'sta grande Imperatrice, e che fosse ricoperto da due palmi di petali di rose. E allora, avreste dovuto vedere: centinaia di donne intente a cogliere rose, e a staccare petali di rose e a nettarli dalle spine, uno spettacolo mai visto! Arrivato il momento, le Fate dissero alla ragazza:
”Vestiti da grande Imperatrice, e noi ti faremo da Dame di Corte. Incamminati per il passaggio, arrivata a metà strada, fingi che hai sentito la puntura di una spina e lascia fare a noialtre, ma fallo sembrare naturale!”
La ragazza s'incammina, con un vestito rosa che al mondo non se n'era mai visto uno uguale, adorna di collane, braccialetti e pietre preziose, e, arrivata a metà strada:
“Muoio! - grida – Mi punse una spina!”
Le Fate la presero e se la riportarono a palazzo, svenuta.
Il Re, che l'aspettava all'altro capo del passaggio, e che voleva correre ad aiutarla, non poteva, perché lei così aveva ordinato, e si mordeva le mani! La gamba si gonfiò; un viavai di medici a consulto... l'Imperatrice si ridusse in fin di vita e le vennero somministrati i Sacramenti. E il Reuccio che non poteva andare a trovarla! Dopo quaranta giorni, la malattia fece il suo corso, ci fu una migliorìa, l'Imperatrice si riprese, incominciò a guarire, e, infine guarì del tutto. Passò un po' di tempo, e di nuovo il Re insistette per avere il permesso di vederla. E le Fate le dissero:
“Digli che sarai tu a fargli visita, e che vuoi uno strato di gelsomini alto tre palmi sul camminamento, ma, a metà strada, fingi che t'ha punto un'altra spina!”
E il Re, subito, fece ricoprire interamente il camminamento di gelsomini. Quando fu tutto pronto, la ragazza prese ad avanzare lentamente, vestita da Imperatrice. Il Re, dall'altro lato del passaggio, non le staccava gli occhi di dosso e gli tremava il cuore che non l'avesse a pungere un'altra spina!



Von Blaas E.


E, a metà strada:
”Ahi! Son morta! Una spina mi trafisse il piede!”
Le Dame se la prendono in braccio, svenuta, e la riportano a palazzo. Vi potete immaginare il Reuccio! Si mordeva le mani e si strappava i capelli! Cominciò a mandarle un servitore dopo l'altro, perché vederla non poteva vederla, salire da lei neanche, attraversare il passaggio manco, e sbatteva la testa contro il muro! Dopo tre o quattro settimane, il poveretto, per il gran dispiacere, s'allettò, ma continuò a mandarle i suoi servitori con l'ambasciata che gli permettessero di vedere l'Imperatrice, anche se era ammalato.
“Ma, alla fine - ci disse un giorno la ragazza ai servitori - che vuole da me il vostro Re, dopo che m'ha ridotto in fin di vita?”
E uno rispose: ”Vi vuole in moglie”
“E allora ditegli che, se mi vuole per moglie, si deve fingere morto, sdraiarsi sul catafalco e farsi trasportare sotto il mio palazzo. Allora, me lo piglierò per marito.”
Il Reuccio, che per lei avrebbe fatto i salti mortali, in fretta e furia, fa allestire il catafalco parato di nero, ci si sdraia sopra fingendosi morto e si fa trasportare fino al suo palazzo. Quando la ragazza sentì la marcia funebre e lo vide sfilare sotto il suo balcone:
” Ppuh! - gli disse – guarda come ti sei ridotto per una donna!”
E gli sputò in faccia!
Al Reuccio salirono le vampe in faccia, riconoscendo la ragazza che l'aveva liberato e che lui aveva ripagato con lo stesso disprezzo. Non appena il catafalco ritornò a palazzo reale, le mandò dei mèssi, dicendo che voleva parlarle. Ma le Fate, che la difendevano sempre a spada tratta, gli mandarono a dire: ”Nossignore! La grazia di incontrare la nostra padrona, non l'avrà. Ma che si credeva il vostro Reuccio quando le ha sputato in faccia? Che aveva a che fare con una sgualdrina qualsiasi? Che? Non lo sapeva che è figlia di Re? E, dopo averle rovinato la vita, che sbattesse pure la testa contro il muro, tanto la nostra Imperatrice non ne vuole sapere di lui!”
Lo sapete come stava andando a finire per il Reuccio? Che per la pena ci stava lasciando la vita! Finalmente, le Fate, quando vollero loro, gli diedero il permesso di salire. Il Reuccio, allora, salì. Non appena la ragazza entrò, le chiese perdono, e fu tutto.
Venne subito aperta la Cappella Reale e furono celebrate le nozze. Il Reuccio avrebbe voluto che le Fate restassero con loro, ma esse domandarono bellissima licenza e sparirono. La Reginotta mandò a chiamare il padre e la madre e si tennero gran feste per tutto il Regno.

E loro restarono felici e contenti 
E noi qui, a stuzzicarci i denti


[1] Pittinissa, s. f. di pettini, ed è quel pettine lungo che è mezzo a denti radi per istrigare i capelli, e mezzo a denti fitti per nettarli e lisciarli.

[2] 'Ntrizzaturi, s. m. sing., nastro o laccio con cui le donne avvolgono e annodano le trecce de' lor capelli, intrecciatura.

Pitrè n.101 (CI, da "Fiabe, Novelle e Racconti Popolari Siciliani")

Traduzione: Mab's Copyright.

Il testo in Siciliano è nella Pagina: "Fiabe Popolari - Italia"