sabato 31 gennaio 2015

Cenerentola, Collodi Traduce Perrault

'era una volta un gentiluomo, il quale aveva sposata in seconde nozze una donna così piena di albagia e d'arroganza, da non darsi l'eguale. Ella aveva due figlie dello stesso carattere del suo, e che la somigliavano come due gocce d'acqua. Anche il marito aveva una figlia, ma di una dolcezza e di una bontà da non farsene un'idea; e in questo tirava dalla sua mamma, la quale era stata la più buona donna del mondo. Le nozze erano appena fatte, che la matrigna dette subito a divedere la sua cattiveria. Ella non poteva patire le buone qualità della giovinetta, perché, a quel confronto, le sue figliuole diventavano più antipatiche che mai. Ella la destinò alle faccende più triviali della casa: era lei che rigovernava in cucina, lei che spazzava le scale e rifaceva le camere della signora e delle signorine; lei che dormiva a tetto, proprio in un granaio, sopra una cattiva materassa di paglia, mentre le sorelle stavano in camere coll'impiantito di legno, dov'erano letti d'ultimo gusto, e specchi da potervisi mirare dalla testa fino ai piedi.
La povera figliuola tollerava ogni cosa con pazienza, e non aveva cuore di rammaricarsene con suo padre, il quale l'avrebbe sgridata, perché era un uomo che si faceva menare per il naso in tutto e per tutto dalla moglie.
Quando aveva finito le sue faccende, andava a rincantucciarsi in un angolo del focolare, dove si metteva a sedere nella cenere; motivo per cui la chiamavano comunemente la Culincenere. Ma la seconda delle sorelle, che non era così sboccata come la maggiore, la chiamava Cenerentola.





Eppure Cenerentola, con tutti i suoi cenci, era cento volte più bella delle sue sorelle, quantunque fossero vestite in ghingheri e da grandi signore.
Ora accadde che il figlio del Re diede una festa da ballo, alla quale furono invitate tutte le persone di grand'importanza e anche le nostre due signorine furono del numero, perché erano di quelle che facevano grande spicco in paese. Eccole tutte contente e tutte affaccendate a scegliersi gli abiti e le pettinature che tornassero loro meglio a viso. E questa fu un'altra seccatura per la povera Cenerentola, perché toccava a lei a stirare le sottane e a dare l'amido ai manichini. Non si parlava d'altro in casa che del come si sarebbero vestite in quella sera.
"Io", disse la maggiore, "mi metterò il vestito di velluto rosso e le mie trine d'Inghilterra."
"E io", disse l'altra, "non avrò che il mio solito vestito: ma, in compenso, mi metterò il mantello a fiori d'oro e la mia collana di diamanti, che non è dicerto di quelle che si vedono tutti i giorni."
Mandarono a chiamare la pettinatora di gala, per farsi fare i riccioli su due righe, e comprarono dei nèi dalla fabbricante più in voga della città.





Quindi chiamarono Cenerentola perché dicesse il suo parere, come quella che aveva moltissimo gusto; e Cenerentola die' loro i migliori consigli, e per giunta si offrì di vestirle: la qual cosa fu accettata senza bisogno di dirla due volte.
Mentre le vestiva e le pettinava, esse dicevano:
"Di', Cenerentola, avresti caro di venire al ballo?..." .
"Ah, signorine! voi mi canzonate: questi non son divertimenti per me! "
"Hai ragione: ci sarebbe proprio da ridere, a vedere una Cenerentola, pari tua, a una festa da ballo."
Un'altra ragazza, nel posto di Cenerentola, avrebbe fatto di tutto per vestirle male; ma essa era una buonissima figliuola, e le vestì e le accomodò come meglio non si poteva fare. Per la gran contentezza di questa festa, stettero quasi due giorni senza ricordarsi di mangiare: strapparono più di dodici aghetti per serrarsi ai fianchi e far la vita striminzita; e passavano tutt'intera la santa giornata a guardarsi nello specchio.
Venne finalmente il giorno sospirato. Partirono di casa e Cenerentola le accompagnò cogli occhi più lontano che poté: quando non le scorse più, si mise a piangere.
La sua Comare, che la trovò cogli occhi rossi e pieni di pianto, le domandò che cosa avesse.
"Vorrei... vorrei..." E piangeva così forte, che non poteva finir la parola.
La Comare, che era una fata, le disse:
"Vorresti anche tu andare al ballo, non è vero?".
"Anch'io, sì" disse Cenerentola con un gran sospirone.
"Ebbene: prometti tu d'essere buona?", disse la Comare.
"Allora ti ci farò andare."
E menatala in camera, le disse: "Vai nel giardino e portami un cetriolo". Cenerentola scappò subito a cogliere il più bello che poté trovare e lo portò alla Comare, non sapendo figurarsi alle mille miglia come mai questo cetriolo l'avrebbe fatta andare alla festa di ballo.
La Comare lo vuotò per bene, e rimasta la buccia sola, ci batté sopra colla bacchetta fatata, e in un attimo il cetriolo si mutò in una bella carrozza tutta dorata.





Dopo, andò a guardare nella trappola, dove trovò sei sorci, tutti vivi.
Ella disse a Cenerentola di tenere alzato un pochino lo sportello della trappola, e a ciascun sorcio che usciva fuori, gli dava un colpo di bacchetta, e il sorcio diventava subito un bel cavallo: e così messe insieme un magnifico tiro a sei, con tutti i cavalli di un bel pelame grigio-topo-rosato.
E siccome essa non sapeva di che pasta fabbricare un cocchiere: "Aspettate un poco" disse Cenerentola "voglio andare a vedere se per caso nella topaiola ci fosse un topo; che così ne faremo un cocchiere".
"Brava!" disse la Comare "va' un po' a vedere."
Cenerentola ritornò colla topaiola, dove c'erano tre grossi topi.
La fata, fra i tre, scelse quello che aveva la barba più lunga; il quale, appena l'ebbe toccato, diventò un bel pezzo di cocchiere, e con certi baffi, i più belli che si fossero mai veduti.
Fatto questo, le disse: "Ora vai nel giardino: e dietro l'annaffiatoio troverai sei lucertole. Portamele qui."
Appena l'ebbe portate, la Comare le convertì in sei lacchè, i quali salirono subito dietro la carrozza, colle loro livree gallonate, e vi si tenevano attaccati, come se in vita loro non avessero fatto altro mestiere.
Allora la fata disse a Cenerentola:
"Eccoti qui tutto l'occorrente per andare al ballo: sei contenta?".
"Sì, ma che ci devo andare in questo modo, e con questi vestitacci che ho addosso?"
La fata non fece altro che toccarla colla sua bacchetta, e i suoi poveri panni si cambiarono in vestiti di broccato d'oro e di argento, e tutti tempestati di pietre preziose: quindi le diede un paio di scarpine di vetro, che erano una meraviglia. Quand'ella ebbe finito di accomodarsi, montò in carrozza: ma la Comare le raccomandò sopra ogni altra cosa di non far più tardi della mezzanotte, ammonendola che se ella si fosse trattenuta al ballo un minuto di più, la sua carrozza sarebbe ridiventata un cetriolo, i suoi cavalli dei sorci, i suoi lacchè delle lucertole, i suoi vestiti avrebbero ripreso la forma e l'aspetto cencioso di prima.
Ella dette alla Comare la sua parola d'onore che sarebbe venuta via dal ballo avanti la mezzanotte. E partì, che non entrava più nella pelle dalla gran contentezza.





Il figlio del Re, essendogli stato annunziato l'arrivo di una Principessa, che nessuno sapeva chi fosse, corse incontro a riceverla, e offrì la mano per iscendere di carrozza, e la condusse nella sala dov'erano gl'invitati. Si fece allora un gran silenzio: le danze rimasero interrotte, i violini smessero di suonare, tutti gli occhi erano rivolti a contemplare le grandi bellezze della sconosciuta. Non si sentiva altro che un bisbiglio confuso, e un dire sottovoce: "Oh! com'è bella!...".
Lo stesso Re, per quanto vecchio, non rifiniva dal guardarla, e andava dicendo sottovoce alla Regina, che da molti anni non gli era più capitato di vedere una donna tanto bella e tanto graziosa. Tutte le dame avevano gli occhi addosso a lei, per esaminarne la pettinatura e i vestiti, e farsene fare degli uguali per il giorno dopo, sempre che fosse stato possibile trovare delle stoffe così belle e delle modiste così valenti. Il figlio del Re la collocò nel posto d'onore: quindi andò a prenderla per farla ballare. Ella ballò con tanta grazia, da far crescere in tutti lo stupore. Fu servito un magnifico rinfresco, che il giovine Principe non assaggiò nemmeno, tanto era assorto nel rimirare la bella sconosciuta.




Ella andò a porsi accanto alle sue sorelle: usò loro mille finezze: e fece parte ad esse delle arance e dei cedri, che il Principe le aveva regalato; la qual cosa le meravigliò moltissimo, perché esse non la riconobbero né punto né poco.
In quella che stavano discorrendo insieme, Cenerentola sentì battere le undici e tre quarti; e fatta subito una gran riverenza a tutta la società, scappò via come il vento. Appena arrivata a casa, corse a trovare la Comare, e dopo averla ringraziata, le disse che avrebbe avuto un gran piacere di tornare anche alla festa del giorno dipoi, perché il figlio del Re l'aveva pregata molto.
Mentre stava raccontando alla Comare tutti i particolari della festa, le due sorelle bussarono alla porta: Cenerentola andò loro ad aprire.
"Quanto siete state a tornare!" disse ella stropicciandosi gli occhi e stirandosi come se si fosse svegliata in quel momento. E sì, che ella non aveva avuto davvero una gran voglia di dormire, dacché s'erano lasciate.
"Se tu fossi stata al ballo", le disse una delle sue sorelle "non ti saresti annoiata: vi è capitato la più bella Principessa, ma di' pure la più bella che si possa vedere al mondo: essa ci ha fatto mille garbatezze, e ci ha regalato dei cedri e delle arance."
Cenerentola non capiva più in sé dalla gioia. Ella domandò loro il nome di questa Principessa; ma quelle risposero che non la conoscevano, e che il figlio del Re si struggeva della voglia di sapere chi fosse, e che per saperlo avrebbe dato qualunque cosa.
Cenerentola sorrise, e disse loro:
"Dev'esser bella davvero! Dio mio! come siete felici voi altre! Che cosa pagherei di poterla vedere! Via, signora Giulietta, prestatemi il vostro vestito giallo, quello di tutti i giorni...".
"Giusto, lo dicevo anch'io!" rispose Giulietta. "Prestare il mio vestito a una brutta Cenerentola come te. Bisognerebbe proprio dire che avessi perso il giudizio." Questa risposta Cenerentola se l'aspettava: e ne fu contentissima; perché si sarebbe trovata in un grande impiccio, se la sua sorella le avesse prestato il vestito. La sera dopo le due sorelle tornarono al ballo: e Cenerentola pure; ma vestita anche più sfarzosamente della prima volta.




Il figlio del Re non la lasciò un minuto; e in tutta la serata non fece altro che dirle un monte di cose appassionate e galanti. La giovinetta, che non s'annoiava punto, si era dimenticata le raccomandazioni fatte dalla Comare; tant'è vero che sentì battere il primo tocco della mezzanotte, e credeva che non fossero ancora le undici. S'alzò e fuggì con tanta leggerezza, che pareva una cervia. Il Principe le corse dietro, ma non poté raggiungerla. Nel fuggire, ella lasciò cascare una delle sue scarpine di vetro, che il Principe raccattò con grandissimo amore. Cenerentola arrivò a casa tutta scalmanata, senza carrozza, senza lacchè e con addosso il vestito di tutti i giorni, non essendole rimasto nulla delle sue magnificenze, all'infuori di una delle sue scarpine, la compagna di quella che aveva perduta per la strada.





Fu domandato ai guardaportoni del palazzo, se per caso avessero veduto uscire una Principessa; ma essi risposero che non avevano veduto uscir nessuno, tranne una ragazza mal vestita e che dall'aspetto pareva piuttosto una contadina che una signora. Quando le sorelle ritornarono dal ballo, Cenerentola chiese loro se si erano divertite e se c'era stata anche la bella signora. Esse risposero di si, e che era scappata via allo scocco della mezzanotte, e con tanta furia, che s'era lasciata cascare una delle sue scarpine di vetro, la più bella scarpina del mondo: e che il figlio del Re l'aveva raccattata, e non aveva fatto altro che guardarla tutto il tempo del ballo, e che questo voleva dire che egli era innamorato morto della bella signora, alla quale apparteneva la scarpina.
E dicevano la verità: perché di lì a pochi giorni il figlio del Re fece bandire a suon di tromba che sposerebbe colei, il cui piede avesse calzato bene quella scarpina.
Si cominciò a provare la scarpa alle Principesse: poi alle Duchesse e a tutte le dame di corte: ma era tempo perso. Fu portata a casa delle due sorelle, le quali fecero ogni sforzo possibile per far entrare il piede in quella scarpa: ma non ci fu modo. Cenerentola, che stava a guardarle e che aveva riconosciuta la scarpina, disse loro: "Voglio vedere anch'io se mi va bene!".
Le sorelle si misero a ridere e a canzonarla. Il gentiluomo incaricato di far la prova della scarpa, avendo posato gli occhi addosso a Cenerentola e parendogli molto bella, disse che era giustissimo, e che egli aveva l'ordine di provar la scarpa a tutte le fanciulle.





Fece sedere Cenerentola, e avvicinando la scarpa al suo piedino, vide che c'entrava senz'ombra di fatica e che calzava proprio come un guanto. Lo stupore delle due sorelle fu grande, ma crebbe del doppio, quando Cenerentola cavò fuori di tasca l'altra scarpina e se la infilò in quell'altro piede. In codesto punto arrivò la Comare, la quale, dato un colpo di bacchetta ai vestiti di Cenerentola, li fece diventare assai più sfarzosi, che non fossero stati mai. Allora le due sorelle riconobbero in essa la bella signora veduta al ballo; e si gettarono ai suoi piedi per chiederle perdono dei mali trattamenti che le avevano fatto patire. Cenerentola le fece alzare, e disse, abbracciandole, che perdonava loro di cuore, e che le pregava ad amarla sempre e dimolto.
Vestita com'era, fu condotta dal Principe, al quale parve più bella di tutte le altre volte, e dopo pochi giorni la sposò.
Cenerentola, buona figliuola quanto bella, fece dare un quartiere alle sue sorelle, e le maritò il giorno stesso a due gentiluomini della corte.

Questo racconto, invece di una morale, ne ha due.
Prima morale: la bellezza, per le donne in ispecie, è un gran tesoro; ma c'è un tesoro che vale anche di più, ed è la grazia, la modestia e le buone maniere. Con queste doti Cenerentola arrivò a diventar Regina.
Altra morale: grazia, spirito, coraggio, modestia, nobiltà di sangue, buon senso, tutte bellissime cose; ma che giovano questi doni della Provvidenza, se non si trova un compare o una comare, oppure, come si dice oggi, un buon diavolo che ci porti? 
Senza l'aiuto della Comare, che cosa avrebb'ella fatto quella buona e brava figliuola di Cenerentola?

E' indubbia la grazia della traduzione, gli stessi strafalcioni dovuti all'impronta toscaneggiante evitano il pericolo dell'affettazione evocando il fantasma di un'anziana cameriera che, nell'oscurità di una grande cucina, racconta un mondo di crinoline, trine d'Inghilterra e "nèi di bellezza"; e, questa volta, Collodi non ha tradito il senso della morale conclusiva di "Cendrillon ou la Petite Pantoufle de Verre", di C. Perrault.  Le illustrazioni sono di Edmund Dulac.

Moralité 
La beauté, pour le sexe, est un rare tresor; 
De l’admirer jamais on ne se lasse; 
Mais ce qu’on nomme bonne grace 
Est sans prix, et vaut mieux encor. 
C’est ce qu’à Cendrillon fit avoir sa marraine, 
En la dressant, en l’instruisant, 
Tant et si bien qu’elle en fit une reine: 
Car ainsi sur ce conte on va moralisant. 
Belles, ce don vaut mieux que d’etre bien coëffées: 
Pour engager un cœur, pour en venir à bout, 
La bonne grace est le vrai don des fées; 
Sans elle on ne peut rien, avec elle on peut tout. 

Autre Moralité 
C’est sans doute un grand avantage 
D’avoir de l’esprit, du courage, 
De la naissance, du bon sens, 
Et d’autres semblables talents 
Qu’on reçoit du Ciel en partage; 
Mais vous aurez beau les avoir, 
Pour vostre avancement ce seront choses vaines 
Si vous n’avez, pour les faire valoir, 
Ou des parrains, ou des marraines.

giovedì 29 gennaio 2015

La Trota Bianca, una Leggenda di Cong - Yeats


Queste storie di trote sono diffuse in tutta l'Irlanda. Molti pozzi sacri sono infestati da tali trote benedette. C'è una trota in un pozzo ai margini di Lough Gill, nello Sligo, che una volta qualche rinnegato mise sulla graticola. Ne porta ancora i segni. Ce la mise, molto tempo fa, il santo che consacrò il pozzo. Oggi possono vederla solo le anime pie che hanno fatto la giusta penitenza.
[Nota al Testo]


Alan Lee



'era una volta, tanto tempo fa, una bella dama che viveva in un castello sul lago laggiù, e si racconta fosse promessa al figlio del re, e che stessero per maritarsi quando improvvisamente lui venne ucciso, poverino (che Dio ci aiuti) e gettato nel lago di cui ho detto; e così, naturalmente, non gli fu possibile mantenere la promessa fatta alla bella dama - ma che disdetta. A quel che si dice la dama uscì di senno, per aver perduto il figlio del re - aveva il cuore tenero, che Dio aiuti lei e anche noi! - e si struggeva per la sua scomparsa, finché un giorno nessuno la vide più, nel bene e nel male; e allora si disse che i folletti se l'eran portata via. Beh, signor mio, passato un po' di tempo, comparve nel ruscello laggiù la Trota Bianca, che Dio la benedica, e la gente non sapeva proprio cosa pensarne, visto che di una trota bianca nessuno aveva mai sentito parlare prima d'allora, e neanche dopo; passarono gli anni, e la trota era sempre lì, proprio dove l'avete vista in questo istante benedetto, da un tempo ben più lungo di quanto io possa dire - in verità così indietro non arriva nemmeno la memoria del più vecchio del villaggio. Alla fine la gente cominciò a pensare che doveva trattarsi di una creatura fatata; e cos'altro poteva essere? - e nessuno mai fece mai del male alla trota bianca, fino a che non arrivò da queste parti una soldataglia malvagia e peccatrice, che rideva di tutta la gente di qui, la scherniva e la prendeva in giro perché credeva in cose del genere; e uno in particolare (che la sfortuna lo perseguiti; Dio mi perdoni per averlo detto!) giurò che avrebbe catturato la trota e se la sarebbe mangiata a cena - lo sciagurato! Beh, potete immaginare dove arrivò la malvagità del soldato? Acchiappa la trota, se la porta a casa, mette sul fuoco una padella e ci schiaffa dentro la povera bestiola.
La trota emise un urlo che pareva in tutto e per tutto quello di un cristiano, e, caro mio, lo crederesti? Il soldato si piegò in due dalle risate - perché era un furfante incallito - e quando pensò che da una parte fosse cotta, la girò per friggerla dall'altra; ma, che tu ci creda o no, non si vedeva nemmeno una traccia di bruciatura; allora il soldato si convinse che quella doveva essere una trota balzana, che non si lasciava arrostire.
"Ma - dice - la rigirerò ogni tanto", certo senza immaginare, lo sciagurato, quello che si preparava per lui. Quando pensò che quel lato fosse cotto la girò di nuovo e, sentite questa, quella parte non era cotta neanche un po' più dell'altra. "Maledetta la mia sfortuna - dice il soldato - questo è troppo! Ma con te non ho finito, bella mia - dice - per quanto tu ti creda furba", e con questo la rivolta: ma sulla bella trota il fuoco non aveva lasciato proprio alcuna traccia.
"Beh", fa il malandrino impenitente (che certo, signore, se non lo fosse stato fino in fondo avrebbe potuto capire che non stava facendo una cosa giusta, vedendo che tutti i suoi tentativi non portavano a nulla). "Beh - dice - cara la mia trotina, magari sei fritta a sufficienza, anche se all'esterno non sembri ben guarnita; forse sei meglio di quel che sembri, come un gatto scorticato, e dopo tutto chissà che tu non sia un bocconcino prelibato", dice lui; e così dicendo prende coltello e forchetta per assaggiare un pezzo di trota; ma, cribbio, nel momento in cui ficca il coltello nel pesce, ci fu un urlo terrificante, che la vita vi abbandonerebbe al solo sentirlo, e la trota salta fuori dalla padella nel mezzo del pavimento; e nel punto in cui era caduta ecco vien su una bella dama - la creatura più bella che mai si sia vista, vestita di bianco, e con una fascia d'oro nei capelli, e un rivolo di sangue che le corre giù per il braccio.
"Guarda dove mi hai ferita, sciagurato - dice lei, protendendo il braccio nella sua direzione, e quello, caro mio, credette di perdere la vista - Non potevi lasciarmi nel fiume, dov'era fresco e confortevole, invece di disturbarmi mentre ero intenta alla mia missione?", dice lei.
Beh, lui tremava come un cane in un sacco bagnato, e alla fine biascicò qualcosa, pregando che gli venisse risparmiata la vita, e chiese perdono a sua Signoria, e disse che non sapeva che fosse intenta a una missione altrimenti, da quel bravo soldato che era, non si sarebbe mai immischiato nelle sue faccende.
"Io ero in missione, proprio - dice la dama - stavo aspettando il mio vero amore, che sta arrivando da me nell'acqua - dice lei - e se arriva mentre non ci sono, e non riusciamo a incontrarci, ti trasformerò in un salmoncino, e ti darò la caccia ovunque e per sempre, finché l'erba crescerà e l'acqua continuerà a scorrere." Beh, il soldato si sentì proprio morire, all'idea di essere trasformato in un salmoncino, e implorò perdono; e allora la dama dice:
"Lascia le tue cattive abitudini - dice - disgraziato, o sarà troppo tardi per pentirsi; comportati come un brav'uomo, d'ora in poi, e fa' il tuo dovere, e ora - dice lei - riportami indietro e rimettimi nel fiume dove m'hai trovata".
"Oh, mia signora - dice il soldato - Dove mai potrei trovare il coraggio di annegare una signora così bella?".


Rackham A.



Ma prima che potesse dire un'altra parola, la dama era scomparsa, e per terra di fronte a lui vide la piccola trota. Beh, la mette in un piatto pulito e corre via con le ali ai piedi, per paura che il suo amore potesse arrivare mentre lei non c'era; e corse e corse fino a che giunse di nuovo all'anfratto, e gettò la trota nel fiume. Nell'istante preciso in cui lo fece, l'acqua per un poco divenne rossa come il sangue, per via della ferìta, credo, fino a che la corrente non lavò via la macchia; e ancor oggi c'è una macchiolina rossa sul fianco delle trote, nel punto in cui quella era stata ferita.
Beh, signore, da allora in poi il soldato fu un altro uomo, e cambiò abitudini, e andò a confessarsi regolarmente, e fece astinenza tre volte a settimana - però non mangiò mai pesce, nei giorni in cui faceva astinenza, perché dopo la paura che aveva avuto non sarebbe mai riuscito a digerirlo - con rispetto parlando. Ma in ogni caso, era cambiato completamente, come ho già detto, e nel giro di un po' di tempo lasciò l'esercito, e alla fine divenne un eremita; e dicono che pregava sempre per l'anima della Trota Bianca.


Stegg A.

"Fiabe Irlandesi", W.B. Yeats

Mi prende immancabilmente una malinconia mortale quando leggo e rileggo queste leggende (spesso una sorta di parabole eziologiche) abitate da "dame" sfortunate, incalliti peccatori agnostici, conversioni penitenziali, e santi monaci che hanno allegramente spodestato le Druide, tradizionali guardiane dei pozzi.
Le Dée dei fiumi donavano cavalli prodigiosi agli Eroi e ricevevano in offerta mucche bianche come il latte, e salmoni vengono invocati ed evocati da Amergin, poeta supremo e quindi "mago", nel momento in cui i Figli di Mil, ovvero gli Uomini, invadono Erin segnando il destino degli Déi e il proprio: 
"Io, vento del mare / Io, onda dell'oceano / Io, fragore dei marosi / Io, cervo dalle sette corna / Io, falco sulla roccia / Io, raggio del sole / Io, l'albero più bello / Io, cinghiale valoroso / Io, salmone nell'acqua / Io, lago nella piana / Io, collina della saggezza / Io, parola dei poeti / Io, sgominante lancia della vittoria / Io, divinità che modella il fuoco nelle menti / Chi altro interpreta le grandi pietre sulla montagna? / Chi conosce le fasi della luna? / Chi sa dove tramonta il sole? / Chi trae i tesori dalle dimore di Tetra? / Per chi sorridono i tesori di Tetra?"
E in trote e salmoni si trasformano gli antichi eroi. Tuan mac Cairill, unico sopravvissuto degli antichissimi invasori di Partholón, si trasforma, nei secoli, in cervo, in cinghiale, in falco, e, infine, in un salmone. Dopo cento anni viene pescato e cucinato per la Regina dell'Ulaid, che lo partorisce nuovamente in sembianze umane perché tramandi ciò che non può essere scritto.
Il "salmone della conoscenza" benedice l'Epifania di Deimne, beffando l'interminabile ed inutile attesa del suo mèntore, il Druido Finnegas, e Deimne fu Find, figlio di Cumhall, padre del "cerbiatto" e futuro poeta Oisin, (che una traduzione sbagliata trasformerà in Ossian), e  Capo delle Fianna.
[Ricordate la fiaba dei bambini gemelli, che, spinti dalla gola, mangiano il cuore ed il fegato dell'uccello cucinato per l'avvertito ospite? O il "linguaggio degli animali", in cui il protagonista, come Finn, si limita a leccarsi il dito con cui ha toccato il pesce/uccello? Tutti usurpatori involontari di poteri non destinati a chi li aveva a lungo cercati]

Mab

martedì 20 gennaio 2015

Occhietto, Dueocchietti, Treocchietti, Grimm n.130, (Traduzione Mia)

'era una volta una donna che aveva tre figlie: la maggiore si chiamava Occhietto perché aveva un occhio solo, proprio in mezzo alla fronte, la secondogenita si chiamava Duocchietti perché aveva due occhi come tutti, e la minore, Treocchietti perché aveva tre occhi - il terzo in mezzo alla fronte come la maggiore.
Ma, poiché Duocchietti era proprio come tutti gli altri, la madre e le sorelle non la potevano soffrire.
"Tu, con quei due occhi, non sei migliore di tutti quanti gli altri! Non sei una di noi".
E non facevano che malmenarla, la relegavano in un angolo a spintoni, le gettavano vecchi stracci per coprirsi, e le davano i loro avanzi da mangiare. In breve, non le risparmiavano nessun tormento.
Ora, avvenne che, un giorno, Dueocchietti, mentre era in giro per i campi a pascolare la capra, era così oppressa dalla fame - le sorelle le avevano dato poco e niente da mangiare - che scoppiò in un pianto dirotto. Si sedette in mezzo all'erba e pianse, pianse tanto che sulle guance le scorrevano due ruscelletti. Quando, nel suo dolore, levò lo sguardo al cielo, vide una donna che le chiese:
"Perché piangi, Duocchietti?".
Ella rispose:
"Non dovrei piangere? Io? Io che ho solo due occhi come tutti e mia madre e le mie sorelle mi odiano per questo, e mi spingono in un cantuccio, e mi danno i loro vecchi stracci e mi lasciano le briciole per sfamarmi? Oggi non ho mangiato quasi nulla e muoio di fame".
La donna, che conosceva molte cose, le disse:
"Duocchietti, asciugati gli occhi, e ascoltami. Tu non soffrirai più la fame, ti basterà dire alla capra: Bela, bela, capretta, e apparecchiami la cenetta!, e ti troverai davanti una bella tavolina linda, ricoperta delle più squisite pietanze, e potrai mangiare finché vorrai. E, quando sarai sazia, e non avrai più bisogno della tavolina, ti basterà dire: Bela, bela, capretta, porta via la cenetta!, e la tavolina sparirà".


Annie Stegg


E, subito, la donna saggia sparì. Rimasta sola, Duocchietti pensò: 'Voglio scoprire subito se è tutto vero, perché muoio di fame!", e disse: Bela, bela, capretta, e apparecchiami la cenetta!. Aveva appena pronunciato queste parole che le comparve davanti una bella tavolina ricoperta da una tovaglia candida, su cui erano ben disposti piatti e posate d'argento, e c'erano magnifiche portate, ancòra calde e fumanti come se fossero appena uscite dalla cucina. Allora, Duocchietti recitò la preghiera più corta che conosceva: Signore, sii sempre con me, amen!, si servì, e mangiò di gusto. E, quando fu sazia, disse, come le aveva insegnato la donna: Bela, bela, capretta, porta via la cenetta! - e la tavolina sparì con tutto quel che c'era.
'Questo sì che è un bel modo di rigovernare!', pensò Duocchietti, ed era tutta allegra e felice.
Quella sera, tornata a casa con la capretta, trovò una scodellina di terracotta con un po' di cibo che le sorelle le avevano lasciato, ma non la toccò. Il giorno dopo, condusse di nuovo la capra al pascolo, e, di nuovo, non toccò i tozzi di pane raffermo messi da parte per lei. Le prime due volte la madre e le sorelle non ci badarono affatto, ma, poiché divenne un'abitudine, lo notarono e si dissero:
"Qui, gatta ci cova! Dueocchietti ha sempre divorato i nostri avanzi, e, adesso, non li tocca neanche: deve aver trovato un modo per procurarsi il cibo altrove".
Per scoprire la verità, decisero che Occhietto l'avrebbe accompagnata a pascolare la capretta, e, una volta nei campi, l'avrebbe spiata per vedere se qualcuno le portava di che sfamarsi.
Quando, l'indomani, Duocchietti si avviò con la capretta, Occhietto le si affiancò dicendo: "Vengo con te, voglio vedere se custodisci bene la capra e se la fai pascolare dove l'erba è migliore".
Ma Dueocchietti, che aveva capito ciò che aveva in mente, condusse la capra nell'erba alta, e disse alla sorella maggiore:
"Vieni, Occhietto, siediamoci qua, e io ti canterò una canzone".
Occhietto si sedette ed era esausta per il lungo cammino a cui non era avvezza e per il gran caldo, e Duocchietti cantilenava senza sosta: "Occhietto, vegli? Occhietto, dormi?" tanto che Occhietto chiuse il suo unico occhio e si addormentò. Non appena Dueocchietti vide che Occhietto era caduta in un profondissimo sonno e non avrebbe potuto scoprirla, disse: Bela, bela, capretta, e apparecchiami la cenetta!- quindi si sedette, mangiò e bevve fino a che non fu sazia, poi disse: Bela, bela, capretta, porta via la cenetta! - e la tavolina sparì. Poi svegliò Occhietto e le disse:
"Occhietto, sei venuta per pascolare la capretta e dormi? Nel frattempo, la capra avrebbe potuto scappare in capo al mondo! Andiamo, torniamocene a casa". Così, se ne tornarono a casa, e, anche stavolta, Duocchietti lasciò il piatto degli avanzi intatto. Occhietto non fu in grado di rivelare alla madre perché la sorella non toccasse cibo, e, per giustificarsi, disse: "Mi è venuto sonno!".
Il giorno dopo, la madre disse a Treocchietti: "Questa volta, accompagnerai tu Dueocchietti, e scoprirai se mangia mentre è fuori, poiché è certo che si sfama di nascosto!".
Allora Treocchietti affiancò la sorella, dicendo: "Vengo con te, voglio vedere se custodisci bene la capra e se la fai pascolare dove l'erba è migliore".
Ma Dueocchietti, che aveva capito ciò che aveva in mente, condusse la capra nell'erba alta, e disse alla sorella minore:
"Sediamoci qua, e io canterò per te, Treocchietti".
E Treocchietti si sedette, stanca per il lungo cammino e il gran caldo, e Dueocchietti intonò la solita cantilena: "Treocchietti, vegli?", ma, invece di dire:"Treocchietti, dormi?", sbadatamente, cantò:"Dueocchietti, dormi?", così a Treocchietti si chiusero due occhi, ma il terzo, non nominato nella cantilena, rimase aperto e sveglio. Però Treocchietti lo socchiuse, fingendo di dormire anche con quello, e, invece, poteva vedere tutto. Quando Duocchietti pensò che la sorella fosse immersa in un sonno profondo, recitò la formuletta magica: Bela, bela, capretta, e apparecchiami la cenetta!, e, una volta che ebbe mangiato e bevuto a sazietà, comandò che la tavolina sparisse: Bela, bela, capretta, porta via la cenetta!
Ma Treocchietti aveva visto ogni cosa. Duocchietti le si avvicinò e disse: "Dormi, Treocchietti? Sei una brava guardiana, davvero! Vieni, torniamocene a casa".
E, una volta a casa, Duocchietti non toccò il piatto con gli avanzi, ma Treocchietti disse alla madre: "Adesso so perché la nobildonna non mangia! Quando è fuori, dice alla capra: Bela, bela, capretta, e apparecchiami la cenetta!, e le compare davanti una tavolina ricoperta di cibi deliziosi - niente a che vedere con ciò che mettiamo in tavola noi - e, quando è sazia, dice: Bela, bela, capretta, porta via la cenetta!, e la tavolina scompare. Ho visto tutto molto bene poiché mi aveva addormentato due occhi con una sorta di cantilena, ma, per fortuna, quello sulla fronte è rimasto sveglio".
Allora la madre invidiosa, gridò: "Dunque, vorresti banchettare alla faccia nostra? Ti farò passare la voglia!"
Andò a prendere un coltellaccio da beccaio e lo piantò nel cuore della capretta, che cadde a terra morta. A quella vista, Duocchietti, sconvolta, uscì di casa e si sedette nell'erba, sul bordo del campo, e versò lacrime amare. Ma, nuovamente, le apparve la donna saggia, che disse:
"Duocchietti, perché piangi?"
"Non dovrei piangere?- rispose la fanciulla - mia madre ha scannato la capretta che ogni giorno mi dava tanto buon cibo quando recitavo le parole che mi avete insegnato. Adesso, mi toccherà patire nuovamente la fame!"
La donna disse: "Duocchietti, voglio darti un consiglio: prega le tue sorelle di darti le interiora della capra e sotterrale nel terreno davanti alla porta di casa. Sarà la tua fortuna!".
Poi scomparve e Duocchietti andò a casa e disse alle sorelle:
"Care sorelle, datemi qualcosa della mia capra! Non chiedo qualche parte pregiata: mi accontento delle interiora".
Le sorelle scoppiarono a ridere e le dissero: "Se non vuoi altro, eccole!".
Dueocchietti prese le interiora e, quella notte, le sotterrò di nascosto nel terreno davanti alla porta di casa, come le aveva consigliato la donna saggia.
E, il mattino dopo, quando si svegliarono e si affacciarono alla porta, videro un albero prodigioso. Era splendido: aveva una chioma di foglie d'argento, e, in mezzo alle foglie d'argento, pendevano dei frutti d'oro, e in tutto il vasto mondo mai si era vista cosa più bella e preziosa.
Le donne, poi, non si capacitavano come il magnifico albero avesse potuto crescere davanti a casa loro nel giro di una notte, ma Duocchietti capì che doveva esser nato dalle interiora della capretta, poiché s'innalzava giusto nel punto dove le aveva sotterrate.
La madre disse a Occhietto: "Sali sull'albero, bambina mia, e raccogli qualche frutto per noi".
Occhietto salì sull'albero, ma, non appena arrivava a sfiorare una delle mele d'oro, il ramo le sfuggiva di mano, e così accadde ad ogni tentativo e per quanti sforzi facesse.
Allora la madre disse: "Treocchietti, sali tu sull'albero: con i tuoi tre occhi ci vedi meglio di Occhietto".
Occhietto scese dall'albero, e vi salì Treocchietti, ma non fu più fortunata, nonostante i  suoi tre occhi, e le mele d'oro continuarono a sottrarsi alla sua mano. Infine, la madre perse la pazienza e s'arrampicò ella stessa, ma non raccolse più frutti delle figlie, e le sue dita non facevano che acchiappare l'aria. Allora Duocchietti disse: "Voglio provarci io, magari mi andrà meglio!".
Le sorelle esclamarono: "Che pensi di fare con i tuoi due occhi?!"
Ma Duocchietti salì sull'albero e le mele, questa volta, non si ritirarono, anzi, le cadevano in mano, tanto che ne portò giù una grembialata.
La madre le strappò i frutti, e, invece di trattare la povera Duocchietti un po' meglio, poiché era riuscita là dove le sorelle avevano fallito, le tre donne, invidiose, divennero ancor più crudeli con lei.


Alexandra Nedzvetskaya


Un giorno, mentre le sorelle erano tutt'e tre sotto l'albero, accadde che passò di lì un cavaliere.
"Sbrigati, Duocchietti - esclamarono le due sorelle - corri a nasconderti, non vogliamo doverci vergognare di te!", e spinsero la poverina sotto una botte rovesciata, che si trovava vicino all'albero, e le rovesciarono sopra anche le mele d'oro ch'ella aveva colto. Quando il cavaliere le raggiunse, si rivelò essere un bel giovane; egli ammirò il magnifico albero d'oro e d'argento e disse alle due sorelle:
"A chi appartiene questo bell'albero? Chi ne spiccasse un ramo e me ne facesse dono potrebbe chiedermi qualsiasi ricompensa".
Occhietto e Treocchietti affermarono che l'albero apparteneva a loro, e che gliene avrebbero regalato un ramo, ma si affannarono invano poiché, ad ogni loro sforzo, i rami e i frutti si ritraevano.
E il cavaliere esclamò: "E' ben strano che non riusciate a spiccare un ramo, se, come dite, l'albero vi appartiene!"
Quelle insistettero dicendo che l'albero era proprio loro, ma, indispettita perché non dicevano la verità, Duocchietti spinse fuori dalla botte un paio di mele d'oro, che rotolarono fino ai piedi del cavaliere.
Quando vide le mele, il cavaliere rimase sbalordito e domandò da dove venissero. Occhietto e Treocchietti risposero che avevano un'altra sorella, ma che non aveva il permesso di mostrarsi perché aveva soltanto due occhi come chiunque altro. Il cavaliere, tuttavia, desiderava vederla e gridò: "Duocchietti, vieni fuori!", e Duocchietti, tutta racconsolata, uscì dalla botte, e il cavaliere si stupì della sua grande bellezza e disse: "Tu certamente sarai in grado di spiccare un ramo dell'albero per me".
"Sì - rispose la fanciulla - io potrò farlo perché‚ in verità, l'albero appartiene a me".
Salì sull'albero, e, senza alcuno sforzo, spiccò un ramo con le sue foglie d'argento e i frutti d'oro e lo porse al cavaliere.
Allora egli disse: "Duocchietti, cosa desideri in cambio?"
"Ahimè, - rispose la fanciulla - patisco fame, sete e ogni sorta di sofferenza da mattino a sera. Se voleste portarmi via con voi e liberarmi, ne sarei felice".
Il cavaliere la mise sul suo cavallo e la portò al castello di suo padre, dove ella ebbe belle vesti e da mangiare e da bere a sazietà; il cavaliere, che se ne era perdutamente innamorato, la sposò, e la cerimonia venne celebrata tra grandi festeggiamenti.
Quando Duocchietti fu portata via dal bel cavaliere, le sue sorelle le invidiarono di tutto cuore la sua buona sorte.
'Tuttavia, abbiamo ancòra l'albero meraviglioso - pensavano - e, anche se non possiamo coglierne i frutti, tutti si fermeranno a guardarlo, e verranno fin qui per ammirarlo: chi lo sa, magari il destino ha in serbo qualcosa di bello anche per noi!'
Ma il mattino dopo, l'albero era sparito e, con esso, anche le loro speranze. Invece, Duocchietti, affacciandosi alla finestra della sua camera, si accorse, con immensa gioia, che l'albero meraviglioso l'aveva seguita fino alla sua nuova dimora.
Duocchietti visse a lungo e felicemente. Un giorno, bussarono alla porta del castello due mendicanti, e chiesero l'elemosina. Ella le guardò bene in volto e riconobbe le sue sorelle Occhietto e Treocchietti, che erano precipitate in un tale stato di indigenza da esser costrette ad elemosinare un tozzo di pane di porta in porta.
Duocchietti le accolse, fu gentile con loro e se ne prese cura, tanto che le due sorelle si pentirono sinceramente di tutto il male che le avevano fatto in gioventù.


Alexandra Nedzvetskaya


Grimm n.130, "Einäuglein, Zweiäuglein und Dreiäuglein".
Classificazione AaTh 511 [One-Eye, Two-Eyes, Three-Eyes]
Traduzione: Mab's Copyright

Il testo in lingua originale è nella Pagina: "Brüder Grimm"

giovedì 15 gennaio 2015

Il Cervo Meraviglioso (Lotaringia)

na volta un fabbricante di scope viveva con la moglie e due figlie in una capanna nei pressi del bosco. Pur essendo molto poveri, i due coniugi vivevano onestamente. Ogni giorno si recavano nel bosco a cercare le ginestre e i rami secchi che occorrevano loro per costruire le scope. Un giorno però la moglie si ammalò e morì, lasciando da solo il marito con le due piccole figlie, che si chiamavano Magretl e Annele. Non potendo portare le bambine con sé nel bosco e non volendo nemmeno lasciarle sempre sole, l'uomo decise di risposarsi, ma la nuova moglie, ben lungi dall'essere una buona madre, elaborò un crudele progetto per liberarsi della piccola Annele, che non era buona a nulla e le sembrava solo di impiccio. Magretl invece poteva esserle utile perché l'aiutava nei lavori domestici, nel fare le scope, nel badare alle capre. Per questo iniziò a manifestare una netta preferenza per Magretl, e a trattare male Annele. Cercò di convincere Magretl che sarebbe stato molto meglio se la sorellina non fosse proprio esistita, e che le loro condizioni sarebbero migliorate se non avessero avuto da nutrirla e vestirla. E poi tutti i soldi che ora spendevano per i vestiti di Annele, li avrebbero potuti spendere per farne di più belli a Magretl. Magretl, che era una bimba superba, cadde facilmente nel tranello preparato dalla matrigna. Così entrambe cominciarono a cercare un sistema per sbarazzarsi di Annele.
Pensarono di recarsi in mezzo al bosco con la scusa di raccogliere funghi e bacche e far provvista di legna per l'inverno, e qui giunte abbandonare Annele e fuggire. In questo modo non le avrebbero fatto del male e si sarebbero liberate di lei senza incorrere nell'ira del padre. Annele però si trovava proprio davanti alla porta della stube (Soggiorno caratteristico delle abitazioni tirolesi) quando udì questi discorsi e scoprì così il piano ordito dalla matrigna e dalla sorella. Si chiedeva che cosa avrebbe fatto una volta sola nel bosco; aveva anche udito che vi si aggiravano branchi di lupi, e ne aveva una gran paura.
Pensò allora di correre dalla sua madrina, che era sorella della sua vera mamma e che sicuramente l'avrebbe aiutata. Non appena Annele le ebbe raccontato tutto, costei le disse:
"Su, non piangere più cara; ora ti do un sacchettino di segatura e domani, quando andrete nel bosco, senza farti vedere spargerai dietro di te la segatura, in modo da poter poi ritrovare la strada".
La bimba fece come le aveva consigliato la madrina. Il mattino seguente, dopo aver camminato per un tratto nel bosco, le tre donne si fermarono su una roccia coperta di muschio, mangiarono il loro pane e colsero qualche bacca.
A un certo punto la matrigna, rivolgendosi a Magretl, disse:
"Ho un tale fastidio in testa! Spidocchiami un po' mentre Annele ci precede giù per la discesa a raccogliere la legna".
Pur sapendo che si trattava di una scusa per farla allontanare Annele ubbidì e andò in cerca di rami secchi, continuando però a spargere dietro di sé la segatura. Raccolse la legna e quando vide che le altre non la raggiungevano, tornò alla roccia dov'erano sedute poco prima; la matrigna e Magretl non c'erano già più come la bimba supponeva. Allora Annele continuò a seguire la striscia di segatura e giunse felicemente a casa. Gettò il fascio di legna sotto la tettoia ed entrò in cucina. Quando la matrigna la vide corse in camera e disse a bassa voce: "Magretl, Annele è riuscita a tornare. Domani dobbiamo ritornare nel bosco, e portarla ancora più lontano in modo che non ritrovi la strada".
Annele, che aveva origliato alla porta, si rivolse di nuovo alla sua madrina che le disse: "Vedo che quella donna malvagia non si dà pace, finché non si libera di te. Prendi questo sacchetto di farina d'avena e spargila dietro di te come hai fatto con la segatura e anche questa volta ritroverai la strada per tornare a casa". Annele rincasò e mentre tutti sedevano a tavola per la cena la matrigna disse: "Domani andiamo di nuovo a cercare funghi e quindi dobbiamo inoltrarci più di oggi nella foresta".
Annele sapeva già il vero significato di quelle parole, ma non aveva paura; prima di coricarsi si inginocchiò davanti al letto e nella sua preghiera serale chiese a Dio di proteggerla.
Il giorno seguente si recarono nuovamente nel bosco. La matrigna e Magretl procedevano, entrambe molto divertite. Annele le seguiva triste, chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi il loro odio. Quando furono nel bosco si sedettero ancora su una roccia e mangiarono il loro pane. Questa volta la matrigna disse:
"Mi sento mordere sulla gamba. Vieni Magretl, deve esserci una pulce nella mia calza: cerca di prendermela, tu che ci vedi bene e sei più svelta di me".
Magretl si inginocchiò per catturare la pulce della matrigna, e Annele fu spedita avanti con la solita scusa della legna. Anche questa volta Annele sparse dietro di sé la farina d'avena e così la sera giunse di nuovo a casa. Questa volta la matrigna si adirò moltissimo e disse a Magretl:
"Vorrei proprio sapere chi ha messo il suo zampino in questa vicenda. La prossima volta non deve tornare a casa in nessun modo, costi quel che costi". Udite queste parole Annele corse dalla sua madrina.
"Quella donnaccia! - disse la madrina - Stai tranquilla che ti aiuterò. Ora non ho però nient'altro che questo sacchettino di semi di canapa; prendilo e getta dietro di te i semi".
La madrina non si rese però conto di averle dato un cattivo consiglio. Il mattino seguente tornarono nel bosco; a mezzogiorno si sedettero sul tronco di un albero a mangiare il loro pane, Magretl ricominciò a spidocchiare la matrigna e Annele fu mandata più avanti. Al momento di far ritorno sui suoi passi, la bimba si accorse con terrore che gli uccellini stavano beccando gli ultimi semi di canapa rimasti. Non ritrovò quindi più la strada di casa e scoppiò a piangere Quando poi le ombre degli alberi cominciarono ad allungarsi e iniziò a calare la sera, Annele si mise a pregare; poi fu assalita dalla paura dei lupi, che sarebbero sopraggiunti nel corso della notte e, visto che era una bimba furba e sapeva arrampicarsi come uno scoiattolo, decise di salire su un albero per guardarsi intorno e vedere se nelle vicinanze non vi era per caso un maso o un paese. Così si accorse che in lontananza, nel mezzo del bosco, si levava un sottile filo di fumo. Si precipitò allora verso quel fumo e si trovò davanti a un'alta roccia incavata, chiusa con una parete di rami secchi, dove si poteva scorgere una piccola porta.




La bimba abbassò la maniglia e dall'interno una voce domandò: "Chi è?"
Ella rispose: "Sono Annele", e chiese ospitalità per la notte.
La voce disse: "Puoi entrare solo se mi prometti che rimarrai tutta la vita con me, che non lascerai mai entrare nessuno in questa casa e che non mi tradirai mai". La bimba promise tutto, perché voleva trovare un rifugio prima che calasse la notte. Fu fatta entrare, e invece di un uomo vide un cervo dietro alla stufa. Annele si spaventò e stava per scappare quando il cervo le si rivolse con una voce d'uomo, e con uno sguardo così dolce che le fece passare ogni paura. Sollevando le sue corna enormi disse:
"Non devi fare altro che mungermi ogni mattina prima dell'alba e ogni sera prima del tramonto. Potrai bere il mio latte e se non farai entrare nessuno, nemmeno la tua sorella di sangue, io ti procurerò tutti i vestiti di velluto e seta che vorrai. Se tu però mi tradisci la nostra fortuna terminerà".
Annele promise, si mise nel letto che si trovava nell'angolo e sprofondò nelle piume come in una nuvola.
All'indomani, come aveva promesso, il cervo le portò dei vestiti così belli che sembravano quelli di una principessa. Da quel momento i due vissero felici e contenti nella grotta e gli anni passavano come fossero giorni.
Nel frattempo Magretl era diventata più giudiziosa e spesso pensava alla sua povera sorella e a ciò che le aveva fatto. Un bel mattino, andando nel bosco a far legna, smarrì la strada tra le felci e i cespugli. Giunta allo stremo delle forze si fermò a riposare e pregò Dio di aiutarla, ora che si trovava nella stessa situazione di pericolo e paura nella quale anni prima aveva gettato la sorella.


Rackham A.



Quando si svegliò il sole era al tramonto; piangendo e pregando si arrampicò anche lei su un albero come aveva fatto Annele e scorse in lontananza una sottile striscia di fumo. Seguendo quel segnale giunse alla roccia e bussò ripetutamente alla porta senza ottenere risposta. Proseguì allora il suo cammino fino a una grossa quercia dal tronco incavato, che le offrì protezione per la notte.
Il mattino dopo si alzò e cercando la via del ritorno giunse nuovamente alla roccia. Essendo ancora stanca, affamata e impaurita, e non conoscendo la strada, cominciò di nuovo a bussare alla porta, pregando e implorando di farla entrare per pietà di Dio, che lei era solo una povera ragazza che si era smarrita nel bosco. Annele riconobbe la sorella dalla voce, ma ricordando la promessa fatta al cervo non aprì e disse:
"Non posso far entrare nessuno, anche se lo volessi; non posso aprire la porta nemmeno alla mia sorella di sangue, perciò andatevene pure, perché se io non ubbidissi accadrebbe una disgrazia".
La sorella cominciò allora a lamentarsi e piangere, in modo tale da impietosire anche i sassi. Annele, che era buona di animo, non riuscì a sopportare a lungo le lacrime e le preghiere della sorella maggiore, e alla fine le aprì la porta e la accolse. Magretl, trovandosi davanti la sorella, le chiese scusa per i dolori che le aveva causato. Accortasi dei magnifici abiti che la sorella minore indossava, le si sedette vicino sulla panca del focolare e cominciò a tempestarla di domande. Annele, per non tradire la sua promessa, inventò una serie di storie dicendo dapprima di abitare presso un orso, poi presso un lupo e infine, cedendo alle lusinghe della sorella che non le credeva, le raccontò tutto.
Dopo essersi tradita Annele divenne molto triste. Magretl, invidiosa della sorte toccata alla sorella, si fece indicare la strada del ritorno e una volta a casa raccontò tutto alla matrigna che le disse:
"Domani andremo nel bosco e cercheremo la grotta, poi prenderemo Annele con il suo cervo e i suoi vestiti. I bei vestiti ce li terremo per noi e il cervo lo faremo uccidere".
Quando quella sera il cervo tornò a casa, era molto triste, e senza dire nulla si mise dietro la stufa e fece finta di dormire. Annele non osava guardarlo per la vergogna e il pentimento. D'un tratto però gli chiese:
"Perché sei così silenzioso stasera, caro cervo?".
"Come farei a non tacere - rispose il cervo - quando tu hai parlato così tanto? Non hai seguito il mio ordine e ora è la fine! Tutto è perduto per entrambi. E pensare che tu avresti potuto liberarmi! Invece ora io devo morire e tu sarai costretta a far ritorno alla tua antica miseria. La tua matrigna verrà a prenderti assieme a tua sorella e io non potrò più aiutarti, perché mi uccideranno".
Annele pianse per tutta la notte, il dolore le spezzava il cuore. Il cervo non poté resistere a questa vista e la consolò dicendole:
"Io ora devo morire per te, ma questo fatto si muterà nella tua fortuna. Quando la tua matrigna mi avrà ucciso, fatti consegnare il mio cuore, le mie corna e il mio zoccolo posteriore sinistro. Poi sotterra il mio cuore, mettigli sopra le mie corna e per ultimo il mio zoccolo. Tre giorni dopo ritorna sulla mia tomba: vi troverai un albero di ciliegie rosso scure, che avranno la forma del mio cuore. Le ciliegie cresceranno d'estate e d'inverno, e nessuno, eccetto te, sarà in grado di coglierle. Queste ciliegie, nate dal mio cuore, ti faranno diventare la donna più ricca e più felice del paese".
Il giorno seguente la matrigna e la sorella giunsero alla grotta a prendere Annele, e condussero via anche il cervo, che le seguì senza opporre alcuna resistenza, poiché la matrigna era una strega cattiva e lo teneva in suo potere. Fece quindi uccidere l'animale da un cacciatore. Annele pianse con tutto il cuore la morte del suo amico, ma questa volta non si dimenticò di seguire i consigli che il cervo le aveva dato prima di morire. Si fece consegnare il cuore, le corna e lo zoccolo, e fece come le era stato detto.
Quando dopo tre giorni tornò sul posto trovò un albero di ciliegie a forma di cuore, così rosse e così grosse come non se ne erano mai viste da quelle parti.
Un giorno d'inverno, dopo un'abbondante nevicata, passarono davanti alla casa di Annele il duca di Lotaringia e suo figlio, di ritorno da un lungo viaggio. Erano stati infatti in pellegrinaggio in Terra Santa e il figlio aveva riportato in battaglia gravi ferite, provocate dal misterioso veleno con cui i pagani avevano cosparso le punte delle lance, e che nessuno era in grado di guarire. Quando il duca vide in mezzo alla neve quell'albero carico di ciliegie così grosse, pensò a un prodigio: forse quelle ciliegie miracolose avrebbero potuto guarire suo figlio! Nello stesso momento anche il giovane aprì gli occhi, vide le ciliegie e subito sembrò desiderarle. Il duca si avvicinò allora alla staccionata del giardino, chiamò a gran voce verso la casa e, senza farsi riconoscere, chiese alcune ciliegie. Magretl uscì e cercò di cogliere quei frutti, ma ogni volta che allungava la mano i rami si sollevavano e le ciliegie non si facevano cogliere. Allora provò la matrigna, ma nemmeno lei riuscì a raggiungere i rami che si erano allontanati. Il duca, meravigliato, chiese se in casa non c'era nessun altro. La matrigna e la figlia dissero di no ma in quel momento uscì di casa Annele, alla quale il duca ripeté la richiesta. Molto volentieri rispose la ragazza e si diresse verso l'albero. I rami si piegarono allora verso di lei e le ciliegie le caddero in mano.



Westerman J.


Il figlio del duca pensò che Annele fosse una santa mandata da Dio, mangiò le ciliegie e immediatamente guarì. Il vecchio duca era molto contento e disse: "Come ringraziamento diverrai la sposa di mio figlio".
Annele si rifiutò perché provava soggezione per quel nobile signore, lei che era solo una povera ragazza. Ma anche il giovane duca insistette: erano state le sue ciliegie a guarirlo e quindi lei doveva diventare sua moglie. Non avrebbe ceduto per nessuna ragione. Annele allora raccontò al duca tutta la sua storia e pianse per la misera sorte toccata al suo amico cervo. Il giovane duca le regalò un anello con un carbonchio sul quale era inciso lo stemma di Lotaringia, le rivelò di essere l'erede al trono, e che il padre era l'attuale regnante, e le disse che sarebbe diventata duchessa. Dopodiché l'accolse sulla sua carrozza. La matrigna divenne verde dall'invidia e dall'ira. Prima di andarsene Annele fece salire sulla carrozza anche il suo vecchio padre. Giunti al palazzo vennero celebrate le nozze più belle e sontuose che si fossero mai viste. Annele lasciò vivere suo padre con lei al castello in una bella stube ampia. Perdonò poi anche la sorella, mentre quella vecchia strega della sua crudele matrigna venne messa al rogo dal duca.
In seguito si ordinò che non venisse più ucciso un cervo in tutto il ducato di Lotaringia, e che si coltivassero le ciliegie a forma di cuore in tutta la regione. Ancora oggi in Lotaringia si possono trovare queste bellissime ciliegie.

Di Angelika Merkelbachpinck, dalla raccolta "Il Bosco. Miti leggende e fiabe", Mari-Kindl.

martedì 13 gennaio 2015

La Fanciulla della Green Forest, (Scozia)

iù di un palazzo giace sotto le onde che bagnano la terra dei Cimbri (Scozzesi) poiché il mare ha inghiottito villaggi e persino intere città.
Quando una Fata di Scozia cede ad un amante mortale e acconsente a divenire sua sposa, è sempre a patto che egli accetti qualche condizione o si impegni solennemente a mantenere una promessa.
A volte, prima di diventare le loro mogli, le Fate esigono dai proprii amanti mortali il solenne impegno di rispettare ben più di una condizione.
In effetti, le Fate scozzesi sono tra le più esigenti che sia dato sapere; un Principe di nome Benlli, della regione del Powys, lo scoprì con suo grande rammarico, poiché egli aveva sempre pensato che per ottenere una donna in moglie bastasse semplicemente chiedere. Tutto ciò che un uomo aveva bisogno di dire alla ragazza di cui si fosse invaghito era: "Vieni via con me e sii la mia sposa", e lei avrebbe risposto: "Sì, grazie. Accetto", e i due sarebbero andati via insieme. Questa era la conoscenza che il Principe aveva dell'argomento. Ora, Benlli era un cattivo soggetto: aveva già una moglie, ma fitte rughe avevano segnato il viso della sua donna, che si era fatto pallido e slavato, e i suoi bei capelli si stavano diradando. Non sarebbe tornata giovane mai più, e Benlli era stanco di lei, e voleva una compagna dalle guance rosee e fresche e dalla chioma lussureggiante. Era pronto ad innamorarsi di una siffatta giovane dovunque gli fosse capitato d'incontrarla.
Un giorno, si recò a caccia nella Green Forest. Mentre era in attesa di stanare un cinghiale, gli passò davanti una fanciulla a cavallo: era di una sfolgorante bellezza e Benlli si innamorò all'istante di lei.
Il giorno successivo, sempre a cavallo e nella stessa radura, la fanciulla riapparve, ma solo per un istante, e svanì.
Il terzo giorno, il Principe cavalcò fino al solito posto, ed ecco, la divina creatura era là. Benlli le si avvicinò e la supplicò di andare a vivere con lui nel suo Palazzo.
"Verrò con te e diventerò la tua legittima sposa a tre condizioni: devi cacciar via la tua attuale moglie, devi accettare ch'io mi allontani una notte ogni sette notti senza cercare di seguirmi o di spiarmi, e non devi mai chiedere dove vado o che faccio. Se non infrangerai queste tre promesse, la mia bellezza resterà inalterata, almeno finché corte canne non fluttueranno nella tua sala dei banchetti e non vi cresceranno lunghi verdi giunchi". Il Principe era prontissimo a prestare solenne giuramento, e s'impegnò ad osservare per sempre le tre condizioni. Così la Fanciulla della Green Forest andò a vivere con lui.



Wilfred Gabriel de Glehn


"Che ne è stato della vecchia moglie?", chiese qualcuno.
Ah, Benlli non aveva avuto alcun problema da quel lato! Infatti, quando era rientrato al Castello con la nuova sposa, sua moglie era già sparita.
Lieti, invero, erano i lunghi smaglianti giorni che il Principe e la sua nuova sposa trascorrevano insieme, nel Castello o fuori, passeggiando a cavallo oppure andando a caccia di cervi, e, ogni giorno, la giovane sembrava più bella e affascinante.
Lui la ricopriva di magnifici regali: una volta, le donò una collana di zaffiri e smeraldi, un'altra, un anello con un diamante che valeva il riscatto d'un Re. Nel Medio Evo, per comprare la libertà dei Sovrani così come dei Nobili catturati in battaglia, era necessario pagare cospicue somme di denaro: quindi proprio il riscatto di un Re valeva il grosso diamante che Benlli infilò al dito della sua sposa. E lui amava così appassionatamente la giovane moglie che mai avrebbe pensato di poter avere alcun problema a mantenere le tre promesse. Ma la mancanza di varietà toglie vivacità alla vita e la monotonia annichilisce lo spirito. Nove anni erano trascorsi, e, ogni venerdi notte, ella si allontanava dal Castello, e Benlli prese a chiedersi perché. E la curiosità di conoscere il motivo delle sue assenze si accrebbe a tal punto da logorarlo, e lo rese infelice nel suo intimo e irascibile verso gli altri.
Nel Castello, non sfuggì a nessuno il gran cambiamento del Signore e tutti ne erano profondamente turbati.
Una sera, egli invitò a cena un monaco sapiente, che viveva in un convento non lontano. Nella grande sala dei banchetti risplendente di luci, la tavola era riccamente imbandita e la musica era gaia. Ma Wyland il monaco, che conosceva la magia e i cui occhi vedevano oltre l'apparenza, si accorse che un cruccio segreto opprimeva il Principe, e che, in mezzo a tutta quella magnificenza, Benlli, il Signore del Castello, era in realtà l'essere più infelice che abitasse entro le sue mura. Così Wyland tornò al convento deciso a scoprire quale fosse il suo segreto, e, qualche giorno dopo, incontrando il Principe, lo salutò dicendo:"Dio ti salvi, Benlli! Quale pena segreta rannuvola la tua fronte? Perché sei così incupito?", e, immediatamente, il Principe proruppe nel racconto dell'incontro con la fanciulla nella Green Forest e di come ella fosse diventata sua moglie a patto ch'egli rispettasse tre condizioni. E, tra alti lamenti, aggiunse:
"Non appena si levano il grido della civetta e il canto dei grilli, mia moglie lascia il mio letto, e, finché non spunta la stella del mattino, giaccio solo, torturato dalla brama di sapere dove sia e cosa stia facendo. Poi, cado in un sonno profondo da cui non mi risveglio prima che il sole sia alto nel cielo, quando la ritrovo di nuovo al mio fianco. E' un tale mistero che questo segreto opprime la mia anima, e, a dispetto di tutte le mie ricchezze e del mio possente Castello, delle sere allietate da musiche e banchetti e delle giornate trascorse a cacciare, sono l'uomo più miserevole della terra dei Cimbri. Nessun mendicante è più disgraziato di me!"




 
John Everett Millais



Wyland il monaco lo ascoltò e i suoi occhi brillarono poiché gli era balenata l'idea che avrebbe potuto arricchire il convento, e decise di afferrare l'occasione al volo: avrebbe ricavato molto denaro risolvendo il mistero di quell'anima tormentata.
"Principe Benlli, se elargirai ai monaci di White Minster un decimo di tutte le greggi che pascolano nei tuoi possedimenti, e un decimo delle ricchezze che affluiscono nei forzieri del tuo Castello, e se mi consegnerai la Fanciulla della Green Forest, ti garantisco che ritroverai la pace e che le tue disgrazie avranno fine." A tutto ciò il principe Benlli acconsentì, impegnandosi con solenne promessa. Allora, Wyland il monaco prese il suo libro rilegato in pelle e chiuso da fermagli di metallo e si nascose nella fenditura di una roccia presso la caverna del Gigante, da cui si accedeva alla Terra delle Fate.
Non dovette attendere a lungo poiché, ben presto, ecco apparire nella luce argentea della luna una dama a cavallo, regalmente abbigliata e con una corona a cingerle la fronte: altri non era che la Fanciulla della Green Forest.
Egli s'avvicinò all'imboccatura della grotta, e, evocati gli spiriti dell'aria e della caverna, li informò che Benlli aveva fatto voto solenne di arricchire il monastero e di consegnargli la Fanciulla della Green Forest, e, quindi, con voce stentorea, esclamò:"Lasciate ch'ella rimanga per sempre al mio fianco con l'aspetto che ha adesso! Portàtela all'incrocio presso la cittadella di White Minster e giuro che la sposerò e la farò mia!". Quindi, con le sue arti magiche, egli rese impossibile per qualsivoglia essere o potere sciogliere o ostacolare l'effetto delle sue parole.



Konstantin Kalinovich


Lasciata l'imboccatura della grotta, si affrettò a raggiungere l'incrocio nei pressi di White Minster prima che spuntasse l'alba, ma s'imbattè in un'orrenda orchessa che sogghignava e roteava verso di lui gli occhi rossi e cisposi: sulla sua testa sembrava spuntasse muschio più che una capigliatura. Ella stese verso il monaco un lungo dito ossuto su cui brillava lo splendido diamante che il principe Benlli aveva donato alla sua sposa, la Fanciulla della Green Forest.
"Stringimi al tuo petto, monaco Wyland - gridò ridendo sgangheratamente e mettendo in mostra quelli che sembravano ceppi verdastri - poiché io sono colei che hai giurato di sposare. Trent'anni fa ero la fiorente sposa del principe Benlli, poi, la mia bellezza svanì, e, con essa, il suo amore. Adesso, sono una disgustosa orchessa, ma, una notte ogni sette notti, la magia mi restituisce la mia giovinezza. Gli promisi che la mia bellezza sarebbe rimasta inalterata finché corte canne non avessero fluttuato nella sala dei banchetti e non vi fossero cresciuti lunghi verdi giunchi."
Sconvolto dalle sue parole, Wyland trattenne il fiato.
"E quella promessa io l'ho mantenuta. Essa è già adempiuta. Il tuo incantesimo ed il mio si sono avverati. Il tuo gli ha dato la pace della morte. Il mio ha fatto esondare il fiume. Adesso, le sue acque sciabordano tra i giunchi e i canneti che crescono nella sala dei banchetti, completamente sommersa. Nessun incantesimo potrà mai annullare gli effetti dei nostri sortilegi uniti. E ora vieni e fa' di me la tua sposa poiché un sacrilego giuramento ed una formula magica mi hanno designato come tua ricompensa. E anche le promesse di Benlli sono adempiute giacché le acque affluiscono nei forzieri del Palazzo e vi pascolano i pesci".
Così, intrappolato nella propria oscura trama, il monaco fattosi stregone divenne la vittima del suo stesso inganno.
Si dice che i pescatori, nelle notti di bonaccia, riescano a scorgere attraverso l'acqua torri e camini, giù giù, in fondo, seppelliti negli abissi.



Gilbert A.Y.


William Elliot Griffis

Traduzione: Mab's Copyright

sabato 10 gennaio 2015

Snegurochka, ovvero La Fanciulla di Neve, Seconda Variante, la più Popolare ed Amata in Russia

negurochka [La Fanciulla di Neve] è la figlia della Primavera e di Morozco, [il futuro Ded Moroz, o Nonno Gelo].
La Primavera non vuole interrompere l'Inverno per non separarsi dalla figlia avuta da Morozco.


Sanderson R.


Per vendicarsi, Yorilo, il Sole, giura che, il giorno in cui Snegurochka si fosse innamorata, sarebbe morta. Per proteggerla, il padre le ha dato un cuore di ghiaccio, duro come un diamante, e la fanciulla vive in una dimora di neve, gli animali selvatici come guardiani. Sempre più insofferente della sua segregazione, la quindicenne Snegurochka chiede di vivere nel mondo, e i genitori la affidano al contadino Bobyl-Bakula e a sua moglie, che abitano in un piccolo villaggio nei pressi della città dello Zar Berendey con la figlia Kupava, coetanea di Snegurochka.











Snegurochka, un giorno, ode il canto struggente del pastore Lel e ne è attratta, ma il pastore si allontana con il gruppo delle altre fanciulle del villaggio. Frattanto, viene annunciato il matrimonio tra Kupava e Mizgir, ma il giovane, non appena vede Snegurochka, se ne innamora perdutamente. Kupava lamenta l'affronto subìto davanti agli anziani del villaggio, che le consigliano di chiedere giustizia allo Zar Berendey, nella vicina città. Proprio mentre lo Zar, udita la perorazione di Kupava, sta deliberando di confinare Mizgir nella foresta, compare la bellissima Fanciulla di Neve.
Lo Zar le chiede:"Tu, chi ami?", e Snegurochka risponde:"Io non amo nessuno".
Lo Zar Berendey proclama che il giovane che corteggerà con successo Snegurochka otterrà la mano della fanciulla e una ricompensa regale. Le ragazze del villaggio sono convinte che il vincitore sarà il pastore Lel, ma Mizgir giura che sarà lui a conquistare il cuore di Snegurochka.





Quella sera, durante una festa, lo Zar chiede a Lel di scegliere una compagna tra le fanciulle presenti. Nonostante Snegurochka gli si offra, il pastore sceglie Kupava e si allontana con lei. La rifiutata Snegurochka viene raggiunta da Mizgir, che le dichiara nuovamente il suo amore, ma la Fanciulla di Neve, spaventata e confusa, fugge, mentre Mizgir, ingannato dallo Spirito della Foresta, insegue una falsa Snegurochka.
La Fanciulla di Neve, assistendo alla felicità di Kupava e del pastore Lel, per la prima volta, desidera di essere capace di amare, e supplica la Primavera sua madre di aiutarla. La madre accorre al suo richiamo, emerge dal lago, le dona una ghirlanda di fiori e la supplica di tenersi lontana dalla luce del Sole, poi, ritorna nel lago con la sua Corte. Prima che Snegurochka possa fuggire nella foresta, al riparo dal Sole, Mizgir la raggiunge, e la fanciulla non riesce più a trattenere l'amore che le si è acceso nel cuore per lui.
Seguendo la tradizione, le coppie di innamorati si presentano davanti al villaggio, e, il Sole come celebrante, si scambiano le promesse. Mizgir si dichiara a Snegurochka. Non appena la Fanciulla di Neve, a sua volta, gli dichiara il proprio amore, un brillante raggio di sole la colpisce e Snegurochka si scioglie in una nebbiolina che si dissolve nel lago. Il dono della capacità di amare è anche la sua fine. Disperato, Mizgir la segue, annegandosi nel lago.
Il saggio Berendey calma il popolo sconvolto: il lungo inverno che da quindici anni [l'età di Snegurochka] non allentava la sua gelida morsa, ha lasciato il posto a Yorilo, il Sole, che splende trionfante, alto nel cielo. E il popolo adora il Sole intonando inni in suo onore.






A questa leggenda, perché tale è, più che una fiaba, si ispira - con grande fedeltà - l'opera di Rimsky-Korsakov, "Снегурочка-Весенняя сказка".
E sulle musiche di Rimsky-Korsakov si snodano le immagini del bellissimo film di animazione sovietico, regia di Ivan Ivanov-Vano, del 1952, dal quale ho tratto la gif che ho inserito nel post.

Mab's Copyright