sabato 30 agosto 2014

Editoria e Opera Omnia: Chi se non Hoffmann?

E.T.A. Hoffmann:
 "Notturni", traduzione di Matteo Galli, Roma, L’Orma, 2013, "Le Omnie", n°1, 384 p.
"Gli elisir del diavolo", traduzione di Luca Crescenzi, Roma, L’Orma, 2013, “Le Omnie”, n°2, 400 p.

[...] E. T. A. Hoffmann, 31 titoli di cui, in realtà, una decina fuori commercio.
Alla fine degli anni ’60 del Novecento Einaudi aveva pubblicato tre volumi nei "Millenni", qualcosa poi era uscito sempre nei Tascabili Einaudi e in altre edizioni pocket, un’opera fondamentale nella storia del romanzo ottocentesco come le Considerazioni del Gatto Murr risulta oggi introvabile, la terza raccolta di Hoffmann, Die Serapionsbrüder (I Confratelli di San Serapione), smembrata e sparpagliata in tante diverse sillogi. Edizioni annotate: praticamente nessuna.
Eh sì, Hoffmann sembra proprio l’autore che fa al caso nostro. Perché ha scritto quasi esclusivamente prosa – romanzi, novelle, fiabe – che è e resta il genere che funziona meglio. Perché è forse il classico tedesco che presenta il più funzionante sistema di doppia codificazione in grado di soddisfare sia le esigenze del pubblico più raffinato, interessato alla complessa rete di relazioni intertestuali, intermediali e interdiscorsive, a profonde questioni esistenziali ed estetiche, sia le esigenze del pubblico interessato a plot ben costruiti, a certi ammiccamenti, alla – contiguità con la – letteratura di genere di allora e di oggi.

Chi, se non Hoffmann? E l’omnia va dunque a incominciare con due fra i testi che meglio esemplano questa doppia codificazione: i Notturni e Gli elisir del diavolo, una raccolta di novelle e un romanzo risalenti alla fase mediana della, in fondo, brevissima (dieci anni scarsi) parabola creativa di Hoffmann che nel 1809 con Il cavaliere Gluck approda alla scrittura tardi, a 32 anni, pubblica la sua prima raccolta nel 1813 a 37, e muore a 46 anni, in un’epoca – la Goethezeit – in cui, a partire da colui che al periodo ha dato il nome, si esordiva a poco più di 20, con opere che catapultavano gli scrittori immediatamente nell’Olimpo della fama: Goethe, Schiller, Tieck, Wackenroder, Friedrich Schlegel, Novalis, Hölderlin. E poi magari si moriva altrettanto presto, o si impazziva.

Matteo Galli

Dalla presentazione editoriale dei Notturni:
"Anticipatore del realismo borghese e del surrealismo, narratore scapigliato di avventure ottocentesche e analizzatore dell’inconscio, umorista trascendentale e sognatore delle fiabe, antesignano dell’angoscia moderna e della dissociazione della personalità, esponente dello slancio romantico e ironico superatore dei limiti ideologici del romanticismo. Lo sguardo nei piú cupi abissi dell’inconscio e la pura liberazione nella fiaba, il divertimento piú spassoso e un procedimento strutturale per ‘simboli’ di straordinaria attualità (Claudio Magris).
Otto racconti per esplorare le origini della follia e dell’ossessione contemporanea. Il lato oscuro dell’esistenza prende una forma classica ed esemplare in queste storie visionarie che hanno cambiato la sensibilità moderna e ispirato Freud e i surrealisti. Da L’uomo della sabbia al Maggiorasco, queste novelle aprono una dimensione irrevocabile e irrinunciabile di pensiero e di immaginazione che inaugura quella passione per l’inconscio da cui nasce tutta la letteratura fantastica."

Dalla presentazione editoriale degli Elisir:
"Hoffmann è il maestro senza rivali del perturbante nella letteratura. Il suo romanzo Gli elisir del diavolo contiene una gran mole di temi che si è tentati di riferire all’effetto perturbante nella narrativa, ma si tratta di un racconto troppo complesso e oscuro perché ci sentiamo di darne un riassunto. (Sigmund Freud).
Gli elisir del diavolo è il primo romanzo di E.T.A. Hoffmann, uscito per la prima volta nel 1815. Ispirato al romanzo di M.T. Lewis Il monaco, Gli elisir gode fin da subito di grande popolarità, esercitando impressione e infuenza, tra gli altri, su autori come Poe, Dostoevskij, Hugo, Maupassant e Baudelaire.
Heinrich Heine riferisce di uno studente di Lipsia impazzito dopo la lettura del libro, il cui contenuto a lungo fu ritenuto scandaloso. Oggi è considerato il romanzo capostipite del romanticismo nero che custodisce nel legame tra l’amore e le forze oscure il suo fascino a distanza di due secoli. Romanzo erotico e religioso assieme, Gli elisir del diavolo ripercorre il tortuoso cammino spirituale di tentazione e redenzione del frate Medardus, che al fne di recuperare le perdute capacità oratorie, beve da una misteriosa boccetta lasciata da Satana in tentazione a Sant’Antonio e fnisce preda di contraddittorie pulsioni. Inizia così la sua discesa agli inferi, accompagnata al desiderio violento per una donna che lo porta a inseguire una serie di avventure sempre più lontane dallo spirito e sempre più vicine al corpo, il suo e soprattutto quello degli altri."

Da: http://www.germanistica.net

venerdì 29 agosto 2014

Antidoti: Il Vaso d'Oro, E.T.A Hoffmann

Momento: "Ritorno ai Classici". E dico "ritorno" perché sono illogicamente, quasi etilicamente (astemia, io) ottimista. Ma sono stanca di rivisitazioni. Ri-visitazioni? E cosa è successo, cosa hanno imparato nel corso dell'approfondita prima visita? Che massacrare è bello? Dissacrare può essere molto bello, se declinato da un genio, il resto è fuffa.
Così propongo la ri-lettura delle opere di E.T.A. Hoffmann. La scrittura non è particolarmente ricercata, sofisticata, originale... Eppure, questa banalità formale si trasforma in un pregio perché esalta ciò che dovrebbe essere un valore assoluto, ovvero, i contenuti: le invenzioni, i lampi e le saette, la fantasia delirante, magicamente imbrigliata in una trama coerente. Chi non l'avesse mai letto potrebbe avere un'impressione di déjà vu. Succede... quando si viene saccheggiati da contemporanei e posteri.
Mi rendo conto, volendo limitarmi ad una sola scelta, che proprio non ci riesco.
Intanto: Il Vaso d'Oro. Poi, Il Piccolo Zacchéo detto Cinabro e L'Uomo della Sabbia (a cui si ispirò Charles Nuitter per il libretto del balletto "Coppelia").
Il Vaso d'Oro è suddiviso in veglie, non in capitoli. Su Internet abbondano i riassunti, non voglio pensare né, tanto meno, sapere a che scopo.
Ho riassunto all'osso i riassunti delle prime tre veglie, tanto per...

Prima veglia
Dresda, primi dell’Ottocento - (Prima edizione: 1813, quindi, piena contemporaneità).
E' il giorno dell'Ascensione. Anselmus, un giovane studente (imbranato) esce per partecipare ai festeggiamenti, ma inciampa nel cestino di un'orribile vecchia: tutte le sue mele ruzzolano giù per la via. Anselmus svuota il borsellino (destinato ai suddetti festeggiamenti), ma non evita insulti e maledizioni ("Finirai nel Cristallo!").
Ormai senza più un quattrino, lo studente si apparta ai piedi di un sambuco, in riva all'Elba. E' il tramonto. Anselmus vive una visione, un invito della Natura e dell'Amore. Il suono di una campanella di cristallo: tra i rami si affacciano tre serpi, una ha gli occhi azzurri e Anselmus se ne innamora immediatamente.

Seconda veglia
Preso per un reduce dai festeggiamenti, Anselmus, confuso e imbarazzato, si convince di aver sognato. Incontra il vicepreside Paulmann che passeggia lungo il fiume insieme  con sua figlia Veronica e con l’attuario Heerbrand. Accetta il loro invito e partecipa ad una gita in barca sull’Elba. Anselmus vede la serpe guizzare nell’acqua e tenta di raggiungerla, trattenuto dal barcaiolo. Anche questa volta, si convince d'aver sognato o di essere stato ingannato dai riflessi dei fuochi d'artificio sull'acqua.
A casa dei Paulmann, Veronica, che si è decisamente innamorata di Anselmus, canta per gli ospiti. La sua voce viene paragonata al suono argentino di  una campanella di cristallo. Anselmus dissente vigorosamente: lui l'ha sentita davvero una voce che risuona come una campanella di cristallo.
Convinto, come gli altri, che il giovane sia in preda a vaneggiamenti a causa della precarietà in cui vive, Heerbrand gli propone un lavoro come copista presso l’archiviarius Lindhorst, un personaggio eccentrico, legato al mondo della magia e dell'alchimia. Il mattino dopo Anselmus, puntuale e ben vestito, si reca dall’archiviarius. Ma il picchiotto della porta di casa si trasforma prima nell'orribile vecchia delle mele che gli ripete la formula della maledizione, e, quindi, in un serpente bianco che si attorciglia intorno ad Anselmus. Lo studente perde i sensi.

Terza veglia
In un Caffé, l’archiviarius Lindhorst racconta il mito dell'Amarillide e del principe Phosphorus il cui amore trionfa contro un Drago custode dei metalli della terra.
Afferma però, che si tratta della vera storia dei suoi antenati.
Nel Caffé ci sono anche il preside Paulmann e Anselmus. Paulmann ripropone la candidatura di Anselmus al posto di copista, e Lindhorst accetta di assumerlo, sembrandone, però, contrariato.

L'Uomo della Sabbia è nella raccolta "Racconti Notturni".




Se Il Vaso d'Oro non è nel catalogo Einaudi, ripiegare sugli Oscar Mondadori. Mai, Garzanti. ("Il Piccolo Zacchéo detto Cinabro" è in genere fra "e altri racconti", sia con Il Vaso d'Oro che con Gli Elisir del Diavolo).
L'ideale sarebbe l'opera completa di E.T.A. Hoffmann nella collana "I Millenni", Einaudi.



Se l'alternativa è Garzanti, meglio in Inglese.



Il Marito Cammello, Palestina

"Il Signore abbia del suo schiavo pietà: 
da ogni sventura lo salverà." 


'era una volta una povera donna. Non solo era povera, ma era anche sterile. Le estati e gli inverni, gli inverni e le estati andavano e venivano, e ancora la donna non concepiva. Le spose del suo anno passavano con un figlioletto in braccio da una parte, e una figlioletta in braccio dall'altra; lei sola restava senza figli. Quando andava alla fontana a prendere acqua con le altre donne e vedeva una cammella col suo piccolo appena nato sotto la curva delle cosce, la povera donna piangeva. Quella notte uscì dalla casa e stette ritta sotto il cielo stellato. Sollevò il suo velo dalla fronte e pregò Dio di concederle la benedizione di un figlio.
"Non importa che sia maschio o femmina, mi basta che sia un bambino. Bambino o bestiolina, purché sia un figlio mio da tenere in braccio - un cammellino neonato sarebbe maggior sollievo che non restare senza figli del tutto!". Il Misericordioso sentì la sua preghiera ed esaudì il suo desiderio: passarono i giorni e la donna si accorse di essere incinta. E quando i giusti mesi furono al termine, partorì - e ciò che diede alla luce era un piccolo cammello.
Le sue vicine alzarono le mani al cielo, incredule e sgomente. Ma la povera donna chiamò il piccino Jumail, o Piccolo Cammello, e lo amò con tutto l'amore di un cuore di madre. La mattina presto lo conduceva al pascolo e al cader della notte lo riportava nel cortile della sua casa.
Quando Jumail fu cresciuto, entrò nella stanza della madre e parlò:
"Madre, io voglio una moglie."
Senza por tempo in mezzo la donna andò in cerca di una moglie per suo figlio. Infine, trovò una fanciulla contadina, il cui padre si contentò di ricevere una sola moneta d'oro come dote nuziale. Fecero il bagno alla sposa e le pettinarono i capelli a sommo del capo, profumandoli con acqua di rose. Le misero una veste di velluto e la portarono alla casa di Jumail.
Ma il Piccolo Cammello rifiutò di guardarla.
"Voglio in sposa la figlia minore del Sultano" disse a sua madre.
La povera donna sapeva che la figlia minore del Sultano, la principessa Ward, era la più bella di tutte le sue figlie, e che suo padre la amava come la luce dei suoi occhi. "Come può una misera donna come me chiedere la mano della principessa Ward? - esclamò - Il Sultano mi taglierà la testa!"
Ma il suo amatissimo figlio Jumail continuava a ripetere: "Io voglio la figlia minore del Sultano in sposa!"
Può mai una madre rifiutare qualcosa al suo unico figlio? La donna inghiottì amaro, perché era veramente terrorizzata: tuttavia chiese udienza al Re. E fu condotta al suo cospetto.




"Dimmi ciò che desideri " comandò il Sultano, perché era magnanimo di cuore e cortese con tutti quelli che chiedevano il suo aiuto.
"Io sono venuta a chiedere la mano della principessa Ward per il mio unico figlio."
"E chi è tuo figlio?" chiese il Sovrano.
"L'ho chiamato Jumail - rispose la donna - perché è nato cammellino."
Il Sultano sorrise nella barba: ma non voleva far vergogna alla povera donna davanti a tutta la sua corte. Così disse:
"Nulla impedisce questa unione, se tuo figlio è in grado di pagare la dote nuziale per la principessa."
"E quanto è la dote?"
"Il suo peso in oro."
Tornata a casa, la donna cominciò a rimproverare il figlio.
"Ora tu non potrai più trovar moglie - gli disse - Hai rifiutato la giovane contadina e volevi la figlia del Sultano. Adesso fammi vedere come si può racimolare la dote nuziale per una principessa!"
" La troverò!- replicò Jumail - Torna al palazzo domattina e di' al Sultano così e così e così."
Il giorno dopo, i soldati riunirono tutti i cammellieri della città.
"Dio salvi la salute del nostro Sultano, ma ha smarrito il cervello, altrimenti non ci obbligherebbe a eseguire gli ordini di un animale" borbottavano.
Jumail, che era in attesa fuori dalle mura della città, li condusse fino a una collina coperta di grossi macigni. A una sua parola i macigni si mossero e comparve l'ingresso di una buia caverna. Dentro v'erano mucchi e mucchi d'oro e d'argento e vassoi colmi di pietre preziose, perle e coralli e gioielli senza prezzo. Gli uomini caricarono i loro animali e quando ebbero finito i macigni si chiusero dietro di loro come una muraglia. Il Sultano impallidì al vedersi davanti un mucchio d'oro e di tesori che valeva il peso non di una, ma di tutte le sue figlie. Come avrebbe potuto immaginare che il figlio di una povera donna, che per di più era un cammello, potesse portargli quello che aveva chiesto e anche di più? Ma aveva dato la sua parola, e non poteva ritirarla. Così mandò a chiamare il Cadì, e andò da sua figlia a spiegarle la sventura che gli era capitata. In principio la principessa pianse e gemette e pregò il padre di liberarla da quel guaio. Ma, infine, benché riluttante, si lasciò persuadere; e il messo reale fu mandato a sgomberare le strade col grido: "Tutti in casa! Vuotate le strade, o gente, perché stanotte la principessa Ward passerà di qui per andare alla casa del suo sposo."




Quando passò il corteo nuziale, sembrava il corteo di un funerale, e non di un matrimonio. Le donne sbirciando dalle persiane scuotevano la testa e mormoravano: "Lah! Lah! Che peccato e che vergogna che un Sultano dia sua figlia a un cammello, in cambio di oro e argento!"
La principessa Ward sedeva piegata nel dolore, aspettando Jumail. Quando alzò gli occhi, gettò un grido di spavento perché davanti a lei era ritto un giovane, e che giovane! Alto e bello, e con una grazia e un portamento!
"Non avere paura - egli disse - io sono tuo marito Jumail. Sono il figlio del Re dei Djinn, ma sono stato imprigionato nel corpo di un cammello. Ti farò visita ogni notte se prometti di non svelare il mio segreto. Ma se mancherai alla promessa io sparirò e non mi vedrai mai più."




Il dolore si cambiò in gioia. Quando il Sultano venne a salutare la sposa la mattina dopo, la trovò che sorrideva e non aveva nulla da desiderare.
"Tutto ciò che voglio è la tua prosperità, padre" disse.
Passa un giorno, passa l'altro, il re del Paese vicino marciò col suo esercito contro la città del Sultano. I suoi soldati erano alle porte della città e il loro enorme numero riempì di terrore i cittadini. Il Sultano si preparò alla guerra con il cuore pieno di cattivi presentimenti. Quando la principessa Ward parlò a Jumail del guaio capitato a suo padre, egli disse:
"Io combatterò nella battaglia di domani portando vesti bianche e cavalcando un cavallo bianco: ma non dire che sono io."
La mattina dopo i cittadini salirono sulle terrazze per vedere come andava la battaglia. Insieme alle donne c'erano la principessa Ward e le sue sorelle.
E una disse: " Guardate mio marito! Nessuno è più alto di lui."
Un'altra replicò: "Il coraggio di mio marito fa vergognare tutti quelli che si vantano e non sanno che dire 'Io qua e io là...' Perché vicino a lui non sono proprio niente."
In quel momento un cavaliere in vesti bianche e cavalcando una cavalla bianca si gettò nel più folto della mischia. Vibrando gran colpi di spada a destra e a sinistra, tagliava cinque teste a ogni colpo. I soldati del Sultano strinsero le file e dalla città vennero gli urli delle donne che gridavano di gioia.
"Dov'è il marito di Ward, ora che il Sultano ha bisogno di lui ?" fece beffarda una delle principesse. Le altre risero e dissero: "Non sapete che il marito di Ward è impastoiato nel cortile di casa sua e bruca l'erba che cresce tra le pietre?"
Per tutto il tempo che le sorelle additavano i loro mariti, Ward aveva tenuto la testa voltata dall'altra parte, per impedirsi di parlare. Ma il suo cuore era gonfio e, prima che potesse trattenerle, le parole irruppero dalla sua bocca da sole:
"Il valoroso cavaliere in vesti bianche che sta portando i nostri uomini alla vittoria non è altri che il mio caro sposo Jamail!"
Si battè la mano sulla bocca, ma era troppo tardi. Aveva detto ciò che non doveva dire. Per tutta quella notte, mentre la città festeggiava il Sultano, la principessa cercò il suo sposo Jamail. Era scomparso, e non riuscì a trovarlo in nessun posto. Mandò dei viaggiatori a cercarlo in tutti gli angoli conosciuti e sconosciuti del mondo - in città di bei palazzi e in rovine di pietre diroccate - ma percorsero i più lontani orizzonti senza trovarne traccia.
Costruì un bell'edificio per i bagni, un hammam, con vasche di marmo e piscine d'acqua fresca, e lo chiamò l'Hammam della Principessa Ward. Ogni donna poteva andare a farvi il bagno, a condizione che raccontasse una storia alla principessa. Vecchie e giovani, ricche e povere, tutte accorrevano all'hammam e narravano la loro storia. Ora, c'era una povera vecchia vedova che, non avendo denaro per pagarsi un bagno, non aveva mai bagnato il suo corpo nelle acque di un hammam. Infine, si fece coraggio e disse fra sé:
'Io non so nessuna storia da raccontare: ma andrò lo stesso all'Hammam della Principessa Ward. Forse per strada mi verrà in mente qualcosa.'
E chiamò il suo nipotino perché la accompagnasse. Mentre era a metà strada la luna tramontò e la donna si trovò in un buio nero come la pece. Così lei e il nipotino si arrampicarono sui rami di un ulivo, per passare la notte al sicuro. E mentre stavano là appollaiati, sentirono una gallina e un gallo che si posavano sull'albero. E il gallo cantò: "O pioggia, scroscia!" E la gallina cantò: "O vento, soffia!" E si alzò il vento ed infuriò un acquazzone.
Quando finì di piovere, la terra di fronte all'ulivo si spaccò. Quaranta schiavi negri ne uscirono, portando troni tempestati di gemme e tavole cariche di cibi squisiti. Poi quaranta colombe bianche scesero dal cielo e si bagnarono nelle pozze di acqua piovana. E si cambiarono in quaranta bellissime fanciulle, e ognuna si sedette a ciascuna delle tavole apparecchiate dagli schiavi.
Ma non appena una di esse stendeva la mano verso le vivande, una voce diceva:

"Indietro! Non toccare queste cose buone 
Finché non sono state assaggiate dal tuo padrone!" 

Infine apparve un giovane, più bello di quanto possano dire le parole. Sedette su morbidi cuscini di seta, sorseggiando il suo tè in mezzo al banchetto delle fanciulle. E tuttavia per tutto il tempo piangeva e le lacrime scorrevano lungo le sue guance. Prese una mela e la tagliò in quattro spicchi dicendo:

"Un pezzo lo getto a oriente, 
Un pezzo a occidente, 
Un pezzo è per me, 
per un banchetto giocondo, 
Un pezzo per la donna 
che amo di più al mondo." 

Dopodiché batté il suolo col piede e si aprì una larga fossa. E tutte le tavole e i troni e le vivande vi caddero e sparirono. Quando spuntò l'alba, la vecchia e il suo nipotino scesero dall'albero di ulivo e continuarono il loro cammino verso il palazzo. Qui trovarono la principessa Ward, che giaceva su sette materassi, coperta da sette coperte imbottite.
La vecchia disse:
"Mia Signora, a metà strada da qui la luna tramontò e mi lasciò al buio, e fui costretta ad arrampicarmi su un albero di ulivo per passare la notte al sicuro. E mentre ero rannicchiata fra i suoi rami un gallo e una gallina vi si posarono e dissero: 'O pioggia, scroscia! O vento, soffia!' E scoppiò un uragano e infuriava il vento e tempestava la pioggia. Poi finì di piovere, e la terra si aprì e quaranta schiavi imbandirono un banchetto con troni d'oro e tavole coperte di cibi squisiti. Quaranta colombe bianche scesero dal cielo e si bagnarono nelle pozze d'acqua piovana e si trasformarono in quaranta belle fanciulle. Ma nessuna poteva toccare un sol boccone di cibo, perché una voce le ammoniva:

'Indietro! Non toccare queste cose buone 
Finché non sono state assaggiate dal tuo padrone.

La principessa giaceva in silenzio, ascoltando.
Così la vecchia continuò:
"Infine comparve un giovane, alto come una canna da zucchero".
A questo punto la principessa gettò via col piede una delle coperte.
"Con grandi occhi molto distanti fra loro."
E qui la principessa gettò via una seconda coperta.
"E un portamento da principe."
E la principessa spinse indietro una terza coperta. E quando la vecchia ebbe descritto come il giovane tagliava la mela ed ebbe recitato i versetti:

Un pezzo lo getto a oriente, 
Un pezzo a occidente, 
Un pezzo è per me, 
per un banchetto giocondo, 
Un pezzo per la donna 
che amo di più al mondo"

la principessa aveva gettato via tutte e sette le coperte e si era alzata a sedere sui suoi sette materassi. E disse:
"Portami a quell'albero di ulivo di cui mi hai parlato."
La vecchia condusse la principessa all'albero su cui lei e il nipotino avevano passato la notte. Per sei notti la principessa vegliò fra i suoi rami senza veder nulla. Ma la settima notte vide un gallo e una gallina che accorrevano in gran fretta, dicendo:"O pioggia, scroscia! O vento, soffia!" e una tempesta di vento e pioggia si scatenò sulla campagna. Quando cessò, tutto si svolse come la vecchia le aveva raccontato. Le colombe bianche scesero dal cielo e si cambiarono in fanciulle, e al centro del banchetto ecco il suo sposo Jumail, sdraiato sui morbidi cuscini di seta, piangendo. Quand'egli battè il suolo col piede e si spalancò la fossa in cui tutto il banchetto scomparve, la principessa Ward seguì lo sposo sottoterra e gli gettò le braccia al collo e gli disse: "Torna dalla tua sposa, che è stata malata di dolore per te!"
E Jumail disse: "Tu mi hai seguito nel regno dei Djinn e hai varcato il confine fra il mondo di sopra e il mondo di sotto: tu hai aperto la via per il ritorno. Da oggi in poi io potrò vivere non come un cammello ma come uomo."

Felici li lasciammo e riprendemmo la nostra via. 
Possa esser altrettanto felice la vita vostra e la mia.




Da: "Favole del Mondo Arabo", a cura di a cura di Inea Bushnaq.
Variante (con alcune sostanziali differenze) della più affascinante Gomena, il Principe dei Djinn, siriana.
Illustrazioni di Edmund Dulac per il "Rubâiyât" di Omar Khayyám

lunedì 25 agosto 2014

Il Gigante Egoista, O.Wilde

gni pomeriggio, appena uscivano da scuola, i bambini avevano l'abitudine di andare a giocare nel giardino del Gigante. Era un bel giardino grande, con erba verde e soffice. Qua e là si drizzavano fiori belli come stelle, e c'erano dodici peschi che a primavera si aprivano in delicati fiori color di rosa e perla, e in autunno davano frutti succosi. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini interrompevano i loro giochi per ascoltarli.
"Come siamo felici qui!" si gridavano l'un l'altro.
Un giorno il Gigante tornò. Era stato a far visita al suo amico, l'orco della Cornovaglia, e si era trattenuto da lui per sette anni. Alla fine dei sette anni aveva detto tutto quanto aveva da dire, perché aveva una conversazione limitata, e decise di tornare al suo castello.



Quando arrivò vide i bambini che giocavano nel giardino.
"Che ci fate qui?" esclamò con voce molto burbera, e i bambini scapparono via. "Il mio giardino è mio - disse il Gigante - Questo lo può capire chiunque, e non consentirò a nessuno di giocarci all'infuori di me." Così vi costruì un alto muro tutt'intorno, e mise un cartello.

"Vietato l'Ingresso 
I Trasgressori Saranno 
Perseguiti a Termini di Legge"





Era un Gigante molto egoista. I poveri bambini non sapevano dove giocare. Cercarono di giocare lungo la strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi aguzzi, e a loro non piaceva. Alla fine delle lezioni si aggiravano sotto le alte mura, e parlavano del bel giardino all'interno. "Come eravamo felici lì!" si dicevano.
Poi venne la Primavera, e in tutto il paese spuntarono piccoli fiori e cinguettavano piccoli uccelli. Solo nel giardino del Gigante Egoista era ancora inverno. Gli uccelli non ci andavano a cantare perché non c'erano bambini, e gli alberi si dimenticarono di fiorire.
Una volta un bel fiore fece capolino dall'erba, ma quando vide il cartello si dispiacque talmente per i bambini che scivolò di nuovo nella terra e si rimise a dormire. I soli a essere contenti furono la Neve e il Gelo.
"La primavera ha dimenticato questo giardino - esclamarono - vuol dire che ci abiteremo tutto l'anno".
La Neve coprì l'erba con il suo gran mantello bianco, e il Gelo dipinse d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono il Vento del Nord a fermarsi da loro, e lui arrivò. Era tutto impellicciato, e ruggì nel giardino da mattina a sera, e abbattè i comignoli. "Questo è un posto magnifico - disse - Dobbiamo invitare la Grandine, che ci venga a trovare". Così venne la Grandine. Ogni giorno per tre ore crepitò sul tetto del castello finché non ebbe rotto la maggior parte delle tegole, e allora si mise a correre incessantemente, più forte che poteva, intorno al giardino. Era vestita di grigio, e aveva l'alito come ghiaccio.



"Non capisco proprio perché la Primavera tarda tanto - diceva il Gigante Egoista guardando dalla finestra il suo giardino freddo, bianco - Spero che il tempo cambi".
Ma la Primavera non arrivò mai, e nemmeno l'Estate. L'Autunno diede frutti d'oro a ogni giardino, ma neppure uno crebbe nel giardino del Gigante. "È troppo egoista" disse. Così lì era sempre inverno, e il Vento del Nord e la Grandine e il Gelo e la Neve danzavano qua e là fra gli alberi.
Una mattina il Gigante se ne stava a letto quando udì un canto melodioso. Gli suonò così dolce alle orecchie che pensò dovessero essere i musici del Re che passavano. In realtà era solo un piccolo fanello che cantava davanti la finestra, ma da così tanto tempo non sentiva cantare un uccello nel suo giardino che quella gli parve la più bella musica del mondo. Allora la Grandine smise di danzargli sulla testa, e il Vento del Nord cessò di ruggire, e un profumo delizioso lo raggiunse dai battenti aperti.



"Secondo me è finalmente arrivata la Primavera" disse il Gigante; e saltò giù dal letto e guardò fuori. Che cosa vide? Vide uno spettacolo meraviglioso. Da un piccolo buco nel muro si erano intrufolati i bambini, e ora sedevano appollaiati fra i rami degli alberi. Su ogni ramo a lui visibile c'era un bambino. E gli alberi sembravano talmente contenti di riavere i bambini che si erano coperti di fiori, e agitavano delicatamente le loro braccia sul capo dei bambini. Gli uccelli volavano qua e là cinguettando di piacere, e altri fiori facevano capolino dall'erba verde e ridevano. Era una scena bellissima, solo in un angolo era ancora inverno. Era l'angolo più remoto del giardino, e lì c'era un bambino, ritto in piedi.
Quel bambino era così piccolo che non arrivava ai rami dell'alnero, e vi girava tutto intorno, piangendo amaramente. Il povero albero era coperto di ghiaccio e di neve, ed era in balia del Vento del Nord che soffiava e ruggiva.
"Sali, piccolino!" diceva l'Albero, e piegava i rami più che poteva; ma il bambino era troppo piccolo. A quella vista il cuore del Gigante si sciolse.



" Come sono stato egoista!- disse - Ora so perché la Primavera non voleva arrivare. Metterò quel piccolino in cima all'albero, e poi abbatterò il muro, e il mio giardino sarà riservato ai giochi dei bambini, per sempre". Gli dispiaceva davvero per quanto aveva fatto. Così scese lentamente al piano di sotto, e spalancò il portone senza far rumore, e uscì in giardino. Ma alla sua vista i bambini si spaventarono tanto da scappar via, e nel giardino tornò l'inverno. Solo il bambino più piccolo non fuggì perché aveva gli occhi talmente pieni di lacrime che non vide il Gigante avvicinarsi. E il Gigante gli si avvicinò silenziosamente alle spalle, e lo prese con delicatezza nel palmo della mano, e lo posò sull'albero. E l'albero fece immediatamente sbocciare i fiori, e gli uccelli vennero a cantarvi sopra, e il bambinetto tese le braccia e le gettò al collo del Gigante, e lo baciò. E gli altri bambini vedendo che il Gigante non era più cattivo tornarono di corsa, e con loro tornò la Primavera. "Ora il giardino è vostro, bambini" disse il Gigante, e prese una grande scure e abbattè il muro.
E a mezzogiorno, la gente che andava al mercato vide il Gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che si fosse mai visto. I piccoli giocarono per tutto il giorno, e la sera tornarono dal Gigante per salutarlo.
"Ma dov'è il vostro piccolo compagno?- chiese - Dov'è il bambino che ho messo sull'albero?". Il Gigante lo amava più di tutti perché gli aveva dato un bacio.
"Non lo sappiamo - risposero i bambini - È andato via."
"Dovete dirgli di non mancare domani" disse il Gigante. Ma i bambini dissero che non sapevano dove abitava e che non lo avevano mai visto prima. Il Gigante fu molto gentile con tutti i bambini, eppure quel suo primo piccolo amico gli mancava sempre, e spesso parlava di lui. "Come mi piacerebbe rivederlo!" diceva. Passarono gli anni e il Gigante si fece molto vecchio e debole. Non poteva più giocare, perciò si metteva su una grande poltrona e guardava giocare i bambini, e ammirava il suo giardino. "Ho tanti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli di tutti."
Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardò dalla finestra. Ormai non odiava più l'Inverno, perché sapeva che era soltanto la Primavera addormentata e che, in quel periodo, i fiori stavano riposando. D'un tratto, si strofinò gli occhi dalla meraviglia e guardò e di nuovo riguardò. Era certo una vista meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino c'era un albero ricoperto di bellissimi fiori bianchi. Aveva rami d'oro da cui pendevano fiori d'argento, e sotto c'era il bambinetto che aveva tanto amato. Il Gigante si precipitò dabbasso pieno di gioia, e uscì in giardino. Attraversò in fretta il prato, e andò verso il bambino. E quando giunse vicino al suo viso diventò rosso dall'ira e disse:"Chi ha osato ferirti?". Perché sulle palme delle mani del bambino c'erano i segni di due chiodi, e i segni di due chiodi erano anche sui suoi piedini.



"Chi ha osato ferirti?- esclamò il Gigante - dimmelo, ch'io possa prendere il mio spadone e ucciderlo."
"No - rispose il piccolo - queste sono le ferite dell'Amore".
"Chi sei tu?" disse il Gigante, e uno strano timore si impadronì di lui, e si inginocchiò davanti al bambino.
E il bambino sorrise al Gigante, e gli disse:
"Una volta mi hai permesso di giocare nel tuo giardino, oggi verrai con me nel mio di giardino, che è il Paradiso". E quando i bambini corsero nel giardino quel pomeriggio, trovarono il Gigante che giaceva morto sotto l'albero, tutto coperto di fiori bianchi.



Traduzione di Masolino d'Amico, per "I Meridiani", Mondadori
Illustrazioni di Wladimir Dowgialo, da: book-graphics.blogspot.ru

domenica 24 agosto 2014

La Fanciulla che Calpestò il Pane - H.C. Andersen

ai certamente sentito parlare di quella fanciulla che calpestò il pane per non sporcarsi le scarpe, e delle sofferenze che dovette subire. È una storia scritta e stampata. Era una bambina povera, orgogliosa e superba; c'era in lei un fondo cattivo, come si dice. Da piccolina aveva come divertimento quello di catturare le mosche e di strappar loro le ali riducendole a animaletti striscianti. Prendeva il maggiolino e lo scarabeo, li infilzava con uno spillo e poi metteva una fogliolina verde o un pezzetto di carta tra i loro piedi, così il povero animale vi si afferrava e si rigirava senza posa per cercare di liberarsi dall'ago. "Adesso il maggiolino legge! - esclamava la piccola Inger - guarda come gira il foglio!"
Crescendo, invece di migliorare, diventò ancòra peggio, ma era bella e questa fu la sua sfortuna perché, altrimenti, sarebbe stata castigata ben diversamente da come in realtà avvenne.
"Bisogna trovare un buon rimedio per questa testa! - diceva la sua stessa madre - Da bambina mi calpestavi il grembiule, ho paura che, da grande, mi calpesterai il cuore". E così accadde, infatti.
Andò in campagna a servire in una famiglia molto distinta. La trattavano come se fosse stata una loro figlia, e venne anche rivestita di begli abiti: era graziosa e divenne superba. Era in campagna da circa un anno quando la sua padrona le disse: "Dovresti andare a trovare i tuoi genitori almeno una volta, piccola Inger!". Lei ci andò, ma solo per mettersi in mostra, per far vedere come era diventata distinta.
Quando giunse all'ingresso del paese, dove le ragazze e i giovanotti erano riuniti a chiacchierare intorno all'abbeveratoio, vide sua madre seduta su una pietra che si riposava, con davanti a sé un fascio di legna raccolta nel bosco. Inger se ne tornò indietro, vergognandosi, così ben vestita, di avere una madre stracciona che andava a raccogliere la legna. Non le dispiacque affatto essere tornata indietro, era solo irritata. Passarono altri sei mesi.
"Dovresti tornare a casa a visitare i tuoi vecchi genitori, piccola Inger!- le disse la padrona di casa - Eccoti un grosso pane bianco per loro; saranno certo contenti di vederti".
Inger indossò il vestito migliore e le scarpe nuove, poi sollevò un poco la gonna e si incamminò, con attenzione, per non sporcarsi i piedi, e per questo era da lodare. Ma, quando arrivò dove il sentiero passava tra la palude e dove c'erano acqua e fango per un bel pezzo di strada, gettò il pane sul fango con l'intenzione di camminarci sopra e attraversare il fango senza bagnare le scarpe; ma, mentre stava con un piede sul pane e con l'altro sollevato, il pane affondò sempre più, con lei sopra, e così scomparve. Rimase solo il fango nero e gorgogliante.


Harbour J.

Questa è la storia. Dove arrivò? Scese dalla Donna della palude* che fa la birra. La Donna della palude è la zia delle fanciulle degli Elfi, e questi sono molto noti per le ballate che parlano di loro, e sono stati anche ritratti; della Donna della palude, invece, si sa solo che, quando in estate i campi sono pieni di vapore è perché lei sta facendo la birra. Proprio nel luogo dove si fa la birra cadde Inger, e quello non è un posto in cui ci si possa fermare a lungo. In confronto, la cloaca è una luminosa e bellissima stanza. Ogni vasca puzza tanto da far svenire, e le vasche sono molto vicine tra loro, e, anche se nel mezzo ci fosse lo spazio dove poter passare, non sarebbe utilizzabile a causa dei fradici rospi e delle grosse bisce che si attorcigliano l'uno all'altra. Proprio qui finì la piccola Inger; tutto quel ripugnante groviglio vivente era così gelato che lei rabbrividì e si fece sempre più rigida. Rimase attaccata al pane, che la tirava come un bottone d'ambra tira un filo di paglia. La Donna della palude era a casa, aveva in visita il Diavolo e la sua bisnonna, una donna molto vecchia e molto velenosa che non stava mai in ozio: non usciva mai senza avere con sé il lavoro, e lo aveva anche quella volta. Cuciva solette di cuoio da mettere nelle scarpe degli uomini, in modo che non avessero mai pace, tesseva menzogne, e lavorava all'uncinetto parole avventate che cadevano sulla terra portando danni e rovina. E con quanto zelo cuciva, tesseva e lavorava all'uncinetto, la vecchia bisnonna!
Vide Inger e si mise l'occhialino davanti agli occhi per guardarla meglio.
"È una ragazza che ha attitudine!- disse - Vorrei averla come ricordo di questa visita! Potrebbe essere messa come statua nell'ingresso del mio pronipote!"
Così l'ottenne. Inger arrivò all'Inferno. La gente non ci arriva sempre dritta dritta, si possono anche percorrere strade traverse, quando si ha l'attitudine. Era un ingresso senza fine; venivano le vertigini sia a guardare avanti che a guardare indietro; lì si trovava una schiera di persone sofferenti in attesa che la porta della Grazia venisse aperta: ma avrebbero aspettato a lungo! Giganteschi ragni, grossi e barcollanti, tessevano da millenni sopra i loro piedi, e la tela li stringeva come stivaletti e penetrava nella carne come una catena di rame, inoltre c'era un'eterna inquietudine in ogni anima, un'inquietudine piena di tormento. C'era l'avaro che aveva dimenticato la chiave della cassaforte, e sapeva che era rimasta dentro la cassaforte stessa. Sarebbe lungo elencare tutti i tipi di sofferenze e di tormenti che venivano patiti. Inger visse il suo tormento nello stare dritta come una statua, e le sembrava di essere inchiodata al pane.
'Questo succede a chi vuol avere i piedi puliti! - disse a se stessa - Guarda come tutti mi osservano!', e, infatti, tutti la guardavano. I loro cattivi pensieri venivano espressi con gli occhi, e venivano letti sulle labbra, senza che venisse emesso alcun suono; era una cosa terribile.
'Dev'essere un piacere guardarmi! - pensò la piccola Inger - ho un bel viso e dei bei vestiti!', e ruotò gli occhi, dato che il collo era ormai rigido. Oh, come s'era conciata nella birreria della Donna della palude! Non l'aveva notato! I vestiti erano come coperti da un'unica grande macchia unta, e da ogni piega della gonna si affacciava un rospo che guaiva come un cagnolino asmatico. Era proprio una cosa imbarazzante!
 'Ma anche gli altri che si trovano qui hanno un aspetto terribile!', si consolò. La cosa peggiore per lei era però la fame che sentiva. Ma non poteva dunque piegarsi per prendere un pezzetto del pane su cui si trovava? No! La schiena era rigida, e lo erano anche le braccia e le mani; tutto il corpo era come una statua di pietra. Poteva solo ruotare gli occhi, e li ruotava del tutto, così da vedere anche dietro, ed era proprio una brutta vista! Poi arrivarono le mosche; le strisciarono sugli occhi, avanti e indietro, e lei sbatté le palpebre, ma le mosche non se ne andarono: non potevano perché le loro ali erano state strappate, erano diventate animaletti striscianti. Era un vero tormento, e poi quella fame... alla fine le sembrò che il suo intestino divorasse se stesso e si sentì così vuota, terribilmente vuota. 'Se dura ancòra a lungo, non lo sopporterò', disse, ma dovette sopportarlo, e le cose non cambiarono. Allora le cadde una lacrima ardente sulla testa, le scivolò lungo il viso ed il petto fino a raggiungere il pane, poi ne cadde un'altra, e molte ancòra. Chi piangeva per la piccola Inger? Aveva una madre sulla terra. Le lacrime di dolore che una madre piange per il proprio figlio arrivano dappertutto, ma non aiutano, anzi, bruciano e rendono il tormento ancora più grande. E poi quella insopportabile fame, e non poter arrivare al pane che calpestava con i piedi!
Alla fine, ebbe la sensazione di aver consumato tutto quello che era in lei, era come una canna cava e sottile in cui rimbombava ogni suono, poteva sentire chiaramente dalla terra tutto quel che la riguardava, ed erano solo parole cattive e severe quelle che udiva.
Sua madre piangeva molto e era addolorata, ma diceva anche:
"La superbia fa cadere! E stata la tua disgrazia, Inger! Come hai addolorato tua madre!". Sua madre e tutti gli altri lassù sapevano del suo peccato, sapevano che aveva calpestato il pane e era affondata. L'aveva raccontato il vaccaro perché l'aveva visto personalmente dalla collina.
"Come hai addolorato tua madre, Inger! - disse la madre - già, ma me l'aspettavo!"
'Se solo non fossi mai nata! -  pensò Inger - sarebbe stato molto meglio! Adesso non serve a nulla che mia madre pianga.'
Sentì anche che cosa dicevano i suoi padroni, quella brava gente che era stata per lei come una nuova famiglia: "Era una bambina peccatrice! Non ha rispettato i doni del Signore, ma li ha calpestati: forse, la porta della Grazia non verrà mai aperta per lei."
'Avreste dovuto castigarmi di più! - pensò Inger - togliermi i grilli dalla testa, se ne avevo!'
Sentì che veniva scritta una canzone su di lei: "La fanciulla superba che calpestò il pane, per avere le scarpe belle", e che veniva cantata in tutto il paese.
'Che si debbano sentire tante cose su questo, e che si debba soffrire tanto per questo! - pensò Inger - Anche gli altri dovrebbero venire puniti per i loro peccati. Certo, così ci sarebbero molte cose da punire. Oh, come mi tormento!'
E la sua anima diventò ancora più rigida del corpo.
'Quaggiù con questa compagnia non si può certo diventare migliori! E non lo voglio neppure! Guarda come mi osservano!'
La sua anima era piena di ira e di cattiveria verso tutti gli uomini.
'Adesso hanno qualcosa di cui parlare, lassù! Oh, come mi tormento!'
E sentì che raccontavano la sua storia ai bambini, i più piccoli la chiamavano "Inger la scellerata"; era così cattiva, dicevano, così malvagia, ed era giusto che patisse. C'erano sempre parole dure per lei da parte dei bambini. Ma, un giorno in cui l'ira e la fame le mordevano il corpo ormai vuoto, sentì il suo nome; la sua storia veniva raccontata ad una bambina innocente che scoppiò a piangere sentendo la storia della Inger superba e smaniosa di eleganza.
"Non tornerà mai più su?", chiese la bambina.
E le fu risposto:
"No, non verrà mai più su".
"E se chiedesse perdono e non lo facesse più?"
"Ma non chiederà certo perdono!", dissero.
"Vorrei tanto che lo facesse! - concluse la bambina, inconsolabile - Darei il mio armadio delle bambole se lei potesse tornare su. È terribile per la povera Inger!". Quelle parole toccarono il cuore di Inger e le fecero bene: era la prima volta che qualcuno diceva: Povera Inger! senza parlare della sua colpa; una bambina innocente aveva pianto e pregato per lei. Ne fu così commossa che avrebbe pianto, ma non poteva, e anche questo era un tormento.
Passarono gli anni sulla terra, ma laggiù non ci fu nessun cambiamento: solo sentiva più raramente i suoni di lassù, si parlava sempre meno di lei.
Un giorno sentì un singhiozzo: "Inger! Inger! Come mi hai addolorata. L'avevo detto!". Era sua madre che moriva.
Ogni tanto sentiva il suo nome nominato dai suoi vecchi padroni e le parole più dolci della padrona erano: "Chissà se ti rivedrò mai, Inger! Non si sa mai dove si va a finire!".
Ma Inger sapeva bene che la sua brava padrona non sarebbe mai arrivata dov'era lei. Così passò dell'altro tempo, lungo e amaro. Poi Inger sentì di nuovo il suo nome e vide sopra di sé brillare due stelle luminose; erano due dolcissimi occhi che si chiudevano sulla terra. Erano passati tanti anni da quella volta in cui una bambina aveva pianto in modo inconsolabile per la povera Inger: quella bambina era ora una vecchia che il Signore voleva chiamare a Sé; proprio in quel momento, quando i pensieri di tutta la vita si ripresentavano a lei, ricordò di come aveva pianto amaramente, da piccola, nel sentire la storia di Inger. Quel momento e quell'impressione erano ancora così chiari nella sua mente nell'ora della morte che lei esclamò a voce alta: "Signore, mio Dio, forse anch'io come Inger ho spesso calpestato i doni della tua benedizione senza pensarci, forse anch'io ho peccato di superbia, ma tu, con la tua Grazia, non mi hai lasciato sprofondare, mi hai sostenuto. Non lasciarmi nella mia ultima ora!". Gli occhi della vecchia si chiusero e quelli dell'anima si aprirono davanti all'ignoto, e poiché Inger era così viva nei suoi ultimi pensieri, poté vederla e vide com'era sprofondata in basso, e, a quella vista, quell'anima pia scoppiò in lacrime: nel Regno dei Cieli, piangeva come una bambina per la povera Inger. Quelle lacrime e quelle preghiere risuonarono come un'eco nel corpo vuoto e consumato che racchiudeva l'anima prigioniera; questa venne sopraffatta da tanto inimmaginato amore che veniva dall'alto. Un angelo del Signore piangeva per lei! Perché era capitato a lei? L'anima tormentata ripensò a ogni azione compiuta sulla terra e scoppiò a piangere, come Inger non aveva mai potuto fare; la pietà per se stessa ebbe il sopravvento, pensò che la porta della Grazia non si sarebbe mai potuta aprire per lei e, proprio mentre nella contrizione lo riconosceva, un raggio di luce brillò nell'abisso, un raggio molto più potente di quelli del sole che sciolgono gli uomini di neve costruiti dai ragazzi nei cortili; allora, molto più in fretta di un fiocco di neve che cade sulla bocca tiepida di un fanciullo e si scioglie in acqua, la figura pietrificata di Inger si dissolse, e un minuscolo uccello si alzò in volo, con lo zigzag del fulmine, verso il mondo degli uomini. Era però intimorito e impaurito per tutto quello che lo circondava, si vergognava di se stesso e di tutte le creature viventi e si rifugiò immediatamente in un buco che si trovava in un muro diroccato. Si posò lì e si piegò su se stesso, tremando in tutto il corpo; non riuscì ad emettere alcun suono perché non aveva voce.
Restò lì a lungo prima di riuscire a vedere e ammirare con tranquillità tutte le bellezze che c'erano là fuori. Sì, era proprio una meraviglia: l'aria era fresca e mite, la luna splendeva luminosa, gli alberi e i cespugli profumavano, e poi era così bello il luogo dove si trovava e le sue piume erano così pulite e delicate. Come si mostravano belle tutte le cose create nell'amore e nella bellezza! Tutti i pensieri che si trovavano nel petto dell'uccello volevano essere cantati, ma l'uccello non riusciva a farlo, eppure avrebbe cantato così volentieri come fanno in primavera gli usignoli e i cùculi. Il Signore, che sente anche il silenzioso canto di ringraziamento del verme, sentì quell'inno di lode che si alzava in accordi di pensiero, così come il salmo risuonava nel petto di Davide prima di trasformarsi in parole e musica. Per molte settimane, quei canti silenziosi crebbero e s'ingrossarono:ormai dovevano esprimersi, al primo battito d'ala di una buona azione, era indispensabile!
Vennero le feste di Natale. Il contadino eresse vicino al muro un palo e vi legò un fascio di avena piena di chicchi, così che anche gli uccelli del cielo avessero un buon Natale e un buon pranzo in quel giorno di salvezza. Il sole si alzò la mattina di Natale e illuminò l'avena, così tutti gli uccelli volarono cinguettando intorno al palo del cibo; allora anche dal muro risuonò cip, cip, quei pensieri silenziosi divennero suono, quel debole cip si trasformò in un inno di gioia, si cominciava a delineare l'immagine di una buona azione, e l'uccello uscì dal suo rifugio. Nel Regno dei Cieli sapevano bene chi fosse quell'uccellino. L'inverno si fece sentire davvero, l'acqua ghiacciò fino in profondità, gli uccelli e gli animali del bosco ebbero difficoltà a trovare cibo. Quell'uccellino volò lungo la strada maestra e cercò, trovandolo qua e là nelle impronte delle slitte, qualche granello di grano; nei luoghi di sosta trovò briciole di pane, ma ne mangiò una sola e poi chiamò tutti gli altri passeri affamati, affinché potessero trovare qualcosa da mangiare. Volò fino alla città, controllò tutt'intorno, e, dove una mano amorosa aveva sparso sul davanzale pane per gli uccelli, ne mangiò un po' e diede tutto il resto agli altri. Per tutto l'inverno, l'uccello raccolse e distribuì così tante briciole di pane che, tutte insieme, pesavano come l'intera pagnotta che la piccola Inger aveva calpestato per non sporcarsi le scarpe; quando l'ultima briciola fu trovata e data via, le ali grigie dell'uccello diventarono bianche e si allargarono.
"Una rondinella marina sta volando sul lago!", gridarono i bambini, vedendo quell'uccello bianco. Si tuffò nel lago, si sollevò nella chiara luce solare e luccicò; fu poi impossibile vedere che fine fece, ma si dice che sia volata fino al sole.

*Vedi "Il Monte degli Elfi", sempre di H.C. Andersen

giovedì 7 agosto 2014

Le Dame Verdi della Collina dal Solo Albero,( Inghilterra).

'era una volta una collina su cui si ergevano tre grandi alberi e nelle notti di luna piena capitava di udire dei canti e di scorgere tre Dame verdi danzare.
Nessuno osava avvicinarsi alla collina eccetto un contadino che ogni anno, prima che calasse la notte di mezza estate, saliva sulla collina per deporre delle primule ai piedi dei tre alberi. Le foglie stormivano, il sole brillava e il contadino, per sicurezza, faceva sempre in modo di rincasare prima che facesse buio.
Possedeva una fattoria molto produttiva e spesso diceva ai suoi tre figlioli:
"Mio padre mi diceva sempre che la nostra fortuna sta lassù: quando sarò morto non scordate di fare come me, come fece mio padre prima di me e come fecero tutti i nostri avi".


Schwabe C.


I ragazzi lo ascoltavano ma non lo prendevano troppo sul serio, eccetto il più giovane. Quando il vecchio morì, la fattoria venne divisa in tre parti: il fratello maggiore si prese quella più grande, il secondo, una parte più piccola e il più giovane si dovette accontentare di una striscia di terreno arido e impervio ai piedi della collina. Invece di lamentarsi, cominciò a lavorare la terra di gran lena, cantando. Ogni sera, prima del tramonto, rientrava a casa.
Un giorno, i fratelli andarono a trovarlo. Le loro grandi fattorie non rendevano bene e quando videro il piccolo campo d'orzo così rigoglioso, i pochi alberi così carichi di frutta, le verdure così verdi e deliziosamente profumate, furono rosi da una grande invidia.
"Chi ti aiuta nel tuo lavoro? - chiesero - Dicono giù al villaggio che qui la notte si canta e si balla: un contadino che lavora sodo, la notte dovrebbe essere a letto".
Il giovane non rispose e continuò a lavorare.
"Eri tu quello che abbiamo visto sulla collina vicino agli alberi mentre venivamo qui? Cosa stavi facendo?"
"Facevo quello che nostro padre ci aveva raccomandato di fare ogni anno; questa è la notte di mezza estate", rispose tranquillamente il ragazzo.
I fratelli erano davvero molto arrabbiati:
"La collina è mia! - urlò il maggiore - Che non ti veda mai più lassù! E per quanto riguarda gli alberi, ho giusto bisogno di legname per costruire il mio nuovo granaio. Domani ne taglierò uno e voi due mi aiuterete".
Ma il secondo fratello disse che l'indomani sarebbe dovuto andare al mercato; il più giovane tacque. Il giorno seguente, il giorno di mezza estate, il fratello maggiore salì sulla collina con i suoi braccianti muniti di asce e chiamò il fratello minore, che stava lavorando nell'orto, perché venisse ad aiutarlo.
Per tutta risposta egli lo ammonì: "Ricordati che giorno è oggi!".
Il maggiore non gli badò e si avviò su per la collina alla volta dei tre alberi. Quando colpì con l'ascia il primo dei tre alberi, si udì un grido di donna: i cavalli e i braccianti fuggirono spaventati, ma egli proseguì nel suo lavoro.


Giulia Carcasi


Il vento fischiava, gli altri due alberi agitavano furiosamente le fronde e a un tratto l'albero colpito cadde sul contadino e lo uccise. I braccianti tornarono sulla collina per portar via il cadavere del padrone e l'albero abbattuto; da quel giorno, nelle notti di luna piena, si videro solo due Dame verdi danzare sulla collina.
Il secondogenito decise di occuparsi della fattoria del maggiore, mentre il più giovane continuò a lavorare la sua striscia di terra, e la vigilia di mezza estate non scordava mai di portare primule ai piedi degli alberi sulla collina.
La grande fattoria però non prosperava, e, una vigilia di mezza estate, mentre il secondogenito si recava dal fratello minore, lo vide sulla collina nei pressi dei due alberi. Non osando salire anche lui urlò:
"Lascia subito la mia terra e porta via le tue mucche che danneggiano il mio steccato! Costruirò un nuovo, solido recinto intorno alla mia collina, e abbatterò uno degli alberi per avere il legname".
Quella notte non ci furono né canti né balli sulla collina, ma solo il pianto di molte foglie; il più giovane dei fratelli era molto triste.
Il mattino seguente, il secondo fratello salì sulla collina con la scure e gli alberi rabbrividirono; assicuratosi che non ci fosse vento, che poteva fargli cadere l'albero addosso, colpì il tronco con grande forza. L'albero gridò con voce di donna mentre cadeva e il fratello minore, che osservava la scena dal sentiero lungo il campo dove pascolavano le sue mucche, vide l'albero superstite colpire con un ramo il fratello, uccidendolo. Il più giovane divenne così padrone delle tre fattorie ma continuò a vivere nella più piccola, vicino alla collina e alla solitaria Dama verde.
A volte, nelle notti di luna piena, si udiva una triste melodia provenire dalla collina; ogni vigilia di mezza estate il giovane depositava un mazzo di primule tardive ai piedi dell'ultima Dama verde e le sue fattorie prosperavano.
Ancora oggi molta gente, anche senza conoscere questa storia, non ha il coraggio di salire sulla collina dal solo albero, specialmente la notte di mezza estate. Solo alcuni vecchi ricordano di aver sentito dire, durante la loro infanzia, che la collina non avrebbe mai dovuto essere recintata perché apparteneva a una Dama verde. La collina e l'albero sono soli. Quello è un luogo triste e pericoloso.

Da: "Folk Tales of the British Isles", Michael Foss, in "Il Bosco. Miti, leggende e fiabe", a cura di Alberto Mari e Ulrike Kindl

La Bella Ostessina, V.Imbriani, la Novellaja Fiorentina (N.19) - Integrale


In precedenza, - trattamento riservato anche ad altre fiabe per non affollare troppi tipi e motivi - avevo postato solo la prima parte della fiaba, poiché nella seconda parte ricalca la trama de La Bella Addormentata nel Bosco... dopo il risveglio, feroce suocera compresa. E l'orribile Madre si allea con l'orribile Suocera per perdere Biancaneve.


Juan Gonzalez Alacreu


'era una volta (dove non me ne ricordo) una Ostessa, la quale era di molto bella, sicché aveva una grande nomèa e tutti correvano al suo albergo, se non foss'altro per la curiosità di vederla e parlarci. L'Ostessa aveva pure una figlia, che crescendo superò la madre in bellezza e grazia, e a diciott'anni non c'era donna che gli potesse stare al paragone. La gente pertanto, se andava all'Albergo in gran numero, ora non ci andava più per la madre, bensì per la figliola, che veniva chiamata la Bell'Ostessina, per distinguerla dalla prima. Gli è un vizio delle donne, specialmente quando le cominciano a invecchiare, di farsi invidiose della gioventù; e così accadde all'ostessa. La figliola gli era un pruno negli occhi e non poteva soffrirsela d'attorno. E gli crebbe tanto l'odio e la rabbia contro il proprio sangue, che deliberò ammazzare la Bell'Ostessina, dove non gli riuscisse ridurla imbruttita. Piena di stizza, l'Ostessa cominciò a tenere la figliola sempre chiusa, a dargli poco da mangiare e a strapazzarla in tutti i modi acciò la cascasse in isfinimento; ma, non si sa come, la ragazza non ne pativa nulla e la bellezza gli cresceva. La madre avrebbe dato il capo per le mura; e finalmente deliberò di cavarsi la figliola dinanzi agli occhi e finirla.


Emile Auguste Hublin 


Per non dare sospetto, chiamò un servitore, su cui gli pareva poterci contare, e gli diede ordine di condurre la Bell'Ostessina in un bosco e lì ammazzarla, e poi a testimonianza del fatto portare a lei le mani, il core e una boccetta piena del sangue della figliola. Il servitore, a quel comando, rimase di sasso; ma, conoscendo l'umore della padrona, temette che rifiutandosi non salvava di certo la ragazza, perchè la barbara madre in un modo o in un altro l'avrebbe scannata. Disse dunque di obbedire e il giorno dopo andò nella camera in cui era chiusa l'Ostessina e gli fece assapere che la sua mamma voleva che lui la menasse un po' a spasso in poggio a svagarsi.
L'Ostessina, che era di cuor bono, non sospettò a male; anzi la si persuase che la sua mamma si fosse rimutata; però quest'idea gli era venuta con un tantino di turbamento: pure la si vestì de' meglio abiti e col servitore avviossi al bosco nel poggio vicino. Cammin facendo, il servitore stava sopra a pensiero, e non sapeva capacitarsi di dovere ammazzare quella bellissima creatura e mulinava al come avrebbe salvato capra e cavoli. Nel frattempo giunsero in mezzo del più folto del bosco. Qui il servitore, buttatosi in ginocchioni, raccontò all'Ostessina quel che la sua mamma gli aveva comandato. L'Ostessina a quella scoperta si sentì tutta diacciare e quasi la dubitava una invenzione del servitore. Ma questo gli giurò che pur troppo era vero quel che diceva e che bisognava pensare a rimediarci, sicché l'Ostessa non la pigliasse con lui se disobbediva e non s'arrapinasse per trovare la figliola per finirla dove sapesse che non era stata morta.
L'Ostessina disperata disse:
"Piuttosto che vivere così e odiata dalla mamma, voglio morire. Ammazzami dunque e esegui quel che lei ti ha ordinato."
Ma il servitore replicava:
"Ma vi pare che sia tanto spietato e birbone? V'ho menato qui apposta per salvarvi e vi salverò a tutti i patti!"
Nel mentre che que' due discorrevano contrastando, venne a passare un pecoraio con di molti agnellini nati di poco. Al servitore gli nacque il pensamento di comprarne uno, scannarlo e cavargli il core, e portar questo assieme col sangue all'Ostessa, dandogli ad intendere che fossero della sua figliola: ma le mani?
La ragazza disse:
"Tagliamele, che l'avrai."
E il servitore:
"Come volete campar la vita senza le mani? Ne farò di meno."
Comprato dunque l'agnellina, il servitore messe ad effetto quanto aveva macchinato. La ragazza si spogliò di tutti i panni, e rimasta colla camicia sola, li diede al servitore perché anco quelli riportasse a casa, e fu lasciata in abbandono nel bosco.
L'Ostessa, che impaziente aspettava il servitore, gongolò dalla gioia, vedendolo ritornare con i segni dell'ammazzamento commesso; ma, quando s'accorse che mancavano le mani, gridò con mal viso al servitore:
"E le mani dove sono?"
Rispose il servitore:
"Che volete? non ho avuto coraggio di tagliargliele alla vostra figliola, dopo tanto male che per obbedirvi gli ho fatto. O che non vi bastano quest'altri segni? Ci son fino i vestiti."
Abbene che l'Ostessa rimanesse con un po' di sconcerto nell'animo, pure s'addimostrò contenta. E imposto al servitore di stare zitto, sparse voce che la figliola era morta presso un parente lontano, da cui era andata per istarci qualche mese.
La Bell'Ostessina intanto, lasciata lì sola e quasi ignuda nel bosco, fu sorpresa dalla notte, dal freddo e dalla fame; sicché, piena di paura, intirizzita e rifinita, si sentiva morire. Tutt'a un tratto gli comparve dinanzi una vecchia, che gli domandò chi fosse e che facesse lì a quell'ora nel bosco e in quell'arnese.
La ragazza gli raccontò per filo e per segno la sua cattiva ventura, per cui la vecchia gli disse:
"Povera fanciulla! ti piglierò con meco, ma a patto che tu mi sia sempre ubbidiente."
L'Ostessina glielo promise; e la vecchia, presala per la mano, la condusse ad uno splendido palazzo incantato, dove nulla gli fece mancare ed era trattata al pari di una Regina. La vecchia tutti i giorni andava a girondolare per gli affari suoi e non tornava che a sera tarda.
Prima di uscire disse all'Ostessina:
"Senti, dammi retta e fai a modo mio. Io sono una Fata di quelle bone, e ti avverto che tu non ti lasci adescare da nessuno, che venga in questi dintorni. La tua mamma malandrina sta in sospetto che tu non sia morta, e tra poco lo saprà di certo e manderà a cercarti, perchè t'ammazzino. Dunque bada a tenere gli occhi aperti."
Ciò detto, uscì.
In quel frattempo l'Ostessa ripensava a quelle mani, che il servitore non gli aveva portato dopo morta la sua figliola, e sempre più gli cresceva il dubbio, che il servitore fosse un bugiardo e non avesse eseguito i comandi.
Un dì, stando sulla porta dell'albergo, l'Ostessa vedde passare una Strolaga, sicchè la chiamò per farsi strolagare; a questo effetto gli porse la mano e gli domandò se gli poteva leggere in core.


G.de la Tour


La Strolaga, fatti i suoi esami, disse:
"Bell'Ostessa, voi avete una figliola che pensate morta e invece è viva, e sta da gran signora nel palazzo di una Fata, che gli vole di molto bene, e nessuno la potrà mai ammazzare."
Questa notizia riescì amara di molto all'Ostessa; per cui, arrabbiata, macchinò un nuovo modo per giungere a far morire la figliola. Siccome sapeva che gli piacevano i fiori, fece un gran mazzo e lo sparse di veleno; poi chiamato un servitore gli disse di fingersi un venditore di fiori e andare a urlare: Chi vuol fiori?- sotto il palazzo della Fata. Il servitore obbedì a' comandi appuntino.
La Bell'Ostessina, sentendo quel gridìo, dismenticando gli avvisi della vecchia Fata, scese e comprò il mazzo de' fiori; ma a mala pena c'ebbe messo il naso, che cascò morta in sul momento.
Rivenuta la Fata a casa, picchia e ripicchia e nissuno gli apriva; infine, impazientita, diede un urtone all'uscio e lo spalancò e su per le scale vedde lo spettacolo della ragazza morta stecchita. Esclamò:
"Te l'avevo detto, scapataccia, e non hai voluto ubbidirmi. La tua mamma l'ha lunghe le mani. Sarè' capace di lasciarti star costì e non ricorrere all'arte mia per farti rinvivire."
Ma, riguardando quel corpo tanto bello e ripensando quanto l'Ostessina era bona, si ripentì; e con certi unguenti e scongiuri ridiede alla vita l'Ostessina, che vispola e rinsanichita si alzò in piedi. Allora la vecchia soggiunse:
"Bada di non cascare un'altra volta in queste reti, perché un'altra volta non sarò così misericordiosa. Voglio che tu m'ubbidisca, ha' tu 'nteso?"
La giovane promise, che da lì innanzi sarebbe stata ubbidiente.
Qualche giorno dopo, la Strolaga venne a ripassare dall'albergo della bell'Ostessa; questa la chiamò per farsi di nuovo strolagare e gli perse la mano.
La strolaga, esaminatala a garbo, disse:
"Quella figliola, che sta nel palazzo della Fata non si può ammazzare: la Fata l'ha in protezione e oggi è viva come prima."


Yuri Sergeyev


L'Ostessa non si perdette d'animo, ma volle ritentare la prova. Sicchè, sapendo che la sua figliola era ghiotta delle stiacciate, ne manipolò un certo numero e le empì di veleno; e poi le diede ad un servitore, che in figura di pasticciere l'andasse a vendere sotto il palazzo della Fata.
La Bella Ostessina, che già più non pensava al risico trascorso, scese, comprò le focacce e, rimontata in camera, le mangiò tutte; se non che di lì a poco cadette morta in terra. Rieccoti la vecchia Fata, e picchia e ripicchia, e nessuno gli apre: dato un calcio all'uscio, lo spalanca; e, giunta in camera, trova l'Ostessina stecchita. Alla vecchia gli girò il boccino; e quasi quasi voleva tenere la promessa fatta alla ragazza di lasciarla morta; ma poi, il buon core gli parlò meglio e la rinvivì. Quando la vedde in piedi, gli disse con faccia seria:
"Senti bene, e ti giuro che la mia parola la custodirò: se ti avviene un'altra volta un simil fatto, per me ti lascio stare e alla vita tu non ci ritorni."
L'Ostessina gli disse che aveva ragione, e che da ora in là baderebbe di non ricadere in quelli sbagli. Accadde, che di lì a pochi giorni venne a cacciare per la selva il Re di una città vicina; e passando dal palazzo della Fata, vedde l'Ostessina alla finestra e se ne innamorò.
Lui seguitando per varie volte quelle passeggiate e quelle occhiatine, anche l'Ostessina si sentiva tirata verso il Re; nulla di meno, siccome il Re non gli aveva detto niente, né mandato ambasciate, così non sapeva quel che sarebbe nato. Intanto la Strolaga era ritornata dalla Bell'Ostessa, informandola come la figliola sua viveva sempre e come un Re se n'era invaghito. L'Ostessa, incaponita di riuscire nell'ammazzamento della figliola, sapendola alquanto ambiziosa e credenzona, macchinò di giungere a quell'intento con un novo inganno. Fece fare de' bellissimi abiti alla reale e una corona di oro piena zeppa di pietre preziose, e dappertutto messe del veleno, che al solo toccarlo credeva fosse capace di fare morire; poi, chiamati diversi servitori, li mascherò con livree e gli comandò di andare al palazzo della Fata, di cercare l'Ostessina e presentargli quelle robbe come un dono del Re suo amante.
Quelli ubbidirono appuntino.
L'Ostessina credette davvero che i servitori venissero da parte del Re; sicché, presi gli abiti e la corona, senza frappor tempo se ne acconciò. Ma di lì a poco cascò morta in terra. Quando la vecchia Fata rivenne a casa e trovossi a quella tragedia, imbizzarrita disse:
"Tu l'hai voluta, e sia. Ora poi non ti rinvivisco a nessun patto. Ma anche questi luoghi tu me gli hai fatti venire in uggia."
Presa quindi in su le braccia la giovane, costruito un ricco catafalco nel mezzo del salone e per arte magica circondatolo di ceri perpetuamente accesi, ci pose sopra il corpo morto vestito com'era alla reale. Poi chiuse tutte le finestre del palazzo; e statuì che dentro vi fosse per tre anni quanto occorreva per il servizio abbondante di tre principi; e trasmutata la posizione della selva perché il palazzo non si ritrovasse tanto facile, serrò l'uscio di entrata e ne tolse seco la chiave; la quale, giunta al mare, ve la scaraventò nel fondo e dietro a quella andò lei medesima.
Il Re, di cui s'è fatto menzione, e che era un bel giovane scapolo, ritornando alla caccia, rimase sbalordito non ritrovando più la via del palazzo in cui aveva veduto l'Ostessina, e si confondeva nel pensare come accadesse tal contrattempo. Ora bisogna sapere, che al servizio di cotesto Re stavano certi pescatori, che gli fornivano ne' giorni di magro il meglio pesce marino. Un venerdì, non si sa come, pesce in mare non ne pigliarono punto, per cui il coco stimò necessario farne cercare sul pubblico mercato; ma sul pubblico mercato non c'era che un pescione sterminato, e agli spenditori gli convenne comprarlo in mancanza d'altro. Lo stupore del coco fu però grande, quando, sparato il pesce, gli rinvenne in capo una grossa chiave. Subito la portarono al Re, il quale non conoscendo che uscio aprisse, e sospettando che andasse a qualche toppa di palazzo meraviglioso, deliberò di non separarsene mai e a quest'effetto se l'appese al collo con una catena d'oro. Il Re intanto non si dava pace nel ricercare l'abitazione dell'Ostessina. Un giorno, presi con seco due servitori fedeli e messosi tutti lo stioppo da caccia ad armacollo, partirono a levar di sole. Dopo percorso gran paese e folte boscaglie, sopraggiunse una notte tanto buja, che nessuno sapeva dove mettesse i piedi fra mezzo agli alberi e a' pruni. Si tenevano per perduti; e difatto il Re smarrì un compagno, sicché andava solo a tentoni coll'altro. Ad un tratto gli parve da lontano scorgere un chiarore e a quello con molta pena s'indirizzarono; e stanchi e trafelati e intirizziti dal freddo, giunsero alla porta di un palazzo. Picchiarono e ripicchiarono, ma nessuno apriva. Al Re allora venne in mente la chiave, che teneva al collo; e avendola provata nella toppa, rimase stupito nell'accorgersi, che pareva la sua e che apriva la porta benissimo. Entrano, salgono le scale, e sebbene il palazzo fosse pieno di lumi, non appariva anima viva. Nella sala trovarono una mensa riccamente apparecchiata, su cui stava un gran mazzo di chiavi, e in un canto della sala istessa vi era un camminetto acceso. Il Re ed il servitore, esaminato ogni cosa, nell'idea di aspettare se qualcuno venisse a salutarli, si posero intanto al foco per rasciugarsi. Poi si sedettero a tavola e mangiarono. E ogni volta che le pietanze erano finite, mani invisibili ne recavano delle altre sempre più squisite e appetitose. Il Re capì bene che quel palazzo doveva essere incantato; per cui non istava senza temenza; ignorando se chi lo possedeva fosse un Genio buono o cattivo. Ad ogni modo, siccome il Re era di molto ardito, quando fu ristorato, disse al servo:
"Piglia un lume e visitiamo il palazzo; questo mazzo di chiavi di certo apre le porte degli appartamenti."
Girarono tutto il palazzo, ma da ogni parte riscontrarono il medesimo deserto e la medesima solitudine. Quindi l'ammirazione di que' due era grande, tanto più che scorgevano una ricchezza di addobbi e di mobili incredibile; l'oro e le gemme luccicavano ammonticchiate. Quasi disperati di arrivare a scoprire i padroni del palazzo, si avviavano di novo nella sala, e nel ragionare il Re gettò gli occhi ad una porticella, che prima non aveva veduta: subito col servo e co' lumi corse a quella, e dopo provatovi più chiavi nella toppa gli riuscì aprirla. La porticina dava accesso ad una fuga di stanze, anche più di lusso dell'altre; ma, giunti ad un salone, il Re ed il servitore restarono fra istupiditi e impauriti nel mirarvi in mezzo un catafalco circondato di ceri accesi e con sopra una donna morta. Rimessi un po' in calma, il Re s'avvicinò al catafalco, ed ebbe quasi a svenirsi, nella morta riconoscendo l'Ostessina tanto ricercata. Diè in disperazioni, e il servitore pensò bene di tirarlo via di là. Ma prima volle prendere un ricordo della giovane, e a quest'effetto gli levò un anello gemmato da un dito; se non che dal terrore gli si rizzarono i capelli in capo, giacché appena cavato fuori l'anello la giovane morta mosse la mano. A quella veduta il Re disse:
"Qui c'è qualche incanto, e la ragazza non è morta. Proviamo a spogliarla."


Duncan J.


Detto fatto, la misero nuda come Dio la creò. E a mala pena nuda l'Ostessina si stirava e sbadigliava, come se svegliata da un lungo sonno; e finalmente, aperti gli occhi, nello scorgersi in quello stato in faccia a due òmini, stava fra l'ingrullita e la vergognosa e cercava scappare e nascondersi.
Avendola non pertanto il Re assicurata che nulla aveva da temere e raccontatogli in brevi parole l'accaduto, l'Ostessina si rinfrancò, e fattasi menare nella camera sua del palazzo, coi vestiti che ci erano sempre, in un momento acconciossi a garbo. A non andar per le lunghe, il Re e l'Ostessina, innamorati com'erano, si sposarono e vissero lì in quel palazzo da due o tre anni, senza che di nulla mancassero; anzi il matrimonio loro fu così felice, che ne nacquero due be' figlioli maschi. Frattanto la madre del Re, che dal giorno della partenza non aveva più nulla saputo del figliolo, ne faceva fare continua ricerca; ma indarno, e oramai credeva che fosse morto, e però aveasi rimesso l'animo in pace. Se non che in quel mentre capitò la solita Strolaga dalla Bell'Ostessa e gli disse come la figliola sua non era mica morta, e che invece se ne godeva gaudiosa vita, sposa del Re, nel palazzo incantato. L'Ostessa, sempre di mal'animo, che ti fa? corre dalla Regina e gli racconta tutto; per cui la Regina, se da una parte s'allegrò nel sentire vivo il figliolo, dall'altra era arrabbiata di molto in quantoché lui avesse preso in moglie una ragazza di bassa nascita e di vile mestiere.
Non pose dunque tempo in mezzo e pensò al rimedio, che fu di dividere a qualunque costo gl'innamorati; e a questo anche l'Ostessa per odio contro il proprio sangue la istigava, mettendola su con parole infinite e false calunnie.
La Regina scrisse una lettera al figliolo, e siccome la via del palazzo incantato l'avevano ritrovata, gliela mandò con ordine di tornare subito alla Reggia a riprendere il governo del popolo. Ma il Re gli rispose che stava là troppo bene e non voleva per niente separarsi dalla sua cara moglie e da' suoi bambini.
Allora la Regina ricorse a un ripiego: diede ad intendere al figliolo che la sua assenza aveva provocato l'ambizione del Re confinante, il quale s'era mosso colle sue genti ad assaltare lo Stato, di modo che lei stessa e il Regno si trovavano in gran pericolo, e il dovere del Re era quello di difendere tutti coll'armi e in persona. A colorire la invenzione richiese a un suo parente di radunare de' soldati a' confini, sicché paressero i nemici. Il Re, che sull'onore non ischerzava, cadette nella rete, e apparecchiossi a partire, come di fatto partì per il campo colle sue schiere, dopo avere raccomandato a sua moglie di essere prudente per iscansare le insidie di chi gli volesse male; anzi, tirato fuori un vestimento tutto pieno di sonaglioli, lo porse all'Ostessina, dicendogli:
"Se caso mai t'avviene qualche cosa a traverso e tu sei in risico, mettiti questo vestimento e scotilo, ch'io lo sentirò, quantunque lontano, e correrò senza indugio a darti soccorso."
Di lì a pochi giorni, eccoti càpita al palazzo un'ambasceria da parte della Regina madre a fine d'invitare l'Ostessina a portarsi in città con i due bambini, perché la Regina mandava a dirgli che voleva fare la conoscenza della moglie del suo figliolo, come pure dei nipoti; e che non avesse paura di nulla; anzi sarebbe onorata al pari di una Principessa. L'Ostessina, minchiona com'era, credette sincere le profferte della Regina; per cui, presi con seco i ragazzi, uscì dal palazzo assieme cogli ambasciatori e venne alla città. Giunta alla presenza della Regina, ci trovò accanto anche la sua cattiva madre: tutte e due la caricarono d'improperî, e finalmente la Regina diede ordine alle guardie che l'Ostessina si arrestasse e si buttasse in prigione co' figlioli; e volendo ammazzarla e spergere con lei la sua generazione, si consigliò coll'Ostessa. La quale, per isfogare la invidia rabbiosa che la rodeva, gli disse che facesse bollire una caldaia di olio e lì dentro sulla piazza pubblica ci gettasse l'Ostessina ed i figlioli. Era dunque tutto pronto per il supplizio, e l'Ostessina si rassegnava ormai al suo fine, quando si ricordò dell'avviso del suo caro sposo. E siccome in prigione gli avevano lasciato il fagotto de' panni, lei levò via da quello il vestito co' sonaglioli e se lo messe.
E arrivata che fu in piazza vicino alla caldaia dell'olio bollente, si dette a scoterli a tutto potere. Allo scampanellìo, eccoti comparisce il Re di galoppo sul suo cavallo. Veduto il brutto spettacolo e informatosi delle cose accadute, per la sua autorità di Re, comandò l'arresto della Regina e della Bella Ostessa. Ed il giorno appresso, radunato un Consiglio, tutte e due le malvage donne dovettero morire legate assieme, bollite in quella caldaja di olio, che era stata ordinata per l'Ostessina e pe' suoi figliuoli. Così il Re e l'Ostessina, liberati da ogni paura, regnarono amati da tutti; e se non fossero morti per la vecchiaja, vivrebbero tuttavia.

Il fosso sta tra il campo e tra la via;
Dite la vostra, che ho detto la mia.



Ne "La Novellaja Fiorentina", Vittorio Imbriani riporta, rendendole leggibili, diverse fiabe attinte dalla raccolta del prof. Gherardo Nerucci: "Sessanta Novelle popolari Montalesi". In questo caso, la n.29.
"La Bella Ostessina", è una di queste, la n. 6. Il testo originale è nella Pagina: Fiabe Popolari - Italia.
"La Bella Venezia", ovvero la Biancaneve della raccolta di Italo Calvino, è quasi identica.

Le caratteristiche de La Bella Ostessina, comuni a molte versioni autenticamente popolari, italiane e internazionali, e che, in parte, svelano l'autocensura perpetrata dai Grimm:
La Matrigna non esiste. E' la Madre che diventa l'assassina di Biancaneve.
La funzione del Cacciatore è svolta da un Servitore dell'Osteria - su cui gli pareva poterci contare - uno su cui l'Ostessa crede di poter fare affidamento (in versioni simili, si allude chiaramente che tale fiducia deriva da una relazione tra i due).
La Madre esige che il Servitore le riporti le mani, il core e una boccetta piena del sangue della figliola, e lo richiede a testimonianza del fatto. E già qui l'originale sete di sangue si edulcora in una più concreta pretesa di prove dell'avvenuto ammazzamento. Nessuna cena macabra.
Con molta coerenza rispetto al mestiere della Madre e al proprio, il Servitore, per ingannare l'Ostessa-madre, non scanna un animale selvatico, un bambi, ma un agnellino (acquistato da un pastore), che, presto o tardi, sarebbe finito comunque in casseruola.
Il soggiorno nella Foresta è obbligatorio, ma la casina piccinapicciò è un Palazzo degno di un re e i Nani sono sostituiti (ad esser precisi: i Nani sostituiranno...) da una vecchia, ostinata, burbera "Fata", che, nel rassicurare Biancaneve - Io sono una Fata di quelle bone - conferma una mia precedente osservazione: in Toscana, e non solo, soprattutto se le Streghe svolgono una funzione anche benigna (come ne La Bella e la Brutta), vengono chiamate immancabilmente Fate o le Mamme. A scanso di equivoci.
Da notare che in "Giricoccola", la buona ma intransigente "Madrina" è la Luna, e nella greca "Rodia", è Ecate, con tanto di feroce corteo, che s'imbatte, nella notte, in Biancaneve. Su: la Luna, Ecate e Biancaneve, vedi QUI.


Lauren Indovina


Sempre coerentemente con l'ambientazione popolare e popolana, gli oggetti di morte sono: un mazzo di fiori, delle schiacciate, e, infine, finti doni da parte dell'amante regale. Magistralmente sinistre le motivazioni che spingono l'Ostessa a scegliere proprio quegli oggetti da avvelenare: essendo la Madre, mostra di conoscere bene la vittima: "Siccome sapeva che gli piacevano i fiori" - "Sapendo che la sua figliola era ghiotta delle stiacciate" - "Sapendola alquanto ambiziosa e credenzona".
Evapora la Necrofilia del giovane Re, imbarazzante in altre versioni non solo di Biancaneve, ma, più genericamente, di tutte le fiabe comprendenti il motivo de La Bella nella Bara. Per l'appunto, sospettando che la morte dell'amata sia solo apparente, decide che spogliarla sia un ottimo sistema per accertarsene. E, poiché i vestiti regali intrisi di veleno erano l'ultimo "regalo" dell'Ostessa, la logica interna è salva.
Lo Specchio = la Strolaga. Ma la funzione dello Specchio, quella iniziale, che scatena la Disgrazia, è svolta dagli inconsapevoli, innocenti avventori dell'Osteria, che trasferiscono la propria villica ammirazione dalle mature grazie materne a quelle dell'acerba Ostessina.

Mab's Copyright

martedì 5 agosto 2014

La Vigilia di San Martino, Jeremiah Curtin

Inveragh, non molto lontano dalla città di Cahirciveen, viveva un allevatore di nome James Shea con la moglie e tre figli, due maschi ed una femmina. Era un uomo pacifico, onesto e molto caritatevole verso i poveri, ma sua moglie aveva un cuore di pietra e non dava mai nemmeno un sorso di latte ad un bisognoso.
Il figlio più giovane era in tutti i sensi cattivo come lei, era d'accordo con tutto ciò che la madre faceva, ed era sempre dalla sua parte.
Questo avvenne prima che strade ed automobili arrivassero sulle montagne del Kerry. A quei tempi, l'unico modo di viaggiare, se uno non voleva camminare, era cavalcare e l'unico modo di trasportare qualcosa al mercato era in ceste a dorso di cavallo. Accadde che James Shea stesse andando, all'inizio di novembre, a Cork con due barilotti di burro e ciò che lo angustiava maggiormente era il timore di non essere a casa per la notte di San Martino e onorare il santo: perché egli non aveva mai lasciato trascorrere quella notte senza versare del sangue in onore del santo. Per assicurarsene, chiamò il figlio maggiore e disse:
"Se non sarò a casa la notte di San Martino, uccidi la grossa pecora che corre con le mucche."
Shea andò a Cork con il burro ma non riuscì a tornare a casa in tempo.
La vigilia di San Martino, il figlio maggiore vide che il padre non rientrava e portò a casa la pecora. "Cosa stai facendo con quella pecora, sciocco?" chiese la madre. "Sto per ucciderla. Non hai udito mio padre dirmi che non vi è mai stata una notte di San Martino senza che egli versasse del sangue? Vuoi che la casa cada in disgrazia?"
A sentire questo, la madre si prese gioco del figlio e disse:
"Porta fuori quella pecora ed io ti darò qualcos'altro da uccidere."
Così il ragazzo portò fuori la pecora, pensando che la madre avrebbe ucciso un'oca. Sedette ed attese che la madre gli desse ciò che doveva uccidere. Dopo poco lei entrò, portando un grosso gattone che avevano in quella casa da nove o dieci anni. "Ecco, - disse lei - puoi uccidere questo animale e versare il suo sangue. Lo cucineremo per quando tuo padre tornerà a casa."
Il ragazzo andò in collera e disse alla madre:
"Di certo ora la casa sarà per sempre in disgrazia - disse - e non sarà facile per te soddisfare mio padre quando arriverà."
Non uccise il gatto, potete starne certi, e né lui né sua sorella mangiarono un boccone della cena e piansero e si crucciarono per tutta la sera la loro disgrazia. Quella stessa notte, la casa prese fuoco e bruciò completamente, e non ne rimase nulla all‟infuori delle quattro mura. La madre ed il figlio minore perirono tra le fiamme, il figlio maggiore e sua sorella scamparono per miracolo. Andarono in casa di un vicino fino al ritorno del padre, la sera seguente. Quando trovò la casa distrutta e la moglie ed il figlio più giovane morti, si lamentò e pianse. Ma, quando l'altro figlio gli raccontò quello che aveva fatto la madre la vigilia di San Martino, egli gridò:
"Ah, è stata la collera di Dio che si è abbattuta sulla mia casa; se mi fossi fermato a casa fino alla notte di San Martino, ora sarebbero tutti sani e salvi qui con me." La mattina seguente, James Shea andò dal prete e gli chiese se sarebbe stato buono per lui o positivo ricostruire la casa.
"In realtà, - disse il prete - non c'è nulla di male nel mettere un tetto sui muri e restaurarli, se farete celebrare una messa nella casa prima di andarci a vivere. Se lo farete, tutto andrà bene."
(Shea chiese al prete perché la gente si opponeva alla ricostruzione o al restauro di una casa bruciata, specialmente se vi era bruciato qualcuno dentro.)





Bene, James Shea mise un tetto sulla casa, la restaurò e vi fece celebrare all'interno una messa. Quella sera, Shea era seduto a cenare quando vide sua moglie entrare dalla porta ed andare verso di lui. Egli pensò che non fosse affatto morta. "Ah, Mary, -disse - non è così brutto come mi avevano detto. Certo, pensavo tu fossi morta. Oh, allora bentornata a casa; siediti, la cena è pronta." Ella non rispose una parola ma lo guardò dritto in viso e camminò fino alla stanza dall'altra parte della casa. Egli si alzò, pensando che la donna si sentisse male, e la seguì per aiutarla, chiudendo la porta della stanza dopo esservi entrato.




Non vedendolo tornare per parecchio tempo, il figlio pensò di andare a chiedere al padre perché non stava mangiando la cena. Quando entrò nella stanza, non vide segno di sua madre, non vide nulla tranne due gambe dal ginocchio in giù.
Gridò allora per chiamare la sorella, che giunse prontamente. "Oh, Dio misericordioso!" urlò la sorella.
"Sono le gambe di mio padre! - si lamentò il fratello - E, Mary, non riconosci le calze che hai fatto tu a maglia ed io non riconosco molto bene le scarpe?” Chiamarono allora i vicini e, con terrore di tutti, anch'essi non videro altro di James Shea che le due gambe e i piedi. Quella notte vi fu una veglia sui resti ed il giorno seguente seppellirono le due gambe. Alcuni consigliarono ai due ragazzi di non dormire mai più in quella casa, dissero loro che l'anima della madre era perduta, che era per quello che era venuta a mangiare il padre e che avrebbe mangiato anche loro. Così i due cominciarono a girare il mondo, senza curarsi molto di dove stessero andando pur di fuggire dalla madre.
La prima notte si fermarono alla casa di un allevatore non lontano da Killarney. Dopo cena, venne loro preparato un letto vicino al fuoco, nell'angolo, e giacquero là. Verso metà della notte, si udì fuori un grande rumore e la donna della casa chiamò suo figlio ed i servi perché si alzassero e andassero alla stalla delle mucche a vedere il perché esse cercassero di uccidersi a vicenda.




Si alzò per primo il figlio; quando, con due servi, uscì, vide il fantasma di una donna in catene. Ella si avvicinò loro ed in breve li uccise. Non vedendo tornare i ragazzi, l'allevatore e sua moglie si alzarono, spruzzarono dell‟acqua santa intorno alla casa, benedissero se stessi ed uscirono; e là videro il fantasma avvolto da fiamme blu e circondata da catene. In una stia per polli esterna vi era un gallo di marzo (un gallo nato in marzo da un gallo ed una gallina nati in marzo). Egli volò fuori dal suo posatoio e cantò dodici volte. In quel momento, il fantasma sparì. Ora i vicini si erano alzati e si sparse la notizia che i tre ragazzi erano stati uccisi.
Il fratello e la sorella non dissero una parola a nessuno ma, alzatisi presto, partirono per il loro viaggio, pregando per avere la protezione di Dio dovunque andassero. Non si fermarono mai né si riposarono fino a quando giunsero a Rathmore, vicino a Cork, e, andando in una fattoria, il ragazzo chiese alloggio nel nome di Dio.
"Vi darò alloggio nel nome di Dio" disse la moglie del fattore. Portò quindi dell'acqua calda perché i due ragazzi si lavassero mani e piedi, poiché erano sporchi ed esausti. Dopo cena, venne approntato per loro un letto e, circa alla stessa ora della notte precedente vi fu un grande rumore fuori.
"Alzati ed esci - disse la moglie del fattore - alcune delle mucche devono essersi slegate."
"Non andrò fuori a quest'ora della notte, se si sono slegate - disse l‟uomo - Resterò dove sono, anche se si ammazzano l'un l'altra, perché non è sicuro uscire prima del canto del gallo; dopo che avrà cantato, uscirò."
"Questo è vero per te - disse la moglie del fattore - e, parola mia, prima di venire a letto ho dimenticato di spruzzare dell‟acqua benedetta nella stanza e di benedire me stessa."
Così, prendendo la bottiglia che era appesa vicino al letto, ella spruzzò l'acqua intorno alla stanza e verso l'entrata e si fece il segno della croce. L'uomo non uscì fino al canto del gallo. Il fratello e la sorella partirono presto e viaggiarono per tutto il giorno. Quando giunse la sera, incontrarono un uomo di bell'aspetto che era fermo davanti a loro nella strada.
"Sembrate essere stranieri - disse - dove state andando?"
"Siamo stranieri - disse il ragazzo - e non sappiamo dove andare."
"Non avete bisogno di andare oltre. Vi conosco bene, la vostra casa è ad Iveragh. Io sono San Martino, inviato dal Signore a proteggere te e tua sorella. Tu stavi per versare il sangue di una pecora in mio onore, ma tua madre e tuo fratello si sono presi gioco di te e tua madre non ti ha permesso di fare ciò che tuo padre ti aveva detto. Vedi cos'è accaduto loro: essi sono perduti per sempre, entrambi. Vostro padre è salvo in paradiso, perché era un buon uomo. Vostra madre sarà presto qui e la concerò in modo tale che non vi darà mai più fastidio."
Prendendo una verga dal davanti del suo abito e intingendola in una fiala di acqua santa, tracciò un cerchio intorno al fratello ed alla sorella. In breve essi udirono arrivare la loro madre e la videro carica di catene il cui sferragliare era terribile, e da lei si alzavano delle fiamme. Ella giunse nel luogo dove stavano i ragazzi e disse: "Cattiva sorte ad entrambi voi, perché siete la causa della mia sofferenza." "Dio lo ha vietato - disse San Martino - Non sono loro la causa, ma tu stessa, perché sei sempre stata cattiva. Non mi hai voluto onorare ed ora devi soffrire per questo." Egli trasse fuori un libro e cominciò a leggere e, dopo che ebbe letto per alcuni minuti, le disse di andarsene e di non farsi mai più vedere in Irlanda fino al giorno del Giudizio. Ella si alzò nell'aria avvolta nelle fiamme e con tale rumore che avreste pensato che tutti i tuoni del cielo stessero rombando e tutte le case e i muri del Regno stessero crollando a terra. Il fratello e la sorella caddero in ginocchio e ringraziarono San Martino. Egli li benedisse e disse loro di alzarsi e, prendendo una tovaglietta dal davanti del suo abito, disse al fratello:
"Prendete con voi questo panno e tenetelo segreto. Non fate sapere a nessuno che lo avete. Se tu o tua sorella avrete bisogno, andate nella vostra stanza, chiudete la porta e sprangatela. Poi tirate fuori il panno e vi arriveranno cibarie e bevande in abbondanza. Tenete il panno sempre con voi, appartiene ad entrambi. Ora andate a casa e vivete in quella casa che ha costruito vostro padre e fatevi venire il prete a celebrare una messa di lunedì e vivete la vita che vostro padre ha vissuto prima di voi."
I due andarono a casa e vissero entrambi una buona vita. Si sposarono e, quando uno o l'altro di loro aveva bisogno del panno, vi faceva ricorso, e i loro nipoti vivono tuttora ad Iveragh. E questa è la verità, ogni parola, ed ho udito spesso la mia povera nonna raccontare questa storia, che Iddio Onnipotente faccia riposare la sua anima, e lei non diceva mai bugie. Conosceva James Shea e sua moglie molto bene.

(Raccontata da John Sheehy)

"Fate, Folletti e Spiriti Inquieti", Jeremiah Curtin

Ho preso in prestito le illustrazioni di  Santiago Caruso per Lovecraft.