sabato 13 agosto 2016

I Sette Colombi, Pentamerone, G.B. Basile

Sette fratelli partono di casa, perché la madre non dà loro una sorella; e, quando alfine la sorella viene alla luce, ed essi aspettano la notizia con certi segni, la madre sbaglia nel farli; onde essi vanno errando pel mondo. La sorella si fa grande, li cerca, li trova, e, dopo vari accidenti, tornano tutti ricchi alla casa loro.



'era una volta nella terra di Arzano una buona donna, che ogni anno scaricava un figlio maschio; cosicché vedevi una siringa del dio Pane a sette canne una più grande dell'altra. I sette figli, avendo mutato le prime orecchie [1], dissero alla madre lannetella, che era un'altra volta incinta: "Sappi, mamma cara, che se tu, dopo tanti figli maschi, non fai una femmina, noi siamo proprio risoluti ad abbandonare questa casa e ad andare pel mondo sperti, come i figli delle merle". E la madre, all'udire tale proposito, pregò il Cielo che avesse spogliato i figli di questo desiderio e tolto ad essa il pericolo di perdere sette gioielli.
Avvicinatosi il tempo del parto, i figli le dichiararono: "Noi ci ritiriamo a quella ripa che è di fronte: se partorisci maschio, metti un calamaio e una penna alla finestra; e, se femmina, metti un mestolo e una conocchia. A questo secondo segnale ce ne verremo alla casa a spendere il resto della nostra vita sotto le tue ali, ma, se vediamo segnale di maschio, scordati di noi: ci puoi metter nome penna".
Volle il Cielo che lannetella desse alla luce una bella bambinotta, e subito essa ordinò alla levatrice che facesse il segno convenuto ai figliuoli; ma questa fu cosi stordita e distratta che vi mise il calamaio e la penna. E i sette fratelli, senz'altro, si misero la via tra le gambe, allontanandosi dal paese.
Dopo tre anni di continuo viaggio, un giorno si trovarono in un bosco, dove gli alberi al suono di una fiumana che faceva contrappunto sulle pietre, danzavano l'imperticata e in quel bosco era la casa di un orco, a cui mentre dormiva erano stati cavati gli occhi da una femmina, e perciò colui era tanto fiero contro questo sesso che quante femmine gli venivano tra le grinfie, tante ne divorava. Stanchi dal viaggio e allancatI dalla fame, i giovani gli chiesero se per compassione voleva dar loro qualche boccone di pane; e l'orco rispose che avrebbe loro dato da vivere, se volevano mettersi al suo servizio, nel quale non c'era da far altro di più faticoso che, un giorno per ciascuno, guidarlo come un cagnolino.



Ai giovani parve di aver trovato la mamma e il padre, e, conchiuso l'accordo, restarono al servizio dell'orco, il quale, imparati i loro nomi, ora chiamava Giangrazio, ora Cecchetiello, ora Pascale, ora Nuccio, ora Pone, ora Pezillo e ora Carcavecchia, come si denominavano i sette fratelli. Abitavano essi in una stanza terrena della casa, e avevano dall'orco tanto da poter vivere.
Intanto, cresciuta la sorella e appreso che sette fratelli suoi, per una distrazione in cui era incorsa la levatrice, s'erano dati a errare pel mondo, e non se ne aveva più notizia, le venne pensiero di andarli cercando. E tanto fece e tanto disse alla madre, che questa, rintronata da tante preghiere e insistenze, la vestì da pellegrina e le dié licenza. Camminò e camminò la giovane Gianna, domandando sempre di terra in terra chi avesse visto sette fratelli; e tanto paese percorse che a una taverna, finalmente, ne raccolse notizie. Si fece allora insegnare la via per quel bosco; e una mattina, quando il Sole col temperino dei raggi rade gli scerpelloni che sulle carte del cielo ha scritto la Notte, si ritrovò in quel luogo, e con grande gioia fu riconosciuta dai fratelli, i quali maledissero quel calamaio e quella penna che, con modo da falsario, avevano prescritto loro tanti travagli. Per altro, dopo averle fatto mille carezze, la ammonirono di starsene ritirata nella camera loro, che l'orco non la sentisse, e, oltre a ciò, che di qualunque cosa da mangiare le venisse tra le mani, ne desse la parte a un gatto, che stava in quella camera: altrimenti, quella bestia le avrebbe fatto qualche male. Gianna scrisse questi consigli nel quaderno del cuore; e di ogni cosa che aveva, faceva col gatto da buon compagno, dicendo: "Questo a me, questo a te, questo alla figlia del re", e dividendo fino a un finocchio. Ma un giorno che i fratelli, per servizio dell'orco, erano andati a caccia, le lasciarono un panierino di ceci perché li cuocesse; ed essa, nel nettarli, vi trovò in mezzo, per caso, una nocciuola, la quale fu la pietra dello scandalo della sua pace, perché, messala in bocca senza darne la metà al gatto, questo, per dispetto, saltò sul focolare, pisciò sul fuoco e lo spense. Gianna, non sapendo come rimediare, usci di quella camera, ed, entrata nell'appartamento dell'orco, gli chiese un po' di fuoco. Sentita una voce di femmina, l'orco disse: "Ben venga il mastro! [2]. Aspetta un po', che hai trovato quello che vai cercando!". E, presa una cote e untala d'olio, cominciò ad affilare le zanne. Vide Gianna che il carro era male avviato, e, afferrato un tizzone, si rifugiò nella camera sua e puntellò la porta, non lasciando di gettarvi dietro stanghe, sedie, sgabelli di letto, cassettine, pietre, e quant'altro era nella stanza. L'orco, dato ch'ebbe il filo ai denti, corse alla camera di giù, e, trovatala serrata, cominciò a batterla a furia di calci per sfasciarla. Tra quel fracasso, arrivarono i sette fratelli, e, al sentire il rumore, e l'orco che strepitava rimbrottandoli come traditori per aver fatto della loro camera l'asilo dei suoi nemici, Giangrazio, che era il maggiore e aveva maggior senno e avvertiva che la cosa andava male, disse all'orco: "Noi non sappiamo niente di questa faccenda, e potrebbe darsi che cotesta maledetta femmina sia entrata nella nostra camera per disgrazia, mentre eravamo alla caccia; ma, poiché si è fortificata di dentro, vieni con me, che
ti conduco in luogo dal quale le daremo addosso senza che possa difendersi". Cosi, preso l'orco per la mano, lo menò dov'era un fosso profondo, e là i fratelli gli dettero una spinta, lo precipitarono nel trabocco e con una pala, che si trovarono a mano, lo copersero di terra. Poi, fecero aprire la stanza dalla sorella e la rimproverarono assai del fallo che aveva commesso e del rischio, al quale s'era posta.
"Per l'avvenire - le dissero - sta' più attenta, e, soprattutto, guardati dal raccogliere erba intorno al luogo nel quale è sepolto l'orco, perché, se questo tu facessi, diventeremmo, tutti e sette, colombi".
"Il Cielo mi guardi - rispose Cianna - ch'io vi apporti questo danno!". Cosi si posero nella roba dell'orco e, padroni della casa, stavano allegramente, aspettando che passasse l'invernata, e, quando il Sole avrebbe dato per strenna alla Terra della possessione presa nella casa del Tauro una gonnella verde ricamata di fiori, si sarebbero messi in viaggio per tornare alla casa loro.
Accadde che, trovandosi i fratelli alla montagna a far legna da ardere per ripararsi dal freddo che diventava di giorno in giorno più rigido, passò per quel bosco un povero pellegrino, il quale, avendo dato la baia a un gatto mammone, arrampicato sopra un pino, era stato da quello colpito alla testa da un frutto di quest'albero e ne aveva riportato un cosi enorme bernoccolo, che lo sciagurato urlava come anima dannata. Gianna, venuta fuori alle strida, impietosita, colse subito una cima di rosmarino da un cespo che era nato sulla fossa dell'orco e, cuocendola con pane masticato e sale, gli fece un empiastro sulla ferita, e poi, datogli da colazione, lo accommiatò e si mise ad apparecchiare la tavola, aspettando i fratelli. Ed ecco arrivare invece sette colombelli, che le dissero:
"Oh tu, che sei causa di tutto il male nostro, meglio che ti si fossero fatte cionche le mani, prima di cogliere quel maledetto rosmarino, che ora ci fa andare per la marina! E che? hai mangiato cervello di gatto, o sorella, che ti sei lasciato scappare dalla memoria l'avvertimento nostro? Per te, siamo diventati uccelli, soggetti agli artigli dei nibbi, degli sparvieri e degli astori: per te siamo fatti compagni di meropi, di capinere, di cardellini, di strigi, di gufi, di piche, di gazze, di colbianchi, di fanelli, di tarabusi, di vede, di allodole, di sciabiche, di beccacce, di lucherini, di fringuelli, di regoli, di cinciallegre, di capirossi, di collitorti, di strisciaioli, di balie, di tuffetti, di forasiepi, di ranocchiaie, di ballerine, di marzaiole, di bubbole. Hai fatto la bella prova! Ora sì, che siamo tornati al paese nostro per vederci tese reti e preparato vischio! Per sanare la testa di un pellegrino, l'hai fracassata a sette fratelli! E rimedio non c'è al male nostro, se tu non trovi la mamma del Tempo, che t'insegni la via a cavarci da quest'affanno".


Goble W.



Gianna, come quaglia pelata per l'errore che aveva commesso, chiese perdono ai fratelli e s'offerse di tanto girare pel mondo finché trovasse la casa della vecchia; e, pregandoli di starsene sempre in casa per evitare qualche sciagura, s'incamminò. E andò andò senza stancarsi mai, che, quantunque camminasse a piedi, il desiderio di aiutare i fratelli le serviva da mula di procaccio, con la quale faceva tre miglia all'ora. Giunta a un lido dove il mare, con la ferula delle onde, batteva gli scogli che non rispondevano al compito di latino da esso loro assegnato, vide una grossa balena, che le disse:
"Bella giovane mia, perché vai in giro?".
E Gianna:
"Vado cercando la casa della mamma del Tempo".
"Sai che devi fare? - le rispose la balena. - Va' sempre diritto per questa marina, e al primo fiume che trovi, volgi in su, che incontrerai chi ti mostrerà il cammino. Ma fammi un piacere: quando sarai da quella buona vecchia, domandale per grazia da mia parte che mi dia qualche rimedio che io possa camminare sicura senza urtarmi tante volte agli scogli e dar tante volte nell'arena".
"Lascia fare a me ", disse Gianna; e, ringraziatala per le indicazioni che le aveva fornite, riprese a trottare per la spiaggia. Dopo lungo viaggio, giunta a quel fiume che, come commissario di fiscale, sborsava monete d'argento alla banca del mare, si volse a risalirlo, e in una bella campagna, dove il prato faceva la scimmia al cielo col mostrare stellato di fiori il suo manto verde, trovò un topo, che le disse: "Dove vai cosi sola, bella donna?".
Ed essa: "Cerco la mamma del Tempo"
"Troppo hai da camminare - soggiunge il topo - ma non perderti d'animo: ogni cosa ha capo. Cammina pure verso quelle montagne, che, come libere signore di questi campi, si fanno dare il titolo d'altezza, e sempre avrai migliore notizia intorno a quel che chiedi. Ma fammi un piacere: quando sarai giunta alla casa che desideri, fatti dire da quella buona vecchierella qual rimedio potremmo trovare per liberarci dalla tirannia dei gatti; e poi comandami, che m'avrai comprato per schiavo".
Gianna glielo promise e si avviò verso quelle montagne, le quali, quantunque paressero vicine, non si arrivavano mai. Alla fine pur vi giunse, e, stracca, si sedette sopra una pietra, dove vide un esercito di formiche che trasportavano una gran provvista di grano, e una di esse, volgendosi a Gianna, le disse:
"Chi sei? Dove vai?".
E Gianna, ch'era cortese con tutti, rispose:
"Io sono una giovane sfortunata, che, per cosa che m'importa, cerco la mamma del Tempo".
"Vai più oltre - disse la formica - che, allo sboccare di quelle montagne, in una grande largura, te ne sarà data notizia; ma rendimi un gran piacere. Vedi d'intendere da quella vecchia che cosa potremmo fare noi altre formiche per campare qualche tempo; che mi sembra una grande pazzia delle cose terrene di dover mettere insieme tanto cumulo e provvista di cose da mangiare per una vita cosi breve, la quale, come candela per incanti, alla migliore offerta degli anni, si spegne".
"Sta' tranquilla - disse Gianna, - che ti voglio rendere la cortesia che mi hai fatta".
Passate quelle montagne, si vide in una bella pianura, nella quale, dopo aver camminato a lungo, trovò una grande quercia, testimone dell'antichità, confetti di quella sposa che stava contenta e boccone di dolcezze perdute, che non dà più il Tempo a questo secolo amaro; e quell'albero, formando labbra della scorza e lingua del midollo, disse a Gianna:
"Dove, dove vai cosi affannata, giovane mia? Vieni all'ombra mia e riposati".
Essa, dicendole gran mercé, si scusò perché andava in fretta a trovare la mamma del Tempo. La quercia, udito questo, le rispose:
"Tu ne sei poco lontana, e non camminerai un'altra giornata che vedrai sopra una montagna una casa, dove troverai quello che cerchi. Ma, se hai tanta cortesia quanta bellezza, procura di sapere che cosa potrei fare per ricuperare l'onore perduto; perché da pasto di uomini grandi sono fatta cibo di porci".
"Lasciane il pensiero a Gianna - essa rispose - che vedrò di servirti".
Cosi detto, parti e, camminando senza riposar mai, giunse a piede di una montagna guastafeste, che andava col capo a dar fastidio alle nuvole. Qui trovò un vecchietto, che, per stanchezza del cammino, s'era coricato in mezzo al fieno; il quale, allo scorgere Gianna, la riconobbe per quella che gli aveva medicato il bernoccolo. E, quando udì quel che la giovane andava cercando, le disse ch'esso portava il censo al Tempo dell'affitto della terra che aveva seminata, e che il Tempo era un tiranno, il quale s'era usurpate tutte le cose del mondo e voleva tributo da tutti, e particolarmente da uomini dell'età sua; e, poiché aveva ricevuto beneficio dalla mano di Gianna, glielo voleva rendere a cento doppi col darle qualche buon avvertimento circa la venuta sua a questa montagna, sulla quale gli spiaceva di non poterla accompagnare, perché l'età sua, condannata piuttosto a scendere che a salire, lo costringeva a restare alle falde di essa per saldare i suoi conti con gli scrivani del tempo, che sono i travagli, i disgusti e le infermità della vita, e pagare il debito alla natura. E perciò le disse:
"Ora ascolta bene, bella figlia mia senza peccato. Sappi che sulla cima di quella montagna troverai una rovina di casa, che non c'è memoria di quando fu fabbricata: le mura sono screpolate, le fondamenta fracide, le porte tarlate, i mobili muffiti, e, insomma, ogni cosa consumata e distrutta; e di qua vedi colonne rotte, di là statue spezzate, non essendoci altro di sano fuorché un'arma sopra la porta inquartata, dove vedrai un serpente che si morde la coda, un cervo e una fenice [3]. Come sarai entrata colà, vedrai per terra lime sorde, seghe, falci e potatoi, e cento e cento caldaiette di cenere coi nomi scritti come alberelli di speziali, dove si leggono Corinto, Sagunto, Cartagine, Troia, e mille altre città andate a perdimento, le quali esso conserva per memoria delle sue imprese. Ora, quando sarai vicina a quella casa, tirati da parte e sta' nascosta fintanto che esce il Tempo, e allora ficcati là dentro e vi troverai una vecchiona, che col mento tocca la terra e con la gobba giunge al cielo; i capelli, come coda di cavallo leardo, le coprono i talloni; la faccia sembra un collare a lattughe, con le crespe rigide per l'amido degli anni; e se ne sta seduta sopra un orologio conficcato nel muro, e, poiché le palpebre sono cosi grosse che le coprono gli occhi, non ti potrà vedere. Tu, appena entrata, togli senz'altro i contrappesi all'orologio, e poi chiama la vecchia e pregala di soddisfarti di quel che desideri. Essa darà subito una voce al figlio, che venga a mangiarti; ma, poiché all'orologio, che la madre ha sotto di sé, mancano i contrappesi, quello non potrà muovere passo, e cosi sarà costretta a concederti quello che vuoi. Ma non credere a nessun giuramento che ti faccia, se non giura per le ali del figlio: allora, dàlle fede e fa' quello che ti dice, perché sarai contentata".


Harry L. James




Nel dir ciò, quel poveretto restò disfatto come corpo morto giacente in un ipogeo, quando è messo alla luce dell'aria. E Gianna prese quella cenere e, mischiatovi un misurino di lacrime, scavò una fossa e ve la seppellì, pregandole dal Cielo quiete e riposo. Ascesa poi la montagna, la quale le dié l'affanno, aspettò che uscisse di casa il Tempo, che era un vecchio con una barba lunga lunga: portava un mantello vecchio vecchio, che era tutto pieno di cartellini cuciti coi nomi di questo e di quello, e aveva l'ali grandi e correva cosi veloce, che essa lo perse subito di vista. E, quando entrò nella casa della mamma, Gianna ebbe a sbigottire a mirare quel tristo sfasciume; e, afferrati e portati via i contrappesi, rivolse alla vecchia le sue domande. Essa gittò un grido, chiamando il figlio; ma Gianna le disse:
"Puoi cozzare la testa nel muro, ma non vedrai tuo figlio, perché ho io in mano i contrappesi".
E allora la vecchia, vedendosi tagliati i passi, prese a lusingarla:
"Lasciali andare, bene mio, non impedire la corsa a mio figlio, cosa che non ha fatto ancora uomo vivente al mondo. Lasciali andare, che Dio ti guardi, e io ti prometto per l'acqua forte di mio figlio, con la quale rode ogni cosa, che non ti farò male".
"Perdi tempo - rispose Gianna - devi dir meglio, se vuoi che io li lascio".
"Ti giuro per quei denti, che rodono tutte le cose mortali, che ti farò conoscere quanto desideri".
"Non ne fai nulla - replicò Gianna, - perché so che tu mi gabbi".
E la vecchia: "Orsù, io ti giuro per quelle ali che volano dappertutto, che ti voglio fare maggior piacere di quello che immagini".
E Gianna, lasciati andare i contrappesi, baciò la mano alla vecchia, che sentiva di muffa e di tanfo. La vecchia, vedendo la buona creanza della giovane, le disse:
"Nasconditi dietro questa porta, che, quando il Tempo sarà venuto, mi farò dire quel che vuoi sapere. E quando esso torna a uscire, poiché non sta mai fermo in un posto, tu puoi svignartela; ma non ti far sentire, perché è cosi mangione, che non perdona neanche ai figli e, quando tutt'altro manca, si mangia se stesso e poi torna a rigerminare".
Gianna fece quanto le disse la vecchia, e intanto sopravvenne il Tempo, che, presto presto, svelto e leggiero, rosicchiato tutto ciò che gli venne tra mano, perfino il calcinaccio delle mura, mentre stava per ripartire, la madre lo interrogò intorno a tutte le cose chiestele da Gianna, pregandolo, pel latte che gli aveva dato, di darle le risposte. Dopo mille preghiere, il figlio le rispose:
"All'albero si può dire che non sarà mai caro alle genti, finché tiene sotto le sue radici sepolti tesori. Al topo, che non mai sarà libero dal gatto, se non gli attacca un campanello alle gambe per sentire quando viene. Alla formica, che camperà cento anni, se può astenersi dal volare, che, quando vuol morire, la formica mette le ali. Alla balena, che faccia buona céra e si tenga per amico il topo marino, il quale le servirà da guida, e cosi non andrà mai di traverso; e ai colombelli, che, quando faranno il nido sulla colonna della ricchezza, torneranno all'essere di prima".
Ciò detto, riprese a correre la solita posta. Gianna, licenziatasi dalla vecchia, discese al basso della montagna, nel tempo stesso che vi erano giunti, seguendo le orme della sorella, i sette colombelli, i quali, stanchi dal tanto volare, andarono tutti a posarsi sulle corna di un bue morto; e non appena vi si erano fermati che diventarono bei giovani come prima. Meravigliati di ciò, sentirono la risposta del Tempo e compresero che il corno, come simbolo della copia, era la colonna della ricchezza, accennata dal Tempo.






Dopo aver fatto una grande festa con la sorella, tutti insieme si avviarono per la via già percorsa da Gianna, e, giunti presso l'albero di quercia e riferitogli il pensiero del Tempo, l'albero li pregò di levargli di sotto il tesoro, che era causa che la ghianda fosse scapitata di riputazione. I sette fratelli, presa una zappa, ch'era in un orto, tanto scavarono finché scoprirono un grosso vaso pieno di monete d'oro, le quali divisero, in otto parti, tra essi e la sorella, per poterle portare più comodamente. Il viaggio e il peso furono cagione che il sonno li vincesse, onde si stesero a dormire presso una siepe. Ma una banda di malandrini, che capitò in quel luogo, vistili immersi nel sonno, con la testa appoggiata agl'involti di tornesi, li legarono con le mani e coi piedi agli alberi vicini, si presero i quattrini, e li lasciarono a far lamento, non solo del bene che, appena afferrato, era loro scappato di mano, ma anche della vita loro, giacché, privi di ogni speranza di aiuto, stavano a rischio o di morire consumati dalla fame o di placare la fame di qualche animale selvaggio. E, mentre si dolevano della loro atroce sorte, giunse il topo, che, udita la risposta del Tempo, per rimeritare il servigio, rosicchiò le cordicelle con cui stavano legati e li rimise in libertà. Camminarono un altro buon tratto e per la strada incontrarono la formica, la quale, udito il consiglio del Tempo, domandò a Gianna che cosa avesse che se ne stava così abbattuta e gialliccia di colore; ed essa le narrò la disgrazia sofferta e il tiro giocato loro dai ladri.
"Zitto! — le rispose la formica, - che mi si presenta il modo di ricambiarvi il favore che ho ricevuto da voi. Sappiate che, mentre trasportavo sotto terra un carico di grano, ho visto il luogo ove cotesti cani assassini nascondono i furti loro, certe grotticelle sotto una vecchia fabbrica, nelle quali stivano le cose rubate; e, ora che essi sono in giro per qualche altra rapina, vi ci voglio accompagnare e insegnarvi il posto, tanto che possiate ricuperare il vostro".
E s'avviò verso certe case in rovina e indicò ai sette fratelli l'apertura di un sotterraneo, nel quale calatosi Giangrazio, come più animoso degli altri, trovò tutti i danari che erano stati loro tolti, e se li ripresero. Andarono, dopo di ciò, verso la marina, dove dissero alla balena il buon avviso datole dal Tempo, che è padre di consigli; e, mentre stavano discorrendo del viaggio che avevano fatto e dei casi incontrati, videro spuntare quei bricconi, armati fino ai denti, che erano venuti sulla pista delle loro pedate.
"Oimè! - gridarono - questa è la volta che non resterà nulla di noi sventurati, perché già ci sono addosso i ladroni armata mano, e ci toglieranno la vita!".
"Non dubitate - disse la balena, - che io son buona a cavarvi dal fuoco per rendervi il ricambio del buon amore che mi avete mostrato. Orsù, montate sul mio dorso, che subito vi trasporterò in luogo sicuro".
I meschini, che si vedevano i nemici alle spalle e l'acqua davanti, salirono sulla balena, la quale, allontanandosi dagli scogli, li portò alla volta di Napoli, dove, non confidando di sbarcarli per esservi poco fondo, disse loro:
"In qual punto volete che vi lasci della costa di Amalfi?".
Giangrazio rispose:
"Vedi se possiamo farne di meno, bel pesce mio, perché in nessuno di cotesti luoghi approdo contento. A Massa si dice salute e passa; a Sorrento, stringi i denti; a Vico, porta pane con teco; a Castellamare, né amico né compare [4] ".
La balena, per far loro gradimento, voltò carena verso lo scoglio del Sale [5], dove li lasciò, e di là, dalla prima barca di pescatori che si trovò a passare, si fecero mettere a terra. Cosi tornarono al loro paese sani, belli e ricchi, e consolarono la madre e il padre, e godettero per la bontà di Gianna una vita felice, la quale aggiunse una fede autentica all'antico motto:

Sempre che puoi, fa' bene e te ne scorda.


"Li Sette Palommielle", Cunto Ottavo della Giornata Quarta, Pentamerone di G.B. Basile.
Traduzione di B. Croce.
Il testo in lingua originale è nella Pagina: "G.B. Basile".

Dalle note di B. Croce:

[1] Detto scherzoso, già incontrato di sopra: quasi le orecchie si mutassero nei fanciulli come i denti. 
[2] Parole di un giuoco. 
[3] Simboli del ritorno, della velocità e del risorgere.
[4] Proverbi scherzosi, che corrono ancora intorno a queste varie terre della penisola sorrentina. 
[5] Dinanzi alla punta di Posilipo è segnata nella Mappa di N. Petrini, e in altre carte del settecento, uno scoglio col nome di "Pietra salata", che è probabilmente quello al quale il Basile pensava: il Basile, che sembra fosse nato appunto a Posilipo, perchè nelle Avventurose disavventure, la cui scena è posta a Posilipo, narrando la propria vita, dice (III, 10): "... in prima gli occhi apersi in questa propria riva al chiaro giorno".

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