lunedì 22 maggio 2017

Cannetella, Pentamerone, Giornata Terza, Trattenimento Primo

Cannetella non trova marito che le vada a genio; ma il suo peccato la fa incappare nelle mani d'un orco, che la condanna a trista vita, finché da un votacessi, vassallo di suo padre, è liberata.


'era una volta un re di Bellopoggio, che aveva maggiore brama di fare razza che non hanno i facchini delle esequie per raccogliere la cera. Tanto che promise per voto alla dea Siringa che, se gli faceva fare una figlia, le avrebbe messo nome Cannetella [1], per memoria che essa si era trasformata in canna. E tanto pregò e strapregò che ottenne la grazia, ed ebbe da Renzolla, sua moglie, una bella bambinetta, alla quale mise il nome che aveva promesso.
Cannetella crebbe a palmi e diventò lunga quanto una pertica. E allora il re le disse:
"Figlia mia, già sei fatta (e il Cielo ti benedica) come una quercia, e sei nel punto giusto di accompagnarti con un maritino, meritevole di cotesta bella faccia tua, per mantenere la razza della casa nostra. Perciò io, che ti voglio bene quanto le pupille degli occhi miei e bramo il piacer tuo, desidero conoscere la qualità di sposo che tu vorresti. Quale sorta d'uomo ti andrebbe a genio? Lo vuoi letterato o spadaccino? garzoncello o attempato? brunetto o bianco e rosso? lungo della persona o bassottino? stretto nei fianchi o tondo come un bue ? Tu scegli ed io metto la firma ".
Cannetella, che senti queste larghe offerte, ringraziò il padre e gli dichiarò dapprima che essa aveva consacrato la sua verginità a Diana, né voleva per niun conto andarsi a perdere con un marito. Per altro, alle preghiere insistenti del re, fini coi rispondere:
"Per non mostrarmi sconoscente a tanto amore, mi contento di fare la volontà vostra; ma a patto che mi sia dato un uomo tale che non vi sia l'altro al mondo".
Lieto di questa risposta, il padre si pose dalla mattina alla sera alla finestra, squadrando, misurando e scandagliando tutti quelli che passavano per la piazza dinanzi al palazzo reale. Passò, finalmente, un uomo di assai buon garbo, ed egli disse alla figlia:
"Corri, affacciati, Cannetella; e vedi se costui è a misura delle voglie tue".
Ed essa lo fece venir su, e gli offersero un bellissimo banchetto, dove c'era quanto si possa mai desiderare. Senonché, nel mangiare, cadde dalla bocca al fidanzato una mandorla; ed egli, chinatosi, la ripigliò destramente e la pose sotto la tovaglia, e, finito il desinare, se ne andò. II re disse a Cannetella: "Come ti piace il fidanzato, vita mia?".
Ed essa: "Toglimelo dinanzi cotesto goffo, perché un uomo grande e grosso come lui non doveva lasciarsi sdrucciolare una mandorla dalla bocca".
Il re, udito questo, andò ad affacciarsi un'altra volta; e, passando un altro giovane di buon taglio, chiamò la figlia per sapere se trovasse grazia presso di lei. Come la prima volta, Cannetella volle che salisse, e gli fu dato un banchetto; e, quando si fini di mangiare e quello si accommiatò, il re chiese alla figlia come gli piacesse.
"Che ne voglio fare - essa rispose - di quello sgraziato? che doveva condurre con sé per lo meno due servitori, che gli levassero dalle spalle il ferraiuolo".
"Se è cosi - disse il re, - è pasticcio: coteste sono scuse da cattivo pagatore, e tu vai cercando peli per non darmi il gusto che ti chiedo. Risolviti, perché io ti voglio maritare, e trovare radice valida a far germogliare la successione della mia casa ".
A queste parole stizzose, Cannetella parlò aperto:
"Per dirvela, tata e signore, chiaro e come la sento, voi vangate nel mare e fate male il conto con le dita, perché io non mi assoggetterò ad uomo vivente, se non sarà tale che abbia il capo e i denti d'oro".
E il travagliato re, sentendo che quella testa era dura, fece gettare un bando che chi nei suoi domini si trovasse conforme al desiderio della figliuola, si facesse avanti perché gliela darebbe in moglie insieme col regno.
Aveva questo re un gran nemico, chiamato Fioravante, tanto da lui aborrito che non poteva vederlo neppur dipinto su un muro; il quale, udito il bando, poiché era un bravo necromante, chiamò una frotta di quelli che lontani siano, e comandò che gli facessero subito la testa e i denti d'oro. Risposero quelli che solo grandemente sforzati gli avrebbero reso questo servigio, per essere cosa assai strana nel mondo, laddove piuttosto gli avrebbero fornito le corna d'oro, come più usitate al tempo d'oggi [2], Ma egli li costrinse con scongiuri e incantamenti, e, infine, ne venne soddisfatto; e, quando si vide testa e denti di ventiquattro carati, andò a spasseggiare sotto le finestre del re.
Il re, a cui venne sott'occhio proprio quello che cercava, chiamò la figlia, la quale, guardando, subito disse:
"Questo è quello: non potrebbe essere migliore, se lo avessi impastato con le mani mie stesse".
E, quando Fioravante stava per levarsi e andar via, il re gli disse:
"Aspetta un po', fratello: come sei caldo di reni! Sembra che stii col pegno presso il giudeo, e che abbi l'argento vivo dietro e il pungolo sotto la codola. Piano, che ora ti do bagagli e gente per accompagnare te e mia figlia, che voglio che ti sia moglie".
"Vi ringrazio - rispose Fioravante: - non ce n'è bisogno. Basta solo un cavallo, perché me la metto in groppa e me la porto a casa mia, dove non mancano servitori e mobili quanti l'arena".
Contrastarono per un pezzo, ma, in fine, Fioravante la vinse, e, alzatala sul cavallo, parti.
Alla sera, quando dal mulino del cielo si distaccano i cavalli rossi e vi si mettono i bovi bianchi, giunsero a una stalla, dove alcuni cavalli stavano alla mangiatoia. Lo sposo vi fece entrare Cannetella e le disse: "Bada bene! debbo fare una corsa fino alla mia casa, che ci vogliono sette anni per giungervi. Aspettami in questa stalla, e non venirne fuori, non lasciarti vedere da alcuno; perché, altrimenti, farò che te ne ricordi fino a quando sarai viva e verde".
Cannetella rispose: "Io ti son soggetta ed eseguirò il tuo comando in ogni puntino; ma vorrei sapere che cosa mi lasci per mantenermi in vita durante questo tempo".
Replicò Fioravante: "Quel che rimane di biada a questi cavalli, basterà per te".


H.J. Ford




Considera ora che cuore fece la misera Cannetella, e se bestemmiò l'ora e il punto che aveva impegnato la volontà sua! Rimase fredda e gelata, e tanto largo pasto fece di lacrime quanto scarso di cibo, maledicendo la sorte e accusando le stelle di averla ridotta dal palazzo reale alla stalla, dai profumi al puzzo del letame, dalle materasse di lana barbaresca alla paglia, e dai buoni bocconi saporiti agli avanzi dei cavalli. Passarono tuttavia un paio di mesi di questa vita stentata, in cui ogni giorno si versava biada ai cavalli e non si vedeva da chi, ed essa, coi rilievi di quella mensa, sostentava il corpo suo.
In capo a quel tempo, affacciandosi a un pertugio, ammirò un giardino bellissimo, dov'erano tante spalliere di cedrangoli, tante grotte di cedri, tanti quadri di fiori e tanti alberi da frutta e pergole d'uva, che formavano una gioia agli occhi. E a lei venne voglia di un grappolo d'uva moscadella, che aveva adocchiato, e disse tra se: "Voglio uscire piano piano a strapparlo, e avvenga quel che voglia, e caschi il cielo! Che può accadere mai, di qua a cento anni? Chi glielo vuol dire, a mio marito? E, se anche lo venisse a sapere per disgrazia, che cosa mi può fare, infine? Questa è uva moscadelia, e non uva cornicella!". Cosi usci dalla stalla, e si ricreò lo spirito, assottigliato dalla fame.
Di li a poco, prima del tempo stabilito, tornò il marito; e un cavallo, di quelli che erano nella stalla, accusò Cannetella di aver preso l'uva. Fioravante, sdegnato, cavò di tra i calzoni un coltello e voleva ucciderla. Ma essa si gettò a terra in ginocchi, e lo pregò di arrestare la mano, perché la fame caccia il lupo dal bosco; e tante cose aggiunse che Fioravante si placò.
"Per questa volta - le disse, - ti perdono, e ti concedo la vita per limosina; ma, se un'altra volta il diavolo ti tenta, e io vengo a sapere che tu ti lasci vedere al sole, ti taglierò a minuzzoli. Dunque, sta' in cervello, che vado fuori un'altra volta, e veramente vi resterò sette anni; e solca diritto, che non te la caveresti franca, ed io ti farei scontare il nuovo e il vecchio".
Riparti, e Cannetella versò una fontana di lacrime, e, battendo le mani e percotendosi il petto e strappandosi i capelli, si lamentava: "Oh che non fossi stata mai generata al mondo, giacché mi doveva toccare questa sorte acerba! Oh, padre mio, come mi hai affogata! Ma perché mi dolgo di mio padre, se io stessa mi son fatta il danno, io stessa mi sono fabbricata la mia sventura? Ho desiderato la testa d'oro per cader di piombo e morir di ferro. Oh, come mi sta bene che, per aver voluto d'oro i denti, fo adesso il dente d'oro! È castigo del Cielo: io doveva ubbidire alla volontà di mio padre, e non aver tanti ruzzi e capricci. Chi non ascolta madre e padre, fa la via che non sa".
Non c'era giorno che non ripetesse questo lamento, sicché gli occhi suoi erano diventati due fontane e la faccia cascante e gialliccia, che moveva a pietà. Dove erano più quegli sguardi saettanti? dove quelle mele vermiglione? dove il risolino di quella bocca? Neppur il padre l'avrebbe più riconosciuta. Ora, a capo d'un anno, per caso, passò dinanzi alla stalla il votacessi di corte, che Cannetella conobbe e chiamò, venendo fuori. Colui, che s'udi chiamare per nome, non ravvisando la povera giovane, tanto era mutata, ebbe a stupire. Ma, quando seppe chi essa era, e per qual modo si trovasse cosi cangiata dall'esser suo, in parte per pietà, in parte per guadagnarsi la grazia del re, la mise in una botte vuota che portava con sé, sopra una soma, e trottò alla volta di Bellopoggio.
Arrivarono al palazzo del re verso le quattro di notte, e, avendo picchiato alla porta, i servitori si affacciarono, e, quando sentirono che era il votacessi, gli scaricarono una doppia soma d'improperi, chiamandolo animale senza discrezione, che veniva a quell'ora a disturbare il sonno a tutti, e che se la cavava a buon mercato se non gli facevano piombare qualche sasso o macigno sulla zucca. Ma il re, destatosi al rumore, e avendogli un cameriere detto chi era che bussava, ordinò di farlo subito entrare, considerando che, se a un'ora cosi insolita si era presa la confidenza di recarsi a palazzo, qualche gran cosa doveva essere accaduta.
Alla presenza del re, il votacessi, scaricata la soma, apri la botte, dalla quale usci Cannetella, che ci volle altro che parole per farsi riconoscere dal padre; e, se non fosse stato per una verruca che essa aveva al braccio destro, poteva tornarsene indietro. Ma, poiché si fu accertato del fatto, il re l'abbracciò e la baciò mille volte; e le fece preparare subito una lavanda calda, e, quando si fu ripulita e rassettata, le die da colazione, che essa veniva meno dalla fame.



H.J. Ford


"Chi me l'avesse detto, figlia mia - andava esclamando il padre, - di rivederti in questo stato! E che faccia è questa? Chi t'ha ridotta in questi mali termini?".
La fìglia gli rispose: "Cosi sta la cosa, signore mio bello! Quel turco di Barberia m'ha fatto patire strazi da cane, e mi son visto ognora lo spirito ai denti. Ma non vo' dirti quello che ho sofferto, perché è cosa che, quanto supera il sopportamento umano, altrettanto passa la credenza degli uomini. Basta, ora son qui, padre mio; e non voglio più partire dai piedi tuoi: voglio piuttosto esser serva alla casa tua che regina in casa d'altri; piuttosto strofìnacciolo dove tu stai, che manto d'oro, lontana da te; voglio piuttosto girare uno spiedo alla tua cucina, che tenere uno scettro sotto il baldacchino altrui". In questo mezzo, Fioravante tornò dal suo viaggio, e i cavalli gli riferirono che il votacessi aveva trafugato Cannetella in una botte. Ed esso, subito, tutto scornato per la vergogna, tutto acceso di sdegno, corse difilato a Bellopoggio, e, trovata una vecchia che abitava di fronte al palazzo reale, le disse: "Chiedimi la somma che vuoi, madama mia, e lasciami vedere la figlia del re".
Quella gli chiese cento ducati; e Fioravante, messa mano alla cintura, glieli contò subito l'un sull'altro. La vecchia lo fece salire sul battuto della sua casa, dal quale vide Cannetella in una terrazza che s'asciugava i capelli [3].
Cannetella, come se il cuore le avesse parlato, si girò nel punto stesso dall'altra parte, e, avvedutasi dell'agguato, si precipitò per le scale al padre, gridando:
"Signore mio, se non mi fate, in questo momento stesso, una camera con sette porte di ferro, io sono andata".
"Per cosi poco ti vorrò perdere? - disse il re. - Si spenda un occhio e si dia soddisfazione a questa bella figlia mia!".
E subito - una toccata, una giocata, - furono fabbricate le porte.
Fioravante, saputo ciò, tornò alla vecchia, e le disse: "Che cos'altro vuoi da me? Ti darò quel che chiedi. Ma va' alla casa del re col pretesto di vendere qualche scodellino di rossetto; e, entrando nella camera della figlia, mettile questa cartina tra le materasse, pronunziando, nel mettervela, le parole: Tutta la gente resti addormentata, e Cannetella sola stia svegliata".
La vecchia, per altri cento ducati, lo servi con ogni zelo. O misero chi lascia praticare in casa sua codeste brutte streghe, che, sotto specie di portar conci [4], ti conciano in cordovano l'onore e la vita! Eseguito che ebbe la vecchia il suo buon ufficio, cascò tale sonno straordinariamente pesante su quelli della casa, che tutti dormivano come se fossero scannati ; e solo Cannetella rimase con gli occhi aperti. Sentendo, dunque, scassinare le porte di casa, si die a gridare come bruciata dal fuoco; ma non era chi accorresse alle sue strida, di guisa che Fioravante potè gettare a terra tutte e sette le porte, e, saltato in camera, afferrare Cannetella, involta nelle materasse, per portarsela via. Ma volle la sorte sua che, in quell'atto, scivolasse a terra la cartellina messa dalla vecchia, e, sparsa la polvere che conteneva, l'intera famiglia sì risvegliò, e, udendo gli strilli di Cannetella, corsero tutti, perfino i cani e i gatti della casa, e si scagliarono addosso al necromante e ne fecero macello. Cosi colui restò preso alla medesima tagliuola, che aveva preparata per la sventurata Cannetella, provando con suo danno che

non v'ha peggior dolore 
di chi con l'armi sue ferito muore.



W. Goble


Traduzione di Benedetto Croce.
Il testo in lingua originale è nella Pagina: "G.B. Basile".

Dalle Note:

[1] Veramente il nome di Cannetella esisteva nel dialetto napoletano, come diminutivo di Cànneta, ossia Candida.

[2] Un proverbio napoletano suona: Corna di sòra (sorella), corna d'oro; corna di niogliera, corna davvero; e forse questo, o simile motto, andava per la mente del Basile.

[3] ... Il Vecellio, discorrendo dei luoghi delle case dove le donne ai suoi tempi solevano la mattina esporsi al sole per asciugare le chiome nell'imbiondirle, nota: "Nella città di Napoli ancora usano sopra le case alcuni luoghi scoperti, che ivi si chiamano battuti, et sono composti di sabbia grossa et di calcina, tanto ben battuta che regge ad ogni grossa pioggia".

[4] Belletti.

Esiste una versione di Lang compresa ne Il Libro Grigio delle Fate.
Vedi, sempre di Basile, "La Superbia Punita" (Giornata Quarta, Trattenimento Decimo), di cui questa è la variante horror.
E', di fatto, Re Bazza di Tordo per quanto riguarda la prima parte, la Regina Maritata ad un Brigante nella seconda.

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