giovedì 20 giugno 2013

Il Compleanno dell'Infanta ( Versione Integrale), O.Wilde - Seconda Parte

osì continuarono a volargli intorno, sfiorandogli appena la guancia con le ali, e chiacchierando fra loro, e il piccolo Nano ne fu così contento che non poté fare a meno di mostrar loro la bella rosa bianca, e dir loro che l'Infanta stessa gliel'aveva data perché lo amava.
Gli Uccelli non capirono una parola di quello che diceva, ma non fece differenza, perché inclinarono lateralmente il capo e assunsero un'espressione saggia, il che equivale a capire le cose, ed è molto più facile.
Anche le Lucertole provarono un'enorme simpatia per lui, e quando il Nano si stancò di correre qua e là e si buttò sull'erba a riposare, giocarono e si trastullarono correndogli sopra, e cercarono di divertirlo meglio che potevano. "Non tutti possono essere belli come le lucertole!" esclamavano, "Sarebbe chiedere troppo. E per quanto sembri assurdo, dopotutto lui non è mica così brutto, sempre se si chiudono gli occhi, naturalmente, e se non lo si guarda." Le Lucertole erano estremamente filosofe per natura, e spesso se ne stavano sedute a riflettere per ore e ore, quando non c'era altro da fare, o quando pioveva troppo per uscire.
I Fiori, tuttavia, si seccarono estremamente per il loro contegno, e per il contegno degli Uccelli. "Serve solo a mostrare" dissero"che effetto involgarente ha questo incessante correre e svolazzar qua e là. Le persone educate stanno sempre esattamente allo stesso posto, come noi. Nessuno ci ha mai visto saltabeccare per i vialetti, o galoppare come matti per l'erba all'inseguimento delle libellule. Quando vogliamo cambiare aria, mandiamo a chiamare il giardiniere, e lui ci porta in un'altra aiuola. Questo è dignitoso e decoroso. Ma gli Uccelli e le lucertole non hanno il senso del riposo, anzi, gli Uccelli non hanno nemmeno un indirizzo fisso. Sono semplici vagabondi come gli zingari, e andrebbero trattati nello stesso modo preciso." Così alzarono il naso in aria, e assunsero un atteggiamento molto altezzoso, e furono felici e contenti quando dopo qualche tempo videro il piccolo Nano rialzarsi goffamente dall'erba, e attraversare il terrazzo avviandosi verso il palazzo.
" Certo dovrebbero rinchiuderlo per il resto della vita" dissero " Guarda che gobba e che gambe storte" e si misero a ridacchiare.
Ma il piccolo Nano non seppe niente di tutto ciò. Uccelli e lucertole gli piacevano immensamente, e considerava i fiori le cose più meravigliose di tutto il mondo, con la sola eccezione, naturalmente, dell'Infanta; però lei gli aveva dato quella bella rosa bianca, e lo amava, e questo faceva una grande differenza. Come avrebbe voluto essere rientrato con lei! Lei se lo sarebbe messo alla destra, e gli avrebbe sorriso, e lui non si sarebbe mai staccato dal suo fianco, ma sarebbe stato il suo compagno di giochi, e le avrebbe insegnato ogni sorta di piccole cose incantevoli. Perché malgrado non fosse mai stato in un palazzo prima di allora, lui conosceva molte cose meravigliose. Sapeva fare piccole gabbie di giunchi perché le cicale vi cantassero, e trasformare il bambù dalle lunghe giunture nella zampogna cara all'udito di Pan. Conosceva il grido di ogni uccello, e sapeva chiamare gli storni dalla cima dell'albero, o l'airone dallo stagno. Conosceva la pista di ogni animale, e sapeva seguire la lepre dalle impronte delicate, e l'orso dalle foglie calpestate. Tutte le danze selvagge conosceva, l'autunno la folle danza in vesti rosse, la danza leggera in sandali azzurri al tempo del grano, la danza con bianche ghirlande da neve l'inverno, e la danza dei germogli, per i frutteti, la primavera. Sapeva dove facevano il nido i colombacci, e una volta che gli uccellatori avevano imprigionato i genitori, lui aveva allevato i piccoli, e aveva costruito per loro una colombaia nella spaccatura di un olmo cimato. Erano docilissimi, e venivano a prendere il cibo dalle sue mani ogni mattina. Le sarebbero piaciuti, come le sarebbero piaciuti i conigli che scorrazzavano tra le lunghe felci, e le ghiandaie con le loro penne d'acciaio e i becchi neri, e i porcospini che sapevano avvoltolarsi in palle pungenti, e le grandi sagge tartarughe che strisciavano lentamente qua e là, scuotendo il capo e mangiucchiando le foglie giovani. Sì, certo, doveva venire a giocare con lui nella foresta. Lui le avrebbe ceduto il suo lettuccio, e avrebbe vegliato fuori dalla finestra fino all'alba, perché la mandria selvaggia, cornuta, non le nuocesse, né i lupi sparuti strisciassero troppo vicini alla capanna. E all'alba avrebbe bussato alle imposte per destarla, e sarebbero usciti e avrebbero danzato insieme tutto il giorno. Veramente non c'era la minima solitudine nella foresta. A volte passava un Vescovo a cavallo della sua mula bianca, leggendo un libro dipinto. A volte passavano i falconieri, nei loro berretti verdi di velluto, e nei loro giustacuori di pelle di daino conciata, e con al polso i falchi incappucciati. Al tempo della vendemmia venivano i vignaioli, con mani e piedi purpurei, incoronati di edera lucente e recanti otri stillanti vino; e i carbonai sedevano intorno ai loro grossi bracieri la notte, guardando i ciocchi asciutti carbonizzarsi lentamente nel fuoco, e arrostendo castagne nelle ceneri, e i ladroni uscivano dalle caverne e facevano festa con loro. Una volta aveva visto persino una bella processione dipanarsi per la lunga strada polverosa di Toledo. I monaci andavano avanti cantando dolcemente, e recando stendardi coloriti e croci d'oro, e poi, in corazze argentee, con archibugi e picche, venivano i soldati, e in mezzo a loro avanzavano tre uomini scalzi, in strani abiti gialli su cui erano dipinte figure meravigliose, e con delle candele accese in mano. Certo, c'era moltissimo da guardare nella foresta, e quando lei fosse stata stanca le avrebbe trovato una soffice sponda di muschio, o l'avrebbe portata in braccio, perché era molto forte, anche se sapeva di non essere alto. Le avrebbe fatto una collana di bacche di rossa brionia, che sarebbero state altrettanto graziose delle bacche bianche che lei portava sull'abito, e quando se ne fosse stancata, avrebbe potuto gettarle via, e lui gliene avrebbe trovate altre. Le avrebbe portato cupole di ghiande e anemoni inzuppati di rugiada, e piccole lucciole che fossero stelle nel pallido oro della sua chioma.



King J. M


Ma lei dov'era? Lo chiese alla rosa bianca, e questa non gli rispose. L'intero palazzo sembrava dormire, e anche là dove le imposte non erano state chiuse, pesanti tende erano state tirate sulle finestre per non far entrare il riverbero. Girò dappertutto alla ricerca di un punto da cui guadagnare un ingresso, e da ultimo l'occhio gli cadde su di una porticina privata che era rimasta aperta. Vi scivolò dentro, e si trovò un una splendida sala, assai più splendida, temette, della foresta, con tante più dorature dappertutto, e perfino con il pavimento fatto di grandi pietre colorate, disposte in una sorta di disegno geometrico. Ma la piccola Infanta non era lì, c'erano solo alcune meravigliose statue bianche che lo guardavano dall'alto dei loro piedistalli di diaspro, con occhi tristi e inespressivi e bocche atteggiate in strani sorrisi.
In fondo alla sala pendeva una tenda di velluto nero riccamente trapunta, sparsa di soli e di stelle, il motivo preferito dal Re, e con ricami sul colore che egli amava di più. Che si nascondesse lì dietro? Avrebbe tentato, in ogni modo.
Così attraversò furtivamente la sala, e scostò la tenda.
No; c'era soltanto un'altra stanza, anche se gli parve una stanza ancora più leggiadra di quella che aveva appena lasciato. Sulle pareti era appeso un arazzo verde dalle molte figure, a punto d'ago e rappresentante una caccia, opera di certi artisti fiamminghi che avevano impiegato più di sette anni nella sua composizione. Era stata una volta la camera di Jean le Fou, come lo chiamavano, quel Re folle talmente innamorato della caccia, che aveva tentato spesso nel suo delirio di montare i grandi cavalli impennati, e di abbattere il cervo sul quale grandi segugi erano in atto di balzare, dando fiato al suo corno da caccia, e pugnalando con la daga i pallidi cervi in fuga. Ora fungeva da camera del consiglio, e sul tavolo al centro erano posate le rosse cartelle dei ministri, su cui erano impressi i tulipani d'oro di Spagna, e le armi e gli emblemi della Casa d'Asburgo. Il piccolo Nano si guardò meravigliato tutt'intorno, ed ebbe quasi paura di proseguire. Gli strani cavalieri muti che galoppavano così veloci attraverso le lunghe radure senza fare il minimo rumore gli sembravano simili a quei terribili fantasmi di cui aveva sentito parlare i carbonai: i Comprachos, che cacciano solo di notte, e se incontrano un uomo, lo trasformano in cerva e lo inseguono. Ma pensò alla leggiadra Infanta, e riprese coraggio. Voleva trovarla da sola, e dirle che anche lui la amava. Forse lei si trovava nella stanza attigua.

 Brivtin V.

Attraversò di corsa i soffici tappeti moreschi, e aprì la porta. No! Non era neanche lì. La stanza era del tutto vuota.
Era una stanza del trono, usata per ricevere gli ambasciatori stranieri, quando il Re, cosa che ultimamente non era accaduta spesso, acconsentiva a conceder loro una udienza privata; la stessa stanza in cui, molti anni prima, messi erano apparsi dall'Inghilterra per organizzare il matrimonio della loro Regina, allora una dei sovrani cattolici dell'Europa, col figlio primogenito dell'Imperatore. Le tappezzerie erano di cuoio dorato di Cordova, e dal soffitto bianco e nero pendeva un pesante candeliere dorato con bracci per trecento lumi di cera. Sotto un gran baldacchino di stoffa d'oro, sulla quale erano ricamati in perline i leoni e le torri di Castiglia, si ergeva il trono stesso, coperto da un ricco palio di velluto nero tempestato di tulipani d'argento ed elaboratamente frangiato di argento e perle. Sul secondo gradino del trono era posato il piccolo inginocchiatoio dell'Infanta, con il suo cuscino di stoffa di trama d'argento, e sotto quello, ed esternamente alla copertura del baldacchino, era il seggio del Nunzio Papale, che solo aveva il diritto di sedersi alla presenza del Re in occasione di qualsiasi cerimonia pubblica, e il cui cappello cardinalizio, con le sue intricate nappe scarlatte, era posato su di un tabouret purpureo lì davanti. Alla parete di fronte al trono era appeso un ritratto a grandezza naturale di Carlo V in tenuta da caccia, con un grande mastino al fianco, e un quadro con Filippo II in atto di ricevere l'omaggio dei Paesi Bassi occupava il centro dell'altra parete. Tra le finestre era un armadietto di nero ebano, intarsiato di piastre d'avorio, sul quale erano state incise le figure della Danza della Morte di Holbein: per mano, dicevano alcuni, di quello stesso maestro famoso.
Ma al piccolo Nano non importava nulla di tutta questa magnificenza. Non avrebbe dato via la sua rosa per tutte le perle del baldacchino, né un solo bianco petalo della sua rosa per lo stesso trono.
Quel che voleva era vedere l'Infanta prima che scendesse al padiglione, e chiederle di venire via con lui appena terminata la sua danza. Qui nel palazzo, l'aria era stantia e pesante, ma nella foresta il vento soffiava libero, e la luce del sole con leggiadre mani d'oro scostava le tremule foglie. C'erano anche fiori nella foresta, non così splendidi, forse, come i fiori del giardino, ma in compenso dall'odore più dolce; giacinti allo spuntar della primavera che invadevano di porpora ondeggiante le fresche vallette e i poggi erbosi; gialle primule che si annidavano a piccoli gruppi intorno alle radici contorte delle querce; colorite celidonie, e azzurre veroniche, e iris lillà e oro. C'erano grigi amenti sui noccioli, e le digitali erano curve sotto il peso delle loro maculate cellule visitate dalle api. Il noce aveva le sue spire di bianche stelle, e il biancospino le sue pallide lune di bellezza. Sì; certo ella sarebbe venuta, se solo avesse potuto trovarla! Lei sarebbe venuta con lui nella bella foresta, e tutto il giorno egli avrebbe danzato per il suo piacere. Un sorriso gli accese gli occhi al pensiero, e passò nella stanza adiacente. Di tutte le stanze questa era la più allegra e la più bella. Le pareti erano coperte di un fiorito damasco rosa di Lucca, a motivi di uccelli e punteggiato di delicati germogli d'argento; i mobili erano d'argento massiccio, con festoni di elaborate ghirlande, e dondolanti amorini; davanti ai due ampi camini erano grandi schermi ricamati di pappagalli e pavoni, e il pavimento, che era di onice verdemare, sembrava estendersi in lontananza. Né egli era solo. In piedi sotto l'ombra della soglia, all'estremità opposta della stanza, vide una figurina che lo guardava.Il cuore gli tremò, un grido di gioia gli proruppe dalle labbra; uscì fuori nella luce del sole. Contemporaneamente, la figurina venne avanti anche lei, e lui la vide con chiarezza.
L'Infanta! Era un mostro, il mostro più grottesco che avesse mai contemplato. Non di forme proporzionate come le altre persone, ma gobbo, e storto di membra, con una gran testona pendula e una criniera di capelli neri. Il piccolo Nano si accigliò, e si accigliò anche il mostro. Rise, e quello rise con lui, e si mise le mani sui fianchi, proprio come anche lui stava facendo. Eseguì un inchino di derisione, e quello gli restituì una profonda riverenza. Gli andò incontro, e quello venne incontro a lui, imitando ogni suo passo, e fermandosi quando lui si fermava. Gridò divertito, e corse avanti, e tese la mano, e la mano del mostro rapidamente seguì la sua. Cercò di premere, ma qualcosa di liscio e duro lo fermò. Il volto del mostro era ora vicino al suo, e sembrava pieno di terrore. Si tolse i capelli dagli occhi. Quello lo imitò. Lo colpì, e quello gli restituì colpo su colpo. Lo detestò, e quello gli fece delle smorfie orribili. Si ritirò, e quello si ritrasse.
Che cosa era? Pensò per un momento, e guardò intorno a sé il resto della stanza. Era strano, ma ogni cosa sembrava avere il suo doppio in questo invisibile muro di acqua limpida. Sì, ogni quadro si ripeteva lì dentro, come ogni sofà. Il Fauno dormiente che giaceva nell'alcova accanto alla soglia aveva un fratello gemello che sonnecchiava, e la Venere argentea che si ergeva al sole tendeva le braccia  a una Venere non meno bella di lei.
Era l'Eco? L'aveva invocata una volta nella valle, e lei gli aveva risposto, parola per parola. Sapeva prendersi gioco dell'occhio, come si prendeva gioco della voce? Sapeva creare un mondo mimico identico al mondo reale? Potevano le ombre delle cose avere colore e vita e movimento? Poteva essere questo...?
Trasalì, e togliendosi dal petto la bella rosa bianca, si voltò e la baciò. Il mostro aveva una sua rosa, la stessa, petalo per petalo! La baciava con analoghi baci, e se la stringeva al petto con gesti orrendi.
Quando la verità si fece strada in lui, emise un folle grido di disperazione, e cadde a terra singhiozzando. Così lui era sfigurato e gobbo, orribile a vedersi e grottesco. Lui stesso era il mostro, ed era di lui che tutti i bambini avevano riso, e la piccola Principessa che aveva creduto innamorata di lui: anche lei si era soltanto presa gioco della sua bruttezza, e aveva riso delle sue membra contorte. Perché non lo avevano lasciato nella foresta, dove non c'era specchio a dirgli quanto era orrendo? Perché suo padre non lo aveva ucciso, piuttosto che venderlo alla sua vergogna? Le lacrime roventi gli scorsero lungo le guance, e fece a pezzi la rosa bianca. Il mostro disteso fece lo stesso, e sparpagliò i petali delicati in aria. Si contorse in terra, e quando lo guardò, quello lo guardava a sua volta con un volto teso per il dolore. Si allontanò strisciando per non vederlo, e si coprì gli occhi con le mani. Si trascinò, come una cosa ferita, nell'ombra, e vi giacque gemendo.
E in quel momento l'Infanta in persona entrò con i suoi compagni dalla portafinestra aperta, e alla vista del brutto Nanerottolo lungo disteso in terra in atto di percuotere il pavimento con le mani serrate, nel modo più esagerato e fantastico, tutti quanti esplosero in grida di liete risate, e si fermarono intorno a lui e lo guardarono.
" Quando danzava era buffo" disse l'Infanta; "ma quando recita è più buffo ancora. Veramente è bravo quasi quanto i fantocci, solo che è meno naturale, ovviamente." E agitò il suo grande ventaglio e applaudì.
Ma il piccolo Nano non alzò mai gli occhi, e i suoi singhiozzi si fecero sempre più sommessi, e d'un tratto emise un curioso gemito, e si compresse il fianco. E poi ricadde, e rimase competamente immobile.
" Fantastico" disse l'Infanta, dopo una pausa; "ma ora devi danzare per me."
" Sì" gridarono tutti i bambini, "devi alzarti e danzare, perchè sei bravo come le scimmie di Berberia, e molto più ridicolo."
Ma il piccolo Nano non rispose.
E l'Infanta battè il piede a terra, e chiamò suo zio, che passeggiava in terrazza  con il Ciambellano, leggendo certi dispacci appena arrivati dal Messico, dove il Santo Uffizio era stato insediato da poco. " Il mio buffo Nanetto fa il broncio" gridò, "dovete svegliarlo e dirgli di danzare per me."
I due scambiarono un sorriso ed entrarono con noncuranza, e Don Pedro si chinò, e schiaffeggiò il Nano sulla guancia con il suo guanto ricamato. " Devi danzare" disse, " petit mostre. Devi danzare. L'Infanta di Spagna e delle Indie vuole essere divertita."


Gordeev D.

Ma il piccolo Nano non si mosse.
" Bisognerebbe mandare a chiamare un maestro di frusta" disse Don Pedro in tono stanco, e se ne tornò in terrazza. Ma il Ciambellano assunse un'aria grave, e s'inginocchiò accanto al piccolo Nano, e gli posò la mano sul cuore. E dopo qualche momento scrollò le spalle, e si alzò, e avendo eseguito un profondo inchino all'Infanta, disse:
" Mi bella Princesa, il tuo brutto Nanerottolo non danzerà più. Peccato, perchè è talmente brutto che avrebbe potuto far sorridere il Re."
" Ma perché non danzerà più?" chiese l'Infanta, ridendo.
" Perché gli si è spezzato il cuore" rispose il Ciambellano.
E l'Infanta si accigliò, e le sue delicate labbra a petalo di rosa si curvarono in un cruccio adorabile. "In futuro fate sì che quelli che vengono a giocare con me non abbiano cuore" esclamò, e corse fuori in giardino.

O. Wilde
traduzione di Masolino d'Amico
A. Mondadori-collana"I Meridiani"

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