giovedì 30 gennaio 2014

Oscar Wilde e il Carcere di Reading


Questa "Lettera dal Carcere"è stata letta da Roberto Benigni durante il festival di Sanremo, addirittura inaugurandolo, credo il 9 febbraio 2008...E' stata presentata e vissuta come un manifesto-riscatto dell'amore omosessuale, come il trionfo dell'amore senza declinazioni di genere al di là di ogni maligna traversia. Niente in contrario... peccato che... Come si può leggere dall'intestazione, questa lettera non è scritta dal carcere di Reading, dove Oscar Wilde scontò la sua condanna ai lavori forzati a causa delle sue inclinazioni sessuali, ma dal carcere di S.M. Halloway, dove il poeta trascorse il periodo del processo. Ancòra - dunque -  il suo amato "Bosie", il giovinastro aristocratico,viziato ed irrimediabilmente egoista, causa della sua rovina e che egli amò fino alla morte, non lo aveva deluso, tormentato, atterrato con la sua vigliaccheria ed il suo abbandono. Ancòra Wilde non conosceva il vero carcere,il supplizio della condanna, e la sua fiducia era intatta.

Carcere di S.M, Halloway, 25 aprile 1895

A Lord Douglas

Mio carissimo ragazzo,
questo è per assicurarti del mio amore immortale, eterno per te. Domani sarà tutto finito. Se la prigione e il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore per te e questa idea, questa convinzione ancora più divina, che tu a tua volta mi ami, mi sosterranno nella mia infelicità e mi renderanno capace, spero, di sopportare il mio dolore con ogni pazienza. Poiché la speranza, anzi, la certezza, di incontrarti di nuovo in un altro mondo è la meta e l'incoraggiamento della mia vita attuale, ah! debbo continuare a vivere in questo mondo, per questa ragione.
Il caro *** mi è venuto a trovare oggi. Gli ho dato parecchi messaggi per te. Mi ha detto una cosa che mi ha rassicurato: che a mia madre non mancherà mai niente. Ho sempre provveduto io al suo mantenimento, e il pensiero che avrebbe potuto soffrire delle privazioni mi rendeva infelice. Quanto a te (grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo), quanto a te, ti prego, non appena avrai fatto tutto quello che puoi fare, parti per l’Italia e riconquista la tua calma, e componi quelle belle poesie che sai fare tu, con quella grazia così strana. Non esporti all'Inghilterra per nessuna ragione al mondo. Se un giorno, a Corfù o in qualche isola incantata, ci fosse una casetta dove potessimo vivere insieme, oh! la vita sarebbe più dolce di quanto sia stata mai. Il tuo amore ha ali larghe ed è forte, il tuo amore mi giunge attraverso le sbarre della mia prigione e mi conforta, il tuo amore è la luce di tutte le mie ore. Se il fato ci sarà avverso, coloro che non sanno cos'è l'amore scriveranno, lo so, che ho avuto una cattiva influenza sulla tua vita. Se ciò avverrà, tu scriverai, tu dirai a tua volta che non è vero. Il nostro amore è sempre stato bello e nobile, e se io sono stato il bersaglio di una terribile tragedia, è perchè la natura di quell'amore non è stata compresa. Nella tua lettera di stamattina tu dici una cosa che mi dà coraggio. Debbo ricordarla. Scrivi che è mio dovere verso di te e verso me stesso vivere, malgrado tutto. Credo sia vero. Ci proverò e lo farò. Voglio che tu tenga informato Mr Humphreys dei tuoi spostamenti così che quando viene mi possa dire cosa fai. Credo che gli avvocati possano vedere i detenuti con una certa frequenza. Così potrò comunicare con te. Sono così felice che tu sia partito! So cosa deve esserti costato. Per me sarebbe stato un tormento pensarti in Inghilterra mentre il tuo nome veniva fatto in tribunale.
Spero tu abbia copie di tutti i miei libri. I miei sono stati tutti venduti. Tendo le mani verso di te. Oh! possa io vivere per toccare i tuoi capelli e le tue mani. Credo che il tuo amore veglierà sulla mia vita. Se dovessi morire, voglio che tu viva una vita dolce e pacifica in qualche luogo fra fiori, quadri, libri, e moltissimo lavoro. Cerca di farmi avere tue notizie. Ti scrivo questa lettera in mezzo a grandi sofferenze; la lunga giornata in tribunale mi ha spossato. Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti i giovani, amatissimo e più amabile. Oh! aspettami! aspettami! io sono ora, come sempre dal giorno in cui ci siamo conosciuti, devotamente il tuo, con un amore immortale.

Oscar Wilde


Wilde e "Bosie"



Posto la conclusione di "De Profundis",(di cui consiglio caldamente la lettura), lunghissima epistola-sfogo-riflessione scritta fra il gennaio ed il febbraio del 1897 all'ingrato ed egoista "Bosie", quando la permanenza in carcere di Oscar Wilde volge al termine. Wilde scrive dal carcere di Reading , dove scontò la condanna ai lavori forzati . Conosco bene la sua opera letteraria, poco i saggi e le lettere, per cui... non sentenzio... avanzo ipotesi: "De Profundis" è fatto di materiale instabile, scritto e riscritto negli anni , anche perché, pare, pesantemente censurato dal figlio dell'autore; può essere che edizioni differenti presentino strane mescolanze, io mi fido de "Meridiani"...
La traduzione è di Oreste del Buono:

"Quello che al mondo e a me pareva il mio futuro, lo persi irrimediabilmente quando mi lasciai indurre a intentare causa a tuo padre. In realtà, l'avevo perso, oso dire, molto prima.Davanti a me, ora, ho il mio passato. Devo riuscire, ora, a guardarlo con occhi diversi, a far sì che il mondo lo guardi con occhi diversi, a far sì che Dio lo guardi con occhi diversi. A questo non posso giungere ignorando il mio passato, o diminuendolo, o lodandolo e neppure rinnegandolo. Vi giungerò pienamente solo accettandolo come parte inevitabile dell'evoluzione della mia esistenza e del mio carattere: chinando la testa davanti a quanto ho patito. Questa lettera nei suoi umori mutevoli e incerti, nel suo sdegno e nella sua amarezza, nelle sue aspirazioni e nella sua incapacità a realizzarle, ti mostra assai chiaramente quant'io sia lontano dalla vera sostanza dell'anima. Ma non scordare in quale tremenda scuola sto svolgendo i miei compiti. E, per quanto incompleto e imperfetto io sia, tuttavia da me hai ancora molto da imparare. Sei venuto a me per conoscere il Piacere di vivere e il Piacere dell'arte . Forse io sono destinato a insegnarti qualcosa di ben più stupendo:il significato del Dolore, la sua bellezza.
Il tuo affezionato amico,

Oscar Wilde "






...Nessuna strana, ambigua eco dei paradisi  dei presunti eredi di Adriano, niente Corfù, niente Capri, né la/le  "Cuba" dei tempi che furono, rievocanti lampi di "Improvvisamente l'Estate Scorsa".
Il brano che posto qui è dolore, è delusione, è stanchezza, è orgogliosenzaorgoglio, è un Amore ferito e auto-dilaniato ... senza etichette né nastrini rosa...


Mab


p.s.
Ho rieditato e postato questi brani tre volte, dal luglio del 2009.

mercoledì 29 gennaio 2014

Lamie e "Lamie"

Draper H.J.


Aly Fell - Digital Art

Waterhouse J.W.

Mead Schaeffer

La Bella Caterina, o la Novella de' Gatti, V. Imbriani

'era una volta una donna campagnola, che aveva due figliole: una delle quali era bellissima e si chiamava Caterina; l'altra, tutt'all'incontro, era brutta quanto dire si puole. Ma la madre voleva più bene alla brutta; e siccome tutte e due si rodevano d'invidia per la Caterina, perchè alla bellezza accoppiava pure una grande bontà, s'arrapinavano a fargli dispetti e cercavano tutti i modi perchè gli accadesse qualche malanno da ridurla imbruttita. La Caterina sopportava con pazienza le persecuzioni delle due arpie; ed, invece di farsi brutta per gli strapazzi, pareva ogni dì che gli s'accrescesse la bellezza.


Olga Oreshnikova

Un giorno la madre disse alla brutta:
"Sa' tu quel che ho pensato? Mandiamo la Caterina a pigliare lo staccio dalle Fate, che gli sgraffieranno tutto il viso; e la imbruttirà e nessuno più la guarderà."
"Sì, sì! - esclamò la brutta, gongolando di maligna gioia - Le Fate sono cattive e l'acconceranno pel dì delle feste."
Subito la madre chiamò la Caterina e gli disse:
"Su via, sguajata: c'è da fare il pane e non abbiamo in casa lo staccio per ammannire la farina. Va' dalle Fate dentro al bosco e chiedigli lo staccio in prestito."
A questo comando la Caterina divenne bianca dalla paura, sapendo per sentita dire, che chi andava dalle Fate ne ritornava malconcio. Pregò la madre che non la mandasse, pianse: ma la madre e la brutta sorella tanto la minacciarono, che ripensando non potere soffrire dalle Fate un male maggiore, si piegò ad obbedire. Sicché, mesta e piagnucolosa e mettendo un piede innanzi e due addietro, avviossi verso il bosco dove stavano le Fate.
Quando la Caterina fu in sull'entrata del bosco, gli si fece incontro un Vecchietto; e, vistala a quel modo dolorosa, gli domandò:
"Che avete voi, bella ragazza, che parete tanto afflitta?"
La Caterina gli raccontò allora tutti i suoi mali, e che in casa non la potevano soffrire, e ora la mandavano alle Fate per uno staccio, perchè le Fate la sciupassero e la imbruttissero.
Disse il Vecchietto: "Non abbiate paura di nulla. V'insegnerò io com'avete da condurvi. E se m'ascolterete, non ve n'avrete da pentirvene. Ma prima ditemi un po' che cosa ho qui 'n capo, che mi sento tanto prudere."
Il Vecchietto piegò un tantino la testa. E avendogliela la Caterina esaminata, disse: "Ci veggo perle ed oro."
Disse il Vecchietto: "E perle ed oro toccheranno anche a voi. Statemi a sentire e fate quel che vi dico. Quando sarete alla porta di casa delle Fate, picchiate ammodo; e se vi diranno: Ficcate un dito nel buco della chiave; vi ficcherete uno steccolo, che ve lo stroncheranno. Aperto che sia, vi condurranno diviata in una stanza, dove mirerete tanti gatti; e chi cucirà, chi filerà, chi farà la calza, e insomma, tutti occupati a qualche lavoro: e voi adopratevi senza invito ad ajutargli ed a fornire l'opera ad ognuno. Dopo anderete in cucina; e anche lì saranno gatti alle loro faccende; ajutategli come quegli altri. Un po' più in là sentirete chiamare il gatto Mammone, e tutti i gatti gli racconteranno quel che avete fatto per loro. Il Mammone allora vi domanderà: Che brami tu per colazione, pan nero e cipolla, o pan bianco e cacio? E voi rispondete: Pan nero e cipolla; e vi verrà dato pan bianco e cacio. Poi il Mammone v'inviterà a salire una stupenda scala di cristallo: badate bene di non la rompere. Giunta al piano di sopra, scegliete sempre la peggio roba di quella che vi vorranno regalare."
La Caterina promesse al Vecchietto di obbedirgli; e, dopo ringraziato e salutatolo, si avviò verso le Fate. E, picchiato alla porta, fece secondo l'ammaestramento. Sicchè apertogli, richiese le Fate dello staccio. Dissero le Fate:
"Ora ve lo diamo. Entrate intanto un po' e aspettate."
Ed ecco vede tanti gatti per la stanza, che lavoravano a tutto potere.


Olga Oreshnikova

"Poveri micini! - esclamò la Caterina - Con codeste zampine chi sa quanta pena soffrite! Date qua; farò io, farò io."
E preso il lavoro di ognuno, in quattro e quattr'otto l'ebbe terminato. Poi in cucina rigovernò, spazzò, rimesse in ordine tutti gli arnesi. Fu chiamato il gatto Mammone e i gatti miagolando dicevano:
"A me ha cucito!"
"A me ha fatto la calza!"
"A me ha rigovernato!", e così fino in fondo raccontavano tutti al Mammone l'ajuto della Caterina; e saltavano a balzicùli per la stanza dal gran piacere.
Il gatto Mammone, sentito l'opera della Caterina, gli disse:
"Che vuoi da colazione, pan nero e cipolla, o pan bianco e cacio?"
"Oh! datemi pan nero e cipolla - rispose la Caterina, - non sono avvezza a mangiare altro."
Ma il gatto Mammone volle che mangiasse pan bianco e cacio.


Olga Oreshnikova


Poi il gatto Mammone invitò la Caterina a salire nel piano di sopra e la condusse alla scala di cristallo: e la Caterina si levò gli zoccoli e salì su in peduli tanto pianino, che non isciupò la scala e neppure la sgraffiò. Qui gli furono profferite vesti belle e vesti brutte, oro e ottone. E lei scelse le vesti brutte e l'ottone. Ma il Mammone comandava invece alle Fate, che l'acconciassero splendidamente e gli fossero regalate gioie legate in oro.
Quando la Caterina fu messa in modo, che pareva una Regina, il Mammone gli disse: "To' su lo staccio; e andata fuori dell'uscio di questa casa, se senti ragliar l'asino non ti voltare; ma se canta il gallo, vòltati."
La Caterina obbedì: al raglio dell'asino non se ne diede per intesa; ma al chicchirichì del gallo si voltò indietro, e subito gli venne una stella rilucente in sul capo. A mala pena la Caterina giunse a casa sua, che la madre e la sorella brutta se le rodevano la rabbia e il dispetto; quella stella poi gli era un pruno negli occhi. La brutta disse: "Anch'io vo' andare dalle Fate, anch'io. Mandate me a riportare lo staccio, mamma."
Quando lo staccio fu adoperato, la brutta se lo tolse su e s'avviò al bosco delle Fate. E all'entrata, lei pure trovò il Vecchietto, che gli domandò:
"Ragazzina, per dove così vispola?"
"Vecchio ignorante!- rispose con superbia la brutta - i' vo' dove mi pare. Impaccioso! badate a' fatti vostri."
"Brutta e scontrosa! - disse il Vecchietto ridendo di sottecche - Va' va' dove ti pare! doman te n'avvedrai!"
Ed ecco la brutta all'uscio delle Fate; e agguanta in mano il picchiotto e dàgli, giù senza garbo, da scassinare le imposte. Dissero le Fate di dentro:
"Metti un dito nel buco della chiave ed apri."
E la brutta caccia il dito nel buco; e quelle zìffete! e glielo stroncano. L'uscio si spalancò e la brutta, tutta rabbiosa, saltando in casa e gettato per terra lo staccio, si fece ad urlare: "Questo è il vostro staccio, maledette!"
Poi visti i gatti al lavoro, disse: "Oh! buffi questi gattacci! o che mesticciate voi, mammalucchi?"
E preso a loro gli arnesi, a chi bucò le zampe cogli aghi, a chi le tuffò nell'acqua bollente, a chi dette su per le costole la granata e i fusi. Ne successe un tafferuglio; e i gatti a scappare di qua e di là, berciando pel dolore; sicchè al chiasso comparve il gatto Mammone; e i gatti strillando a modo loro gli raccontarono quel che avevano patito dalla brutta. Serio serio disse il gatto Mammone: "Ragazzina, dovete aver fame: volete pan nero e cipolla, o pan bianco e cacio?"
E la brutta: "Guarda che bella creanza! Se venissi a casa mia non vi darè' mica pan nero e cipolle e non vi stroncherei le dita. Voglio pan bianco e cacio."
Ma, se volle mangiare, bisognò che si contentasse di pan nero e cipolla, perchè non gli portarono altro. Allora il gatto Mammone disse: "Andiamo via, ragazzina, vi si regalerà anche voi di vestito e d'altro. Salite di sopra, ma badate alla scala, che è di cristallo."
La brutta però non se n'addiede dell'avvertimento, e salì alla sgraziata la scala cogli zoccoli in piedi, per cui la fracassò da cima a fondo. E giunta su, le Fate gli domandarono: "Che più vi garba, un vestito di broccato e pendenti d'oro, o una gonnella di frustagno e pendenti d'ottone?"
La brutta s'attaccò subito alla sfacciata alla robba meglio; ma gli convenne pigliare la peggio, perchè non gliene dettero altra. Tutta indispettita, la brutta prese il portante per andarsene, e, quando fu all'uscio, gli disse il gatto Mammone: "Ragazzina, se canta il gallo tirate via; ma se raglia l'asino, voltatevi addietro, che vedrete una bella cosa."
Di fatto, eccoti che l'asino raglia di gran forza; e la brutta, girato il capo tutta desio di vedere la bella cosa, una folta coda di ciuco gli venne fuori dalla fronte. Disperata, si diè a correre verso casa sua, per istrada urlando da lontano: "Mamma dondò, Mamma dondò, La coda dell'asino mi s'attaccò."
In tanto la Caterina, più bella dal giorno che aveva visitato le Fate, fu vista dal figliolo del Re, che se ne innamorò così forte, da obbligare il Re a consentire che se la pigliasse per moglie. Le nozze si stabilirono, e la Madre e la brutta non ebbero ardire di opporsi al Re; pure macchinarono d'ingannarlo, sperando riuscirvi. Il giorno dello sposalizio, la Caterina fu messa in un tino chiuso giù nella cantina, e de' suoi vestiti e gioie si acconciò la brutta, e la Madre a questa gli rasò la coda d'asino d'in sulla fronte e poi gli ravvolse il capo con un fitto velo. Giunto, assieme al corteo, il figliolo del Re, la cattiva Madre gli disse: "Eccovi la sposa bell'e apparecchiata."
Il figliolo del Re stava per porgere la mano alla brutta, credendola la Caterina, quando a un tratto gli parve sentire de' lamenti sotto terra; e, stato un po' in orecchi e intimato il silenzio, s'accorse che qualcheduno cantava con voce piangente:
"Mau maurino!
La Bella è nel tino,
La Brutta è 'n carrozza, 
E 'l Re se la porta."

Il figliolo del Re, insospettitosi allora, volle che si cavasse il velo dal capo della sposa e scoperse l'inganno; perchè alla brutta di già la coda d'asino era tanto cresciuta da coprirgli gli occhi. Andò sulle furie, e cercata la Caterina, la tirò fuori dal tino e ci fece mettere invece la madre e la brutta. E ordinato che si bollisse una caldaia d'olio e che gli si buttasse addosso, quelle invidiose morirono subito. Il figliolo del Re, sposata la bella Caterina, la condusse al palazzo. E camparono insieme lunga vita e felice.

Stretta è la foglia e larga è la via, 
Dite la vostra chè ho detto la mia.


Vittorio Imbriani, Novella XV, da "La Novellaja Fiorentina" (Gherardo Nerucci, "Sessanta Novelle Popolari Montalesi", n.5 - Testo originale nella Pagina: Fiabe Popolari - Italia)

martedì 28 gennaio 2014

Il Giovane che si Innamorò di una Lamia (Paesi Baschi)

n giovane di nome Korrione (in Garagarza) andò a Kobaundi, vicino al monte Kobate. In quel luogo incontrò una donna bellissima, molto più bella di tutte le donne cristiane di questa terra.
Era una Lamia. La donna promise di sposarlo solo se avesse indovinato la sua vera età.
Il giovane pregò una sua conoscente di aiutarlo nell'impresa e la donna s'incamminò verso Kobaundi. Arrivata sul posto, volgendo le spalle alla grotta, si chinò in modo da riuscire a guardare nell'interno della grotta con la testa fra le gambe.
La Lamia, spaventata dalla sagoma grottesca della donna, esclamò:
"Nei centocinquanta anni che ho, non ho mai visto una cosa simile!"
La conoscente del ragazzo ritornò subito a riferire la notizia. Il giovane in questo modo potè dare risposta all'indovinello della Lamia.
La Lamia accettò di sposarlo.
Il giovane informò della sua decisione la madre, ma questa lo pregò, prima di sposarsi, di osservare i piedi della Lamia.
Il giovane ubbidì, e scoprì che i piedi della sua futura sposa erano precisi identici a quelli di un'anatra.
Il povero ragazzo si prese un grande spavento e si ammalò. Poco dopo morì.


Waterhouse J.W.

Le zampe di anitra, di gallina... una costante, anche tra le terribili Ossesse delle fiabe arabe, o tra le nostre Anguane e Selvane. e quel legame con Ecate, Colei alla quale neanche Zeus poteva rifiutare nulla... E, se avete letto i post sul Changeling irlandese: il trucco per far confessare alla Lamia la sua vera età, ovvero la sua vera natura, è identico a quello usato dai contadini-esorcisti dei villaggi di Erin per snidare la prole del popolo fatato.

lunedì 27 gennaio 2014

La Ballata di Tam Lin di J.Child

Katharine Briggs:
Della ballata "Young Tam Lin" esistono molte versioni nei paesi della zona di confine tra l'Inghilterra e la Scozia e nell'Aberdeenshire. E' forse la più importante di tutte le ballate soprannaturali proprio per le molte credenze fatate che vi si trovano. La versione più completa è quella di Child in "The English and Scottish Popular Ballads". All'inizio, il Re avverte le fanciulle della sua corte di non andare nella foresta di Carrhaugh poichè è abitata da Young Tam Lin, il quale esige un pegno da ogni fanciulla che visita quel luogo, e tale pegno è spesso la verginità. Non tenendo conto del suo avvertimento, la giovane figlia Janet va al pozzo di Carrhaugh e perde la verginità per colpa di Young Tam Lin.




Janet ha rimboccato la veste verde
Un po' sopra il ginocchio,
Ha raccolto i capelli biondi
Un po' sopra la fronte,
E corre al palazzo del padre
Più veloce che può. 
Ventiquattro dame belle
Giocano a palla,
Ecco che arriva la bionda Janet
Che fu il fiore tra loro. 
Ventiquattro dame belle
Giocano a scacchi
Ecco che viene la bionda Janet
Verde come lo smeraldo.
Parlò un vecchio cavaliere grigio,
Appoggiato al muro del castello,
"Ahimè, bionda Janet, per causa tua
Saremo biasimati tutti".
"Sta' zitto, cavaliere grinzoso,
Che tu muoia di morte tremenda!
Accetta come padre chi voglio,
Nessuno di voi lo è di mio figlio". 
Parlò allora il vecchio padre amato,
E parlò con grande mitezza,
"Ahimè, per sempre, dolce Janet,
Te ne andrai con tuo figlio". 
"Se devo andarmene con lui, padre,
Io sola sarò biasimata,
Non c'è signore nel tuo palazzo
Che possa dar nome a questo figlio. 
Se il mio amato fosse terreno,
E non un elfo cavaliere,
Non cambierei il mio amore
Per nessuno dei tuoi nobili. 
Il destriero che cavalca il mio amore
E' più leggero del vento,
Davanti è ferrato d'argento
Dietro con oro ardente". 


Remnev A.

Janet ha rimboccato la veste verde
Un po' sopra il ginocchio.
Ha raccolto i capelli biondi
Un po' sopra la fronte,
E corre a Carterhaugh
Più veloce che può. 
Quando giunse a Carterhaugh
Tam Lin era al pozzo;
Vide lì il suo destriero,
Ma il suo amato non c'era. 
Aveva colto forse due rose,
Una rosa sola o due.
Quando comparve il giovane Tam Lin,
Dicendo "Non coglierne più. 
Perchè cogli le rose, Janet,
Nei boschi d'alberi verdi,
Forse per uccidere il bimbo grazioso
che noi tra poco seguiremo?".
"Dimmi, dimmi, Tam Lin,
Per amore di chi è morto in croce,
Sei mai stato in una sacra cappella,
Hai mai visto i cristiani?".
"Mio nonno era Roxbrugh,
Mi portò a vivere con lui;
Ma un giorno giunse l'ora
In cui il male mi colse.
E giunse un giorno
Un giorno freddo e pungente,
Stavamo tornando dalla caccia
E io caddi dal mio cavallo;
Mi catturò la Regina delle Fate,
Perchè abitassi in quella verde collina.
E' piacevole la terra incantata,
Ma, storia lugubre a dirsi,
Quando scattano i sette anni
Si paga un tributo all'Inferno;
Sono così bello e robusto
Che non vorrei, questa volta, esser io.
Nella notte della vigilia, o fanciulla,
Prima dell'alba d'Ognissanti,
Conquistami, conquistami,
Ti supplico piangendo di farlo.
Solo nelle tenebre di mezzanotte
Cavalcherà il popolo delle fate,
E chi vuole conquistare l'amore
Deve attendere al Miles Cross".
"Come ti riconoscerò, Tam Lin,
Come troverò il mio vero amore
In mezzo a tanti cavalieri
Fantastici e senza simili?"
"Lascia passare il cavallo nero,
Poi lascia passare il baio
Corri lesta al destriero biancolatte
E butta in terra il cavaliere.
Sul destriero bianco sarò io,
Il più vicino alla città,
Perchè ero un cavaliere terreno
Mi daranno questa distinzione.
Nella destra avrò un guanto,
La mano sinistra sarà nuda,
Terrò alzata la falda del cappello,
Pettinati e lisci i miei capelli,
Per questi segni mi riconoscerai,
E non temere, io sarò lì.
Mi muteranno mentre ti abbraccio
In una vipera velenosa,
Ma tienmi stretto, non temere,
Sono il padre di tuo figlio.
Mi muteranno in un orso feroce,
E poi in un leone audace,
Ma tienmi stretto, non temere,
Per amore di tuo figlio.
Mi muteranno mentre mi abbracci
In una lancia di ferro arroventato
Ma tienmi stretto, non temere,
Non ti farò nessun male.
Mi muteranno nel tuo abbraccio,
Infine, in brace ardente,
Buttami allora nell'acqua del pozzo,
Buttami più veloce che puoi.
E sarò il tuo amore fedele,
Diventerò un nudo cavaliere,
Coprimi allora col tuo mantello
E nascondimi alla loro vista".
Cupa, cupa è la notte
E lugubre il cammino,
La bella Janet nel manto verde
Va verso Miles Cross.
A mezzanotte
Sente le redini tintinnare
E la rallegra questo suono
Come fosse di metallo.
Lascia passare il cavallo nero,
Poi lascia passare il baio,
Corre lesta al destriero biancolatte
E butta in terra il cavaliere.
Si ricorda sì bene ciò che ha detto,
Che conquista il giovane Tam Lin,
lo copre del suo mantello verde
Allegra come un uccello a primavera.
Parlò allora la Regina delle fate,
Da un fitto cespuglio di erica,
"Chi si è preso Tam Lin
Si è preso un nobile marito".
Parlò allora la Regina delle fate,
Ed era una donna furiosa,
"Che la vergogna copra il suo volto infausto,
Che muoia di morte tremenda,
Ha rapito il cavaliere più bello
Di tutta la mia compagnia. 
Ma se avessi saputo, Tam Lin, disse la Regina,
Quel che questa notte dovevo vedere,
Ti avrei strappato i begli occhi grigi
E messo al posto due occhi di legno".


Hom Jennifer

Traduzione di  Cecilia Casorati e Giovanni Iovane, da "A Dictionary of Fairies", di K. Briggs.

Confronta con La Leggenda di Tam Lin,Trasformato in Cavaliere Elfo e Liberato nella Notte di Halloween dal Coraggio di una Mortale Innamorata

domenica 26 gennaio 2014

Tutto Quello che Non Dovreste Leggere sui Troll

... Dominante nelle fiabe scandinave è  la figura del troll, in origine un mostro grande e maldestro ma anche ingenuo, credulone e crudele, che può rapire gli esseri umani portandoli sulla montagna. In svedese il rapimento compiuto dal troll ha un suo verbo specifico, att bergta, che vuol dire, appunto, portare sulla montagna.

Bauer J.

La figura del troll è sempre stata assimilata a quella del diavolo della religione cristiana, ma il troll ha anche una generosità e una disponibilità che mancano del tutto al diavolo dei cristiani. Si tratta, semmai, di una sopravvivenza pagana, il dio selvaggio, dispettoso, infantile, occasionalmente crudele, ma non malvagio per natura. C'è anche qualcosa del trickster, il dio briccone che i greci chiamavano Ermes; come il trickster ed Ermes (psicopompo, ricordiamo) il troll è legato al regno dei morti, anche se tra i suoi compiti non c'è quello di far da guida alle anime.
Per quanto spesso rapisca fanciulle, il troll non ne abusa mai, al contrario offre alle sue sequestrate una vita comoda e lussuosa e, a contatto con la loro verginità, si raffina.In proposito sono attestate scene simboliche come lo spidocchiamento, inequivocabile indicazione del passaggio del troll (ma anche dell'eroe in certi casi) dallo stato selvaggio a quello civilizzato. Come i draghi, il troll può avere molte teste e per annientarlo, come nel caso del drago, l'eroe gliele deve tagliare tutte. La decapitazione aprirà al morto le porte di un piacevole aldilà.



Bauer J.


La connessione con il mondo selvaggio, soprattutto con l'ignoto e la morte (anzi, con l'utero primigenio e la morte, luoghi opposti ma identici), è evidente soprattutto nel caso delle vecchie trollesse che vivono nel cuore delle foreste, lontanissime dalle abitazioni degli umani. La loro età pluricentenaria, l'aspetto grigio e rugoso, il piacere che esprimono sempre a incontrare un'anima cristiana fanno supporre che possa trattarsi di anime perdute che finalmente trovano l'anima cristiana, trovano la loro salvezza. Tuttavia, la loro costante generosità, il loro rigore morale, l'attaccamento che dimostrano all'eroe o all'eroina, il piacere che ricevono nell'essere salutate con "Buonasera, madre cara!" legittimano altre interpretazioni. Potrebbe trattarsi dello spirito di un'antenata che viene in soccorso della sua discendenza.

Annuska Palme Sanavio
Piero Sanavio

Dall'introduzione a "Fiabe Popolari Svedesi"

Non mi fa impazzire "mettere all'indice", ma un esempio per tutti (e non è assolutamente uno dei peggiori) può essere utile per far scattare qualche campanello d'allarme.
Ho già accennato all'Orco come tardivo e occasionale sostituto dell'antica "strega", la Vecchia della Foresta.  Il Troll ha moltissimo in comune con i nostri orchi: ingenuo, cannibale (frustrato), bruttissimo, solitario. L'accostamento al trickster non è solo inspiegabile: è stupefacente. In realtà, se vogliamo addentrarci in questo argomento, il trickster è più vicino al Pollicino, o al Gobbo Tabagnino, o al Corvetto eroi delle fiabe che vedono l' Orco (e/o il troll) regolarmente gabbato, ridicolizzato, derubato in più riprese dei suoi tesori e spesso, ucciso.

E' vero che si gioca il ruolo da antagonista con il "vecchio Nick" delle fiabe popolari (non a caso quelle del tipo "Il Diavolo Gabbato"), ed è vero che, specie nel Sud italiano, ma non solo, è l'immancabile fiume Giordano a fermare l'inseguimento finale da parte del non-battezzato; ma è una semplice sostituzione o sovrapposizione del confine invalicabile tra il Regno dei Vivi e quello dei Morti. L'eroe è riuscito ad entrare, vivo tra i morti, e ad uscire incolume e trionfante. L'Orco/Troll, che ha fallito (felicemente, in quanto sostituto della Vecchia iniziatrice del Bosco!) il suo compito di guardiano e custode, non può attraversare il confine.

Lo spidocchiamento: pratica diffusa in una realtà non così remota, gesto di sottomissione, e di intimità. La vecchia nonna del diavolo e aiutante dell'eroe che spidocchia il nipotino per strappargli i tre capelli d'oro e le tre soluzioni agli enigmi non indica certo il passaggio dallo stato selvaggio alla civilizzazione!
Lo spidocchiamento, il taglio delle fluenti sopracciglia o degli artigli corrispondono alla spina estratta dalla zampa della belva pronta a divorarti, con, in più, una richiesta di fiducia e di amicizia (regolarmente concesse e regolarmente tradite).

L'Orco/Troll forse non violenta esplicitamente, ma "sposa" la principessa rapita. Quale sia la differenza...
Non si dimostra un "Barbablu", anzi, la sua eccessiva fiducia e la voglia di accontentare la "moglie" mortale lo perderanno.



Bauer J.


"La connessione con il mondo selvaggio, soprattutto con l'ignoto e la morte (anzi, con l'utero primigenio e la morte, luoghi opposti ma identici), è evidente soprattutto nel caso delle vecchie trollesse che vivono nel cuore delle foreste, lontanissime dalle abitazioni degli umani. La loro età pluricentenaria, l'aspetto grigio e rugoso, il piacere che esprimono sempre a incontrare un'anima cristiana fanno supporre che possa trattarsi di anime perdute che finalmente trovano l'anima cristiana". Ecco, questo passaggio mi ha fatto cascare la mandibola (quando leggete "utero" in una pseudo-analisi fiabesca, scappate). 
Ci allontaniamo dall'Orco: la moglie dell'Orco è, quasi sempre una mortale, o ne ha le caratteristiche. L'Orchessa, invece, non ha marito, ma ha spesso dei figli, ed è spietata, crudele, affamata e rabbiosa.
La Trollessa è molto più vicina alla Ghoula mediorientale, non la moglie, ma la sorella del Ghoul. Il Ghoul, incontrato in prima battuta dell'eroe, non è che la guida al suo incontro con la Ghoula. Una, in origine. A parte la triplicazione fiabesca sottolineata da Propp.
Orribile, vecchia, grassa e irsuta come le Trollesse, con lunghe mammelle che getta dietro le spalle per sbrigare senza impacci le sue faccende (cuocere la carne nelle fiabe orientali, macinare il sale nelle scandinave), la Ghoula è dichiaratamente vergine, ma l'eroe si apposta per farsi allattare a tradimento, attaccandosi ad una mammella, secondo le istruzioni del fratellone. E non è una storia strappalacrime: la Ghoula/Trollessa non può più mangiarlo perché l'eroe è diventato suo figlio di latte, cosa che non manca di spiegare molto chiaramente!
E, certamente, nelle fiabe più antiche, così come nessuna "zietta" suggerisce il giusto comportamento alla Vasilisa di turno, nessun Ghoul-fratellone istruisce l'eroe... che è un eroe proprio perché sa cosa fare.

La Bella e la Brutta, V. Imbriani

'era un omo che aveva una figlia e si rimaritò e dalla seconda moglie ebbe un'altra figlia. E la prima che aveva i' suo marito, la matrigna non gli voleva punto bene. La prima, che non poteva lei, un giorno lei gli dava molto da filare e gli diceva.... gli dava una libbra di lino dapprima e gli diceva: "Se stasera tu non hai finita questa libbra di lino, tu non devi aver da cena."
Quella poera bambina andiede fòri; non faceva che piangere, non sapeva come fare a filare questa libbra di lino. Strada facendo, trovò una vecchina; disse: "Cos'hai, bambina mia, che piangi tanto?"
Disse: "Cos'ho? Debbo filare una libbra di lino, sennò mia madre non mi dà punto da cena. Io non so come fare."
E lei, questa vecchina, gli disse: "Stai zitta. Va là nel bosco. Troverai una vaccuccina e gli dirai:
Con la bocca fila, fila; 
Con le corna annaspa annaspa; 
Ti farò l'erba, che pasca."

Arrivò la sera, aveva finito i' suo lino bell'e annaspato e tutto. La sua madre fu contenta, ma i' giorno dopo mandò la sua figlia: e tornò, avendognene dato mezza libbra e non avendone filato neppure un quarto. I' giorno dopo rimandò quella, la prima, la figliastra; e gnene diede due libbre, che lei si struggeva di farla patire, non voleva dargli neppure da mangiare. E gli disse: "Se stasera non avrai filate queste due libbre di lino, non avrai da cena."
Questa bimba, subito sortita di casa, cominciò a piangere. Quando fu alla metà della strada, ritrovò la solita vecchina. Gli disse:
"Cos'hai, bambina, che piangi tanto, poerina?"
"Mia madre, invece d'una libbra, me ne ha date due."
"Vai n'i' solito bosco, troverai la solita vaccuccina, e gli dirai:

Con la bocca fila, fila; 
Con le corna annaspa, annaspa; 
Ti farò l'erba, che pasca."

Arrivò la sera, aveva finito i' suo lino, bell'e annaspato e tutto. I' giorno dopo, la madrigna gnene diede tre libbre e gli disse: "Se stasera non avrai filate queste tre libbre di lino, non avrai da cena."
Questa poera bambina, andiede fòri; non sapeva come fare a filare queste tre libbre di lino. Strada facendo trovò quella vecchina. Gli disse:
"Cos'hai, bambina mia, che piangi tanto?"
"Mia madre, invece di due libbre, me n'ha date tre."
"Vai n'i' solito bosco; troverai la solita vaccuccina e gli dirai:

Con la bocca fila, fila; 
Con le corna annaspa, annaspa; 
Ti farò l'erba, che pasca."

Arrivò la sera; aveva finito i' suo lino, bell'e annaspato e tutto. Poi la madrigna gli diede una camicia a cucire e gli disse: "Se stasera non hai finita questa camicia, non devi aver da cena."
Questa poera bambina non faceva che piangere. Per fortuna ritrovò la solita vecchina; e la gli disse: "Vai n'i' bosco; troverai la solita vaccuccina e falli i' solito discorso:
Con la bocca infila, infila; 
Con le corna cuci, cuci; 
Ti farò l'erba, che pasca."

La madre, tornando a casa, avendo veduta cucita la camicia, non sapeva come fare a gastigarla. I' giorno dopo pensò di mandarla dalle fate a prende' lo staccio per istaccià' la farina per fare i' pane. Va dalle fate questa bambina, picchia alla porta. Le fate dimandano: "Chi è?"
Disse: "Amici!"
"Fate adagio; le scale son di vetro"
Lei si levò le scarpe pe' fa' più piano.
Arrivò dalle fate e gli dissono: "Fate i' piacere di pettinarmi. Che ci trovi in capo mio?"
"Perle e diamanti."
"E perle e diamanti avrai. Fammi i' piacere di rifammi i' mio letto. Che ci trovi n'i' letto mio?"
"Oro e argento."
"E oro e argento avrai. Fammi i' piacere di spazzammi la mia casa. Che ci trovi in casa mia?"
"Rubini e Cherubini."
"Rubini e Cherubini avrai."
La menorno alla stanza dei vestiti e gli dissono: "Prendi un vestito a tuo piacere."
Lei prese un vestito dei peggiori che avessero. Glielo levorno e gli diedono i' più bello che avessero nell'armadio. La menorono alla stanza dove avevano i quattrini e gli dissero: "Prendi quello che ti fa piacere."
E lei prese tre o quattro soldi poco boni. Gnene levorono e gli dierono dell'oro e dell'argento. La menorono alla cassetta delle gioie e gli dissono: "Prendi i' pajo d'orecchini di tuo piacere."
Lei prese un pajo tutti rotti. Gnene levorno e gli diedono un pajo di orecchini di brillanti. Gli dissero: "Quando sarai sur i' ponte, vòltati indietro; sentirai un gallo cantare."
Quando la fu sur i' ponte sentì un gallo cantare; lei si voltò indietro e gli venne una bella stella nella testa. Quando arrivò a casa, la sua madre gnene volea levare: con più che col coltello la raschiava, credeva di levargnene e più bella diventava. La sua madre gelosa, che aveva avuta tanta roba, i' giorno dopo, per riportà' lo staccio, volse mandà' la sua figlia. Quando arrivò in fondo alle scale, picchiò. Le fate dissero: "Chi è?"
"Amici."
"Fate adagio, le scale sono di vetro."
Con più che dicevano di fare adagio, e lei più forte faceva; che gli rompè tutte le scale.
"Pettinatemi. Che ci trovi in capo mio?"
"Zeccacce, pidocchiacce e brutte donnacce come siete vojaltre."
"E zeccacce e pidocchiacce avrai."
"Rifammi i' mio letto. Che ci trovi n'i' letto mio?"
"Pulci e cimici."
"Pulci e cimici avrai."
"Spazzami la mia casa. Che ci trovi in casa mia?"
"Sudiciume, spazzatura, porcherie, come siete vojaltre."
"Spazzatura, sudiciume e porcherie, come siamo nojaltre, avrai."
La portorono alla stanza dei vestiti. Gli dissero: "Prendine uno a i' tuo piacere." Prese i' più bello che ci fosse nell'armadio. Glielo levorono e gli diedono i' vestito più brutto che ci avesse. La menorno alla stanza dei quattrini; gli dissero:
"Prendi quello che tu vòi."
Si era empito il grembiale di danari. Glieli levorono e gli dierono tre o quattro soldacci che ci avevano. La menorno alla stanza delle gioie. Dissono: "Prendi i' pajo d'orecchini di tuo piacere."
Prese un pajo de' più belli. Gnene levorono e gnene dierono un pajo tutti rotti. Dice: "Quando sarai su i' ponte, vòltati indietro: sentirai un asino ragliare."
Si voltò e gli venne una bella coda in mezzo alla testa. Tornò a casa: la sua madre gnene tagliava: con più gnene tagliava e più lunga diventava. Era brutta prima e con questa coda più brutta che mai. Un giorno (avevano un melo vicino a casa) passò i' Re e gli disse alla sua madre che era lì fòri: "Ci sarebbe da avere un poche di mele?"
Disse la madre: "Sì, subito", e chiamò la sua figlia Luisa e gli disse: "Arriva un poche di mele a i' Re."
Prende la scala per arrivà' alle mele: con più credeva di avvicinarsi e più il melo si alzava, non ci arrivava! faceva di tutto per arrivarle e più il melo si alzava.
Il Re disse: "Com'è possibile che non siate bona a arrivarmi un poche di mele? Non ci avete nessuno altri in casa che sian capaci più di voi?"
"Ci ho un'altra, ma non è bona a niente, perchè è una Cenerontolaccia, che sta sempre tra la cenere; non è bona a niente."
"Pure chiamate quella: potrebbe esser più bona di voi."
E la chiamò: "Cenerontola, vien qui per arrivare un poche di mele a i' Re."
Si messe un vestito, che gli avevan regalato le fate, che scendendo la scala sonava, che pareva un campanello. La sua madrigna disse: "Sentite quella Cenerontolaccia, si tira persino la paletta addietro."
I' Re gli disse: "Arrivatemi un poche di quelle mele."
La Cenerontola andiede sott'i' melo. I' melo si calò e s'empì i' grembiule pieno di mele in un minuto. I' Re avendo veduto questa bella giovine con questa bella stella nella testa, disse che la voleva per moglie. La sua madrigna gelosa, benchè pensava a i' tradimento, disse - - che era contenta; e fissarono tra tre giorni d'andare a prenderla in carrozza e gli mandò i' vestiario con sette anella.
La madre, la madrigna, la mattina dello sposalizio, invece di vestire la sposa, vestì la sua figlia da sposa e messe la Cenerontola drento a un tino ignuda, e messe a bollire una caldaja d'acqua. Va i' Re a prendere la sposa in carrozza e la porta via. Quando i cavalli cominciarono a camminare con la sposa drento, che il Re non avea veduto se era la bella o la brutta, e' gli andiede drieto un gatto. Gli diceva:

"Gnaolo, gnaolino! 
La bella è drento i' tino, 
E la brutta malincotta,
I' cavallo d'i' Re che se la porta."

Ma quelli non gli davano retta; seguitavano i' camminare. I' gatto seguitava sempre a gnaolare. I' Re, seguitando i' gatto, e' gli venne a nojare e disse:
"Meglio è indietro ritornare; ci dev'essere qualcosa."
Tornorono indietro e i' gatto andava sempre innanzi a i cavalli; loro sempre indietro; e gli accompagnò insino alla cantina. Entrorono drento e trovorono n'i' tino questa poera ragazza disgraziata, ignuda.

Shannon J.J.


I' Re l'ha riconosciuta, ha spogliato quella ch'era in carrozza, e ha vestito quella che era dentro a i' tino; e hanno messa n'i' tino quella che era in carrozza, ignuda com'era quella prima, e son partiti. I' gatto non l'hanno udito più. Dopo pochi minuti la sua madre ha cominciato a buttare delle pentole d'acqua bollente n'i' tino. La sua figlia diceva: "Mamma, voi mi bruciate."
La gli diceva:
"La mia figlia non sei tu. 
La mia figlia è andata a marito,
Con sette anella in dito."

E lei seguitava a dire: "Mamma, voi mi bruciate."
E lei rispondeva:

"La mia figlia non sei tu. 
La mia figlia è andata a marito, 
Con sette anella in dito."

Ha seguitato a buttar acqua bollente insin in quanto non è stata estinta. Quando non ha sentito più parlare è andata giù a volerla levare. Credeva che la fussi la sua figliastra; e invece era la sua figlia. Non sapeva come fare per dillo a suo padre. L'ha vestita, l'ha portata in casa, l'ha messa a sedere sopra una seggiola, sopra alla porta di casa, con la rocca allato, figurando di filare. Arrivando a casa suo padre, era sull'uscio di casa a sedere sopra la seggiola. Suo padre ha detto: "Cosa fai costì a sedere? Sei sempre a dormire! tu non lavori mai?"
Appena che lui gli ha toccata una mano, è caduta in terra. La sua madre s'è messa a gridare, dicendogli che lui gli aveva ammazzata la figliola. S'è radunato di molta gente. Suo padre l'avevan fatto carcerare; ma avendo scoperto i' delitto di sua madre, in breve tempo l'hanno fatta fucilare. Prima hanno fatto carcerare lui e poi hanno fatto morire lei. La Cenerentola s'ha goduto i' suo marito; divenne Principessa.
Se ne stiedero e se ne goderono
e a me nulla mi dierono.

Da una nota al testo:
"Nel libro intitolato "Études sur Aristophane", par M. Émile Deschanel, v'è un paragone interessante desunto da questa fiaba: Vous rappelez-vous ce conte de fées, où deux jeunes filles, deux sœurs, toutes les fois qu'elles ouvrent la bouche, en laissent échapper, l'une des fleurs, des perles et des pierreries; l'autre des vipères et des crapauds? De ces deux jeunes filles, faites-en une seule, dont la bouche répandra tout cela pêle-mêle: c'est la Muse d'Aristophane".

Vittorio Imbriani, Novella XIV, da "La Novellaja Fiorentina".

Le Tre Fate, G.B.Basile, Pentamerone Terza Giornata,Cunto 10

Cicella, maltrattata dalla matrigna, riceve doni da tre fate; e quella, invidiosa, fa andare alle fate la figlia sua, che ne riporta, invece, scorno. Manda allora Cicella a guardare porci, e un gran signore s'innamora della giovane e vuole sposarla; ma, per malizia della matrigna, gli è data in cambio la figlia brutta, e la figliastra è messa in una botte per farla cuocere con l'acqua bollente. Il signore scopre il tradimento e mette nella botte l'altra; sopravviene la madre, che la spolpa versandole sopra l'acqua calda, e poi, scoperto l'errore, si ammazza.

'era una volta nel casale di Marcianise una vedova chiamata Caradonia, che era la mamma dell'invidia, e non poteva mai veder capitar bene a qualche vicina che non le si facesse un nodo alla gola; non udiva mai la buona sorte di qualche persona di sua conoscenza, che non la prendesse di traverso; né mirava mai femmina o uomo contento, che non le venisse l'angina. Aveva essa una figliuola chiamata Grannizia, che era la quintessenza dei cancheri, il primo taglio delle orche marine, il fior fiore delle botti crepate, con la testa pidocchiosa, i capelli scarmigliati, le tempie pelate, la fronte di mazzuolo, gli occhi gonfi, il naso a bernoccoli, i denti incalcinati, la bocca di cernia, il mento a forma di zoccolo, la gola di pica, le poppe a bisacce, le spalle a vòlta, le braccia ad aspo e le gambe a uncino; e, insomma, da capo a piede era una degna versiera, una squisita peste, un vero accidente, e, soprattutto, nanerottola, anitroccola, mostricciattolo; e, con tutto ciò, scarafaggino a mamma sua pareva bellino. Ora accadde che questa buona vedova si rimaritò con un certo Micco Antuono, ricco massaro di Panicocoli che era stato due volte baglivo e sindaco di quel casale, stimato assai da tutti i panicocolesi, che ne facevano gran conto. Aveva Micco Antuono dal suo canto una figlia, chiamata Cicella, che non si poteva vedere cosa più bella e mirabile al mondo. Possedeva un occhio amoroso che ti affatturava, una boccuccia baciarella da mandare in estasi, una gola di fior di latte che faceva sdilinquire la gente; ed era, insomma, cosi succosa, saporita, giocherella e leccherella, e aveva tanti vezzi, carezze, moine e tenerezze, che svelleva i cuori dai petti. Ma a che tante parole? basta dire che pareva fatta col pennello, che, a esaminarla, non vi trovavi una pecca.

Maxence E.


Caradonia, vedendo che Cicella, al paragone della figlia, si mostrava come un cuscino di velluto in quaranta accanto a uno strofinacciolo di cucina, uno specchio di Venezia accanto a un culo dì pentola unta, una fata Morgana di fronte a un'Arpia, cominciò a guardarla con cipiglio e a tenerla in gola. Né la cosa fini qui, perché rompendosi fuori la postema formatasi nel cuore, e non potendo essa stare più sospesa alla corda, prese a tormentare a carta scoperta la mal capitata giovane. Alla figlia faceva vestire gonna di saia frappata e corpetto di seta, alla misera figliastra i peggiori cenci e stracci della casa; alla figlia dava pane bianco di semolino, alla figliastra croste di pane duro e muffito; la figlia faceva stare come l'ampolla del Salvatore, la figliastra faceva andare su e giù a scopare la casa, a stropicciare i piatti, a rifare i letti, a lavare i panni sudici, a dare il cibo al porco, a governare l'asino e a gettare il buon prò vi faccia. E a tutte queste cose la buona giovane, sollecita e diligente, accudiva con gran premura, non risparmiando fatica per dar nell'umore alla malvagia matrigna. Volle la buona sorte che, andando la poveretta un giorno a gettare l'immondizia fuori di casa a un luogo dov'era un gran dirupo, le cadde giù il corbello; e, mentre essa ricercava con l'occhio come potesse azzeccarlo da quel fondo, che è, che non è? vide un coso scontraffatto, che non sapeva se era l'originale di Esopo o la copia del brutto pezzente [Il Diavolo]. Era un orco che aveva i capelli come setole di porco, neri neri, che gli ricadevano fino ai malleoli; la fronte grinzosa, in cui ogni piega pareva un solco fatto dal vomere; le sopracciglia arruffate e pelose, gli occhi infossati e pieni di quella tal cosa che parevano botteghe sudice sotto due grandi sporgenti di palpebre; la bocca stona e bavosa, dalla quale spuntavano due zanne come di cignale; il petto tutto bernoccoli in un bosco di pelame da poterne riempire un materasso; e, soprattutto, alto di gobba, grande di pancia, sottile di gamba, storto di piede; sicché vi faceva scontorcere la bocca per lo spavento, Cicella, tuttoché vedesse una mala ombra da spiritare, facendo buon animo, gli disse:
"Uomo dabbene mio, porgimi quel cestello che m'è caduto: ch'io ti possa veder prendere una moglie ricca ricca!".
L'orco rispose: "Vien qua, giovane mia, e prenditelo".
E la buona ragazza, afferrandosi alle radici, aggrappandosi ai sassi, tanto s'industriò che discese. E, in fondo al precipizio, che cosa mai trovò? Tre fate: una più bella dell'altra. Avevano i capelli d'oro filato, le facce di luna in quintadecima, gli occhi che parlavano, le bocche che facevano citazioni, a tenore di contratto, per essere soddisfatte di baci inzuccherati. Che più? una gola delicata, uu petto morbido, una mano pastosa, un piede tenerino, e tale una grazia, insomma, che era onorata cornice a tante bellezze. Le fate fecero a Cicella tante carezze e gentilezze che non si potrebbero immaginare; e, presala per mano, la condussero a casa loro, in quella grotta dove avrebbe potuto abitare un re di corona, e la fecero sedere su tappeti turcheschi e cuscini di velluto piano con fiocchi di canapa. Posero poi l'una dopo l'altra le loro teste in grembo a Cicella e vollero che le ravviasse; e mentre essa, con un pettine di corno di bufalo lucente, faceva l'opera sua, le domandarono:"Bella giovane mia, che trovi in questa testolina?". Ed essa, con un bel garbo, rispondeva:"Vi trovo lendinelli e pidocchini, perle e granatini".


Duncan J.

Piacque alle fate la buona creanza di Cicella, e queste magne femmine, intrecciatesi i capelli che s'erano disciolte, la condussero in giro con loro, mostrandole a mano a mano tutte le meraviglie che erano in quel palazzo fatato: scrigni con bellissimi intarsi di castagno e di carpino, col coperchio di pelle di cavallo e le piastre di stagno; tavole di noce, lucide da specchìarvisi; riposti con castelletti di scodelle che ti abbagliavano; tende di panno verde infiorato; sedie di cuoio con le spalliere; e tanti e tanti altri sfoggi che ogni altro, al vederli, sarebbe rimasto incantato. Ma Cicella, come non fosse il fatto suo, mirava le grandezze di quella casa senza gridare al miracolo, e senza ah! e uh! da villano. In ultimo, la fecero entrare in una guardaroba, piena zeppa di vestiti lussuosi, e le fecero vedere gamurre di teletta dello spagnuolo, robe con maniche a prosciutto di velluto a fondo d'oro, coperte di cataluffo guarnite con puntini di smalto, moncili di taffettà in tralice, frontali di fioretti naturali, e gingilli a foglie di quercia, a conchiglia, a mezzaluna, a lingua di serpente, grandiglie con puntali di vetri turchini e bianchi, spighe di grano, gigli e pennacchiere da portare sul capo, granatene di smalto con incastri d'argento, e mille altre figurette e cianciafruscole da portare appese alla gola; e le dissero di scegliere a voglia sua e prendere a piene mani di quelle cose. Ma Cicella, che era umile com'olio, lasciando stare le cose di maggior valore, tolse una gonnella sfilacciata, che non valeva tre calli. E le fate, a veder ciò, le domandarono: "Per quale porta vuoi uscire, grazietta cara?".
Ed essa abbassandosi a terra e quasi stropicciandovisi tutta, disse:
"Mi basta uscire per la stalla".
Allora le fate, abbracciandola e mille volte baciandola, le misero un vestito magnifico, tutto ricamato d'oro; le acconciarono la testa alla scozzese, a canestretta e con tanti nastri e fettucce, che vedevi un prato di fiori, il tuppo a perichitto con l'imbottitura e le treccette pendenti; e l'accompagnarono fino alla porta, ch'era d'oro massiccio con la cornice incrostata di carbonchi. Qui le dissero: "Va', Cicella cara, che ti possiamo vedere ben maritata; e, quando sei sotto quella porta, alza gli occhi, e vedi che cosa vi è sopra".
La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come fu sotto l'arco della porta, levò la testa e le cadde una stella d'oro sulla fronte, ch'era una cosa bellissima.
La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come fu sotto l'arco della porta, levò la testa e le cadde una stella d'oro sulla fronte, ch'era una cosa bellissima.
Stellata, dunque, come un cavallo, e linda e pinta, andò innanzi alla matrigna, raccontandole da cima a fondo quanto le era accaduto.
Ma il racconto fu una botta alla testa per quella femmina invidiosa, la quale non ebbe requie, e presto presto, fattosi indicare il luogo delle fate, vi avviò quella cernia di sua figlia. La quale, giunta al palazzo incantato e trovate quelle tre gioie di fate, quando le dettero a ravviare i capelli, e le domandarono cosa vi trovasse, rispose:"Pidocchi che ognuno è quanto un cece, e lendini, che ognuno è grosso quanto una cucchiara".
Ebbero le fate stizza e dispetto pel modo zotico della brutta villana, e, conoscendo dal mattino la mala giornata, pure dissimularono e la condussero nella stanza delle cose di lusso dicendole di scegliere il meglio. Grannizia, vedendosi offrire il dito, si prese tutta la mano, e afferrò la più bella guarnacca che fosse in quegli armadi.dicendole di scegliere il meglio. Grannizia, vedendosi offrire il dito, si prese tutta la mano, e afferrò la più bella guarnacca che fosse in quegli armadi.
Le fate, a queste villanie l'una sull'altra, restarono interdette; ma tuttavia vollero vedere fino a qual segno sapesse giungere, e le fecero la domanda: "Per quale porta hai piacere di uscire, o bella ragazza? per la porta d'oro o per quella dell'orto?"; ed essa, con una faccia da punteruolo, rispose:"Per la migliore che c'è".
Le fate, vista la presunzione della donnicciuola, non le dettero nemmeno un pizzico di sale, e la rimandarono con l'istruzione: "Quando sarai sotto la porta della stalla, leva la faccia al cielo e vedi che ti viene ". E quella usci tra il letame, e, alzata la testa passando sotto la porta, le cadde sulla fronte un testicolo d'asino, che si apprese alla pelle e pareva una voglia venuta alla madre quando era incinta di lei.
Con questo bel guadagno, mogia mogia, tornò a Caradonia, la quale, al vederla e all'udire il racconto, gettò schiuma dalla bocca, e, rabbiosa come una cagna che ha partorito, fece subito spogliare Cicella, l'avvolse in un sozzo panno e la mandò a guardare i porci, mentre con gli abbigliamenti di lei infronzolì la figliuola. Cicella, con flemma grande e con una pazienza da Orlando, sopportò la trista vita a cui era stata assegnata. O crudeltà da muovere le pietre della strada, che quella bocca, degna di proferire concetti d'amore, fosse sforzata a suonare un corno e a gridare: "Cicco- cicco, enzeenze!"; che quella bellezza, degna di stare tra proci, fosse posta tra porci; che quella mano, degna di tirare per la cavezza cento anime, si cacciasse avanti con una bacchetta cento scrofe: malannaggia ai vizi di chi la comandò a questi boschi, dove, sotto la tettoia delle ombre, la Paura e il Silenzio stavano a ripararsi dal Sole!
Ma il Cielo, che calpesta i presuntuosi e solleva gli umili, fece che capitasse colà un signore di alto grado, chiamato Cuosemo; il quale, a vedere tra il fango un gioiello, tra i porci una fenice, e tra le nuvole rotte di quei cenci il Sole splendente, ne rimase preso cosi forte che mandò a domandare chi essa fosse e dove abitasse. E, appena avute queste notizie, si presentò alla matrigna e gliela richiese per moglie, promettendo di controdotarla di millanta ducati. Caradonia mise subito l'occhio sul partito che si offriva, pensando a sua figlia; e perciò rispose a Cuosemo che tornasse sul far della notte, perché, intanto, voleva invitare i parenti. Quegli andò via tutto giubilante, e gli parve ogni ora mille anni che il Sole si coricasse al letto d'argento, preparatogli dal fiume dell'India, per coricarsi a sua volta con quel Sole che gli ardeva il cuore. E l'altra, in quel mezzo, ficcò Cicella in una botte e ve la chiuse con disegno di darle una bollitura; e, giacché essa aveva abbandonato i porci, con l'acqua calda lessarla come si fa del porco. L'aria era imbrunita e il cielo era diventato simile a bocca di lupo, quando Cuosemo, che aveva il parossismo e moriva dalla brama, per dare con una stretta alle amate bellezze un po' di largo all'appassionato cuore, avviandosi con grande esultanza verso la casa di lei, diceva: "Questa è l'ora appunto di andare a incidere l'albero, che Amore ha piantato in questo petto, per farne sgorgare manna di dolcezze amorose! Questa è l'ora appunto di scavare il tesoro, che la Fortuna mi ha promesso! Perciò, non perder tempo, o Cuosemo: quando ti è offerto il porcello, corri con la cordicella! O notte, o felice notte, o amica degli amanti, o anima e corpo, o pentola e mestolo d'Amore, corri corri a precipizio, perché sotto la tenda delle ombre tue io possa ripararmi dal calore che mi consuma !".
Giunse, con questi pensieri, alla casa di Caradonia, e, in luogo di Cicella, trovò Grannizia, un barbagianni in cambio di un cardellino, un'erba porcacchia in luogo di una rosa sbocciata: la quale, sebbene si fosse messa le vesti di Cicella, e sebbene si dica: Vesti Ceppone, che pare barone, con tutto ciò pareva uno scarafaggio in una tela d'oro; né i conci, gli empiastri e gli stiramenti e lisciamenti, fattile dalla madre, avevano potuto toglierle la forfora dalla testa, le cispe dagli occhi, le lentiggini dalla faccia, il calcinaccio dai denti, i porri dalla gola, le pustole dal petto e la sozzura dai talloni; e l'afa putida della sentina si sentiva lontano un miglio. Lo sposo, vedendo questa sembianza, non sapeva che cosa gli fosse accaduto; e, dato indietro come all'apparir del diavolo, disse fra sé e sé: 'Sono svegliato o mi sono calzato gli occhi alla rovescia? Son io o non son io? Che cosa vedo? Sciagurato Cuosemo, ti è stata rovinata la barca! Questa non è la faccia che stamattina mi ha afferrato per la gola; questa non è l'immagine che mi è rimasta dipinta nel cuore. Che vuol dir ciò, o Fortuna? Dove, dov'è la bellezza, l'uncino che mi aggranfiò, l'argano che mi tirò, la freccia che mi trapassò? Sapevo bene che né femmina né tela a lume di candela; ma questa io me l'accaparrai a lume di sole. Oimè, che l'oro di stamattina mi si è, stasera, mutato in rame e il diamante in vetro!'.
Queste e altre parole mormorava e borbottava tra i denti; pure, alla fine, costretto dalla necessità, die un bacio a Grannizia, ma come se baciasse un vaso antico, che avvicinò e scostò più di tre volte le labbra prima di toccare il muso della sposa; alla quale accostatosi, gli parve di trovarsi alla marina di Ghiaia, la sera, quando quelle magne femmine portano tributo al mare d'altro che di odori d'Arabia [vedi nota]. E, poiché intanto il Cielo, per parer giovane, si era fatta la tinta nera alla barba bianca, e la terra di questo signore era molto distante, egli fu costretto a portarsi la sposa a una casa poco lontana dai confini di Panicocoli, dove, acconciato un saccone sopra due casse, si coricò con lei. Ma chi può dire la mala notte che passarono l'uno e l'altra? che, quantunque fosse di estate e non giungesse a otto ore, pure parve loro più lunga della più lunga notte dell'inverno. Dalla sua parte, la sposa, irrequieta, tossiva, si spurgava, tirava qualche calcio, sospirava e, con parole mute, chiedeva il censo della casa affittata; ma Cuosemo faceva finta di russare e tanto si ritirò sulla sponda del letto per non toccare Grannizia, che, mancatogli il saccone, cadde sopra un orinale, e la cosa riusci a puzzo e vergogna. Oh quante volte lo sposo bestemmiò i morti del Sole, che indugiava tanto per tenerlo più lungo tempo sotto quel pressoio! Quanto pregò che la Notte corresse a precipizio, rompendosi il collo, e le stelle sprofondassero, per togliersi da canto, con la venuta del giorno, quel brutto giorno ! Ma non cosi presto l'Alba usci a cacciare le gallinelle [le Pleiadi]e svegliare i galli, egli saltò dal letto, a stento si appuntò le brache e andò di corsa alla casa di Caradonia per rinunziarle la figlia e pagamele l'assaggio con un manico di scopa. Non la trovò nell'entrare, che era andata al bosco per un fascio di legna con l'intento di mettere al fuoco l'acqua per bollire la figliastra; la quale stava tappata dentro la tomba di Bacco, laddove meritava di essere esposta nella culla d'Amore. Cuosemo, cercando invano Caradonia per la casa, e vedendo che era sparita, cominciò a gridare:
"Olà, dove state?". Ed ecco che un gatto soriano, che covava la cenere, all'improvviso mandò una voce:"Gnao gnao! tua moglie è dentro la botte, chiusa e inchiodata: gnao-gnao !".
Cuosemo si accostò alla botte e senti un certo lamentio cupo e fioco; onde, presa subito un'accetta che era appesa presso il focolare, sfasciò la botte, e il cader giù delle doghe parve il cader della tela di una scena sulla quale una Dea si avanzi a recitare il prologo. Non saprei dir come, a tanto splendore, Cuosemo non cascasse morto di colpo; ma stette per un certo tempo come chi ha visto il monachetto, e poi, tornato in sé, corse ad abbracciare Cicella, interrogandola affannosamente:"Chi ti aveva posto in questo triste luogo, o gioiello del mio cuore? Chi mi ti aveva nascosta, o speranza della mia vita? Che cosa è questa? La leggiadra colombella in una gabbia di cerchi? e venire, invece di lei, al fianco mio, l'uccello grifone? Come va questo fatto? Parla, boccuccia mia bella; consola questo spirito, lascia sfogare questo petto!". Cicella gli raccontò tutto l'accaduto, senza lasciarne un iota, quanto aveva in passato sofferto in casa dal giorno che la matrigna vi mise piede, via via fino al momento che, per toglierle la vita, l'aveva sotterrata in una botte.
Udito ciò, Cuosemo la fece rimpiattare dietro la porta; e, rimessa insieme la botte, andò a chiamare Grannizia e ve la ficcò dentro, dicendole:"Sta' qui un po', tanto ch'io faccia eseguire un incantamento, affinché i mali occhi non ti possano nuocere".
Poi, abbracciata Cicella, la levò su un cavallo e se là portò a Pascarola, che era la terra sua. Tornata Caradonia con una gran fascina, accese un gran fuoco e vi pose sopra una grande caldaia d'acqua; e, quando l'acqua cominciò a bollire, la versò attraverso il buco nella botte e spolpò tutta la figlia, che digrignò i denti come se avesse mangiato l'erba sardonica, e le si staccò la pelle come al serpente, allorché getta la scoglia. E, quando giudicò che Cicella avesse steso i piedi, ruppe la botte. Ma, trovando invece (ahi, vista! ahi, conoscenza!) la propria figlia cotta da una cruda madre, si strappò le ciocche, si graffiò la faccia,si picchiò il petto, batté le mani, cozzò con la testa contro i muri, pestò i piedi a terra, e fece tanto lutto e piagnisteo che vi accorse tutto il casale. E, poi ch'ebbe fatto e detto cose dell'altro mondo, che non bastarono conforti a consolarla né consigli a mitigarla, andò di corsa a un pozzo, e colà zìiffete, con la testa in giù, si ruppe il collo, mostrando quanto sìa vera quella sentenza: 
Chi sputa in cielo, gli ritorna in faccia.



Maxence E.





Traduzione e Note di Benedetto Croce.
Il testo originale è nella pagina G.B. Basile.

Dalle Note al Testo:
...alla quale accostatosi, gli parve di trovarsi alla marina di Ghiaia, la sera, quando quelle magne femmine portano tributo al mare d'altro che di odori d'Arabia
"La nostra sconcissima architettura e cattiva distribuzione degli appartamenti -scrive il Galiam {Voc. nap., I, 280-2) - e la strettezza con cui si abita in una popolatissima capitale, rendono sensibile in tutte le case questo necessario servizio. Nel borgo di Chiaia non solo è sensibile ma importuno, giacché, essendo quelle case edificate tutte a livello del mare, e, per non esservi caduta bastante, non essendosi potuto nelle case costruir le chiaviche e condotti sotterranei, conviene che lo schifoso votamento si faccia alla marina, attraversando la nobilissima strada del pubblico passeggio ". Le ore della sera si dicevano perciò ore iettatone e ore fetorie; e la prima ora di notte prese anche il nome di mal'ora di Chiaia, e a questo modo è designata perfino in atti legislativi.


venerdì 24 gennaio 2014

IT (Esso)


"Vi era una creatura conosciuta come It (Esso) che nessuno descriveva nello stesso modo. Uno diceva: Sembra un grande pezzo di medusa.
Un altro: Sembra una borsa di lana bianca.
Talvolta appariva come un animale senza zampe, o come una creatura dal corpo da uomo, ma privo di testa. Non era mai apparso due volte sotto le stesse sembianze. Senza zampe né ali, poteva correre più veloce di un cane e volare più svelto di un'aquila. Non emetteva alcun rumore, eppure la gente capiva cosa volesse dire. Ogni anno una casa di Yule veniva disturbata da Esso. Una volta un uomo stava seduto in una stanza di quella casa con una candela accesa e la Bibbia. Improvvisamente sentì qualcosa di strano come se stesse cadendo un corpo morto.
L'uomo si precipitò fuori con una scure in una mano e la Bibbia nell'altra; Esso correva lungo la scogliera e l'uomo faceva fatica a seguirlo; e proprio mentre lo Spirito stava per gettarsi nel mare, l'uomo pronunciò le parole sacre e gettò la scure che si conficcò su Esso.
Tornato a casa convinse alcuni amici ad accompagnarlo sul posto; trovarono Esso con la scure conficcata nel corpo; gli uomini gli buttarono addosso della terra. Nessuno di loro fu in grado di dire se fosse vivo o morto, né di descrivere il suo aspetto, poiché a ognuno sembrava differente. Dopo averlo coperto con la terra, scavarono intorno al suo corpo un fossato ampio e profondo, di modo che nessun uomo o nessun animale potesse avvicinarsi - precauzione inutile poiché
nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi.
Uno straniero cercò di risolvere il mistero che riguardava Esso: quando alzò la terra per vedere cosa ci fosse sotto, fu circondato da una luce sinistra e da una strana nebbia e qualcosa sorse dal buco e rotolò nel mare.
Gli scettici chiesero se quella creatura potesse essere una lontra o una foca, ma venne loro risposto, con estrema serietà, scuotendo la testa: Noi tutti sappiamo che ci sono molti tipi di vita sulla terra, nell'aria e nell'acqua - e inoltre sopra le nuvole. E noi, poveri mortali, non siamo in grado di vedere, sentire o capire determinate cose. Dobbiamo soltanto rimetterci tutti al potere che proviene da lassù".

Jessie Saxby, "Shetland Traditional Lore"





La Briggs, riportando questa descrizione, definisce It la versione dello Shetland di Boneless, e aggiunge che questo spirito (Spirito, non elfo o folletto) era "abilissimo negli incantesimi", e che il suo potere magico era al culmine del periodo natalizio.

A proposito di Boneless, afferma che apparterrebbe alla categoria di spiriti che amano spaventare i viaggiatori solitari e i bambini nei loro letti.
"Ruth Tongue riporta una storia - raccontatale nel 1916 - che narra l'incontro di un venditore ambulante con Senz'ossa e pochi anni più tardi ella venne a sapere che un poliziotto, durante la ronda notturna, era stato assalito dallo spirito. L'apparizione fu descritta dalla cognata della guardia:
Mi disse che era buio sopra Putsham Rise e che la marea stava alzandosi rapidamente, tanto che egli poteva sentirne il rumore. A un certo punto la lampadina della sua bicicletta illuminò qualcosa di bianco in mezzo alla strada. Non vi era nebbia. Era qualcosa di vivo - una creatura lanosa simile a una nuvola o a una pecora bagnata - e improvvisamente l'essere scivolò sopra di lui e gli si avvinghiò addosso, cominciando a scuoterlo su e giù. Egli non ebbe il tempo di reagire, ma mi disse che era come una coperta bagnata, pesante e terribilmente fredda, che aveva un odore stantìo. Dopo questo incontro, mio cognato chiese di essere trasferito a un altro distretto".

San Giuseppe nel Bosco, Grimm

'era una volta una madre che aveva tre figlie: la maggiore era scortese e cattiva, la seconda era già molto meglio, benché avesse anche lei i suoi difetti, mentre la più giovane era una bimba buona e pia. Eppure la madre era così stravagante che prediligeva proprio la figlia maggiore e non poteva soffrire la minore. Per questo mandava sovente la povera bambina in un gran bosco, per levarsela di torno; pensava infatti che si sarebbe persa e che non sarebbe più tornata. Ma l'angelo custode, che ogni bimbo buono ha con sé, non l'abbandonava e la riportava sempre sulla strada giusta. Tuttavia una volta la bimba non riuscì a trovare la strada per uscire dal bosco e l'angioletto finse di non esserci. Così ella continuò a camminare fino a sera; allora vide in lontananza ardere un lumicino, corse verso quella luce e arrivò davanti a una piccola capanna. Bussò, la porta si aprì ed ella giunse a una seconda porta, alla quale bussò di nuovo.
Le aprì un vecchio che aveva la barba bianca e un aspetto venerando, e non era altri che san Giuseppe. Egli le disse benevolmente:
"Vieni, bimba cara, siediti sulla mia seggiolina accanto al fuoco e scaldati; se hai sete andrò a prenderti un po' d'acqua limpida; da mangiare invece, qui nel bosco, non ho altro per te che qualche radichetta; e prima devi raschiarle e farle cuocere".
San Giuseppe le porse le radici; ella le raschiò ben bene, poi prese un pezzetto di frittata e il pane che le aveva dato la madre, mise tutto insieme in un pentolino sul fuoco e si fece una pappa. Quando la pappa fu pronta, san Giuseppe disse:
"Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena".
La bimba lo servì subito e gli diede di più di quello che tenne per sé, ma con la benedizione di Dio si sfamò. Quand'ebbero finito di mangiare, san Giuseppe disse: "Adesso andiamo a dormire, però io ho un letto solo: vacci tu, io mi stenderò per terra sulla paglia".
"No - rispose la bimba - rimani pure nel tuo letto; per me la paglia è abbastanza morbida."
Ma san Giuseppe la prese in braccio e la portò nel lettino, e la bimba disse le sue preghiere e si addormentò. La mattina dopo, quando si svegliò, voleva dare il buon giorno a san Giuseppe, ma non lo vide. Si alzò, lo cercò, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte; alla fine scorse dietro la porta un sacco con del denaro, ma così pieno che poteva appena portarlo; sopra c'era scritto che era per la bimba che aveva dormito là quella notte. Allora ella prese il sacco, corse via e arrivò felicemente da sua madre; e siccome le regalò tutto il denaro, la madre non poté che essere contenta di lei.
Il giorno seguente anche la seconda figlia ebbe voglia di andare nel bosco. La madre le diede un pezzo di frittata molto più grosso e del pane. Le cose andarono come per l'altra sorella. La sera giunse alla capannuccia di san Giuseppe, che le diede le radici per la pappa. Quando la pappa fu cotta, egli disse anche a lei:
"Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena".
La bimba rispose: "Mangia pure con me".
Poi, quando san Giuseppe le offrì il suo letto e volle coricarsi sulla paglia, ella rispose: "No, vieni anche tu nel letto: c'è posto per tutt'e due".
San Giuseppe la prese in braccio, la mise nel lettino e si coricò sulla paglia. La mattina, quando la bimba si svegliò e cercò san Giuseppe, egli era scomparso; ma dietro la porta ella trovò un sacchetto di denaro lungo un palmo, e c'era scritto che era per la bimba che aveva dormito là quella notte. Ella prese il sacchetto, corse a casa e lo portò a sua madre; però tenne per sé‚ di nascosto un po' di denaro. Ora si era incuriosita la figlia maggiore, e il mattino dopo volle andare nel bosco anche lei. La madre le diede frittata a volontà, pane, e in più del formaggio. La sera, proprio come le altre due, ella trovò san Giuseppe nella sua capannuccia. Quando la pappa fu pronta e san Giuseppe disse:
"Ho tanta fame, dammi un po' della tua cena", la fanciulla rispose:
"Aspetta ch'io sia sazia: ti darò quel che avanzo". E mangiò quasi tutto, sicché san Giuseppe dovette raschiare la ciotolina. Poi il buon vecchio le offrì il suo letto e volle coricarsi sulla paglia; ella accettò senz'altro, si coricò nel lettino e lo lasciò sulla paglia dura. Il mattino dopo, quando si svegliò, san Giuseppe non c'era, ma ella non se ne curò; cercò invece il sacco del denaro dietro la porta. Le sembrò che ci fosse qualcosa per terra, tuttavia, poiché non riusciva a capir bene cosa fosse, si piegò e ci urtò contro con il naso. E al naso le rimase attaccato e, quando si rialzò, vide con terrore che era un altro naso, saldamente appiccicato al suo. Incominciò a gridare e a lamentarsi, ma non servì a nulla: vedeva sempre quel naso, che stava così in fuori. Allora corse via urlando, finché incontrò san Giuseppe; gli cadde ai piedi, e lo supplicò tanto che egli, impietosito, le tolse quel naso e le regalò ancora due centesimi.
Quando giunse a casa, la madre l'aspettava sulla porta e le domandò:
"Cos'hai ricevuto in regalo?".
La fanciulla mentì e disse: "Un grosso sacco pieno di denaro, ma l'ho perso per strada".
"Perso! - esclamò la madre. - Oh, lo ritroveremo!"
La prese per mano e voleva cercarlo con lei. Dapprima la fanciulla si mise a piangere e non voleva andare, alla fine però si mosse; ma per strada furono assalite da tante lucertole e serpi, che non sapevano come porsi in salvo. La fanciulla cattiva fu così uccisa dai loro morsi, e la madre fu morsa in un piede, perché non l'aveva educata meglio.


Tenggren G.



Grimm n.201, "Der heilige Joseph im Walde".
Classificazione: Aa Th 480 [The Kind and the Unkind Girls]
Il testo in lingua originale è nella Pagina: Brüder Grimm.


Vorrei ricordare che siamo partiti da Vasilisa e dalla Baba Jaga. 
Vasilisa: una cenerentola debitamente fornita di matrigna e sorellastre. 
La Baba: magnificamente se stessa, pur attraverso  il fenomeno dell'inversione fiabesca ben descritto da Propp. La "moralità" di Vasilisa risalta solo per contrasto con l'odio omicida delle antagoniste; più che moralità, è innocenza perseguitata, apparentemente senza motivo. Ed è Vasilisa che affronta la prova nel bosco. Matrigna e sorellastre vengono, infine, punite, senza metterci piede. Implicitamente, la "forza magica" che Vasilisa dimostra nel confronto con la Baba condanna le sue persecutrici.
Nelle fiabe simili, invece, la sorella/stra brutta (e quindi cattiva) merita i castighi più tremendi per la sua scortesia e la sua superbia contrapposte alla gentilezza di modi e d'animo dell'eroina bella (e quindi buona). Posto questa fiabuccia dei Grimm perché ben rappresenta il delirio moralistico che imperversò in questo tipo fiabesco in epoche più tarde. 

martedì 21 gennaio 2014

Il Vampiro, Russia (Afanas'ev n. 363)

Molte fiabe mediorientali esaltano il valore della sabr', uno straordinario esercizio della pazienza come mezzo per vincere la sofferenza. Un esempio, per chi lo abbia letto (già postata nel Blog), è la fiaba dei Grimm, "La Figlia della Madonna", di sicura origine orientale. Storia, protagonisti, e, soprattutto, il significato, sono, però, in Occidente, completamente sovvertiti. La Madonna, nella fiaba mediorientale, è uno sheikh, maestro in una scuola coranica, scoperto da una piccola allieva mentre divora una giovane sposa. Da quel momento, perseguiterà la bambina, divenuta fanciulla e poi sposa di un principe, chiedendole ripetutamente di confessare ciò che ha visto. Ad ogni diniego, subisce una terribile disgrazia. Come la Madonna, anche lo sheikh le sottrae i figli neonati, lasciando che venga sospettata di averli divorati, e, come la Madonna, in realtà, non li uccide, ma li cresce e li educa. E, dopo aver saggiato la sabr' della loro madre, glieli restituisce il giorno in cui si celebrano le nozze del marito con un'altra donna.
L'eroica capacità di sopportazione della protagonista, nella fiaba tedesca, e nelle consimili europee, (dove rientra nel tipo Barbablu), diventa, al contrario, ostinazione nel peccato d'orgoglio che le impedisce di confessare la trasgressione, l'apertura della porta proibita.
In Russia, la funzione dello sheikh e della Madonna è svolta da un vampiro, e si avvicina al tipo "The False Lover", (Il Fidanzato Brigante, Mr Fox...), piuttosto che a Barbablu. Ecco la fiaba.


Gilbert A.Y.




n un certo stato, in un certo reame, c'era una volta un vecchio e una vecchia. Avevano una figlia, Marusja. Nel loro villaggio c'era l'abitudine di festeggiare S.Andrea, primo apostolo. Le ragazze si riuniscono in un'izba, cuociono delle frittelle, e si divertono per un'intera settimana, e magari anche di più. Ed ecco che arrivarono al giorno della festa, le ragazze si riunirono, prepararono le frittelle, come si doveva; la sera arrivarono i giovanotti con il flauto, portarono i vini, cominciò la danza, cominciò la baldoria con gran baccano. Tutte le ragazze ballano bene, ma Marusja è la più brava di tutte! Dopo un po' entra un giovanotto:  ma che meraviglia! Sangue e latte! E' vestito in modo ricco, pulito. "Salute, - dice - belle ragazze!"
"Salute, bravo giovane!"
"Buon divertimento!"
"Ti chiediamo di divertirti con noi!"
Qui egli trasse un borsellino pieno d'oro, mandò a ordinare del vino, delle noci, del panpepato; in un momento tutto fu pronto. Egli cominciò ad offrire roba da mangiare e da bere a ragazze e ragazzi, accontentò tutti. E poi si mise a danzare era proprio bello vederlo! Più di tutti lo ammirava Marusja, così le andava a garbo.

Gilbert A.Y.

Venne il momento in cui dovettero lasciarsi ciascuno a casa sua. Dice il giovanotto a Marusja:
"Marusja, vieni! Accompagnami!".
E Marusja lo accompagnò.
Egli dice "Marusja, cuore mio! Vuoi sposarmi?"
"Se tu mi volessi, volentieri accetterei! Ma tu di dove sei?"
"Ecco, io vengo dal tale luogo, e vivo presso un mercante, come commesso".
Qui si lasciarono. e ciascuno andò per la sua strada.
Marusja tornò a casa, e la madre le chiese:
"Ti sei divertita, figliola?"
"Sì, mamma, e ti devo dire una cosa, una gioia. C'era uno venuto da fuori, un bravo giovane, un bel giovane, con molti soldi. E mi ha promesso di sposarmi."
"Ascolta, Marusja, quando domani andrai dalle ragazze, porta con te un gomitolo di filo. Quando lo accompagnerai, annoda un filo a un suo bottone, e poi lascia che il gomitolo si svolga piano piano, grazie a questo filo riuscirai a sapere dove abita."
Il giorno dopo, Marusja andò alla serata e prese con sé il gomitolo di filo. Di nuovo arrivò il giovanotto:
"Salve, Marusja!"
"Salve!"
Cominciarono a giocare, a ballare.
Più di prima si attacca a Marusja, non la lascia di un passo. E già viene il tempo di tornare a casa.
"Marusja - dice l'ospite - accompagnami."
Marusja uscì in  strada, si salutarono, e Marusja si mise a salutarlo, e intanto gli legò a un bottone il filo. Lui se ne andò per la sua strada, e Marusja svolse poco a poco il suo gomitolo, e il gomitolo si srotola. Marusja corse dietro al filo: dove viveva il fidanzato?
All'inizio il filo seguì la strada, poi passò sopra palizzate, attraverso canali, e condusse Marusja proprio in chiesa, alla porta principale. Ma la porta era chiusa. Marusja girò intorno alla chiesa, trovò una scala, l'appoggiò ad una finestra e guardò che cosa succedeva. Il suo bel fidanzato sta presso una bara e sta mangiando il morto. Allora tenevano per una notte i cadaveri in chiesa. Marusja avrebbe voluto piano scendere dalla scala ma per lo spavento non fu molto attenta e fece rumore. Fugge a casa, è così spaventata che le pare che la stiano inseguendo. Arrivò a casa mezzo morta dalla paura.
Il mattino, la madre le chiede:
"Allora, Marusja, hai visto il tuo giovanotto?"
"Sì, l'ho visto, matuska!"
Ma quello che ha visto non lo vuole raccontare. La sera, Marusja è tutta pensierosa, andare o non andare alla festa?
"Va' - dice la madre -  e gioca finché sei giovane!"
Marusja va alla festa, e l'impuro è già là. Di nuovo cominciano i giochi, le risate, le danze. Le ragazze non sanno nulla. Si salutarono per andare a casa. L'impuro dice:
"Marusja, accompagnami!"
Lei non vuole andare, ha paura.
"Che ti succede? Hai vergogna? Su, vieni, accompagna questo bravo ragazzo!"


Gilbert A.Y.

Non c'è niente da fare: Marusja lo accompagna. Non appena furono in strada lui le chiede:
"Tu ieri sei venuta nella chiesa?"
"No."
"Hai visto quello che io facevo là?"
"No."
"Beh, domani tuo padre morrà!", disse, e sparì.
Marusja tornò a casa, triste e infelice. Il mattino si alzò: suo padre giace morto. Lo piansero e lo misero nella bara; la sera la madre va dal prete; Marusja rimase sola.
"Allora andrò dalle amiche."
Ci va, e là trova l'impuro.
"Salute, Marusja! Perchè non sei allegra?"
"Ma quale allegria? E morto mio padre."
Tutti sono tristi con lei, e lo è anche l'impuro, come se non fosse colpa sua, il maledetto. Si salutarono, ciascuno se ne andò a casa sua.
"Marusja - dice l'impuro - accompagnami."
Lei non vuole.
"Che succede, Marusja, che ti succede, piccola? Di che hai paura? Accompagnalo!", insistono le ragazze. Uscirono in strada:
"Dimmi, Marusja, sei stata in chiesa?".
"No."
"Hai visto che cosa ho fatto?"
"No."
"Beh, domani tua madre morirà!", disse, e sparì.
Marusja tornò a casa ancora più triste; trascorse la notte ;il mattino si svegliò: la madre giace morta. Marusja pianse l'intero giorno. Ecco, il sole scese, si fece buio tutto in giro; Marusja ha paura a stare da sola, e va dalle amiche.
"Salute! Che ti succede? Hai la faccia sconvolta!" dissero le ragazze.
"Come posso essere felice? Ieri è morto mio padre, oggi è morta mia madre."
Poverina, infelice la compassionano. Ed ecco viene il tempo di lasciarsi.
"Marusja! Accompagnami", dice l'impuro.
Marusja uscì per accompagnarlo.
"Dimmi, sei stata in chiesa?"
"No!"
"Hai visto quello che ho fatto?"
"No!"
"Beh, allora domani verso sera morirai!"
Marusja passò la notte con le amiche, il mattino si alza e pensa: 'Che cosa devo fare?' Si ricordò di avere una nonna, vecchia, vecchissima, già divenuta cieca a causa dei molti anni. 'Andrò da lei per chiedere consiglio'.
Andò dalla nonna:
"Salute, nonnina!"
"Salute, nipotina! Come te la passi? Come stanno il papà e la mamma?"
"Sono morti, nonnina!", e qui Marusja raccontò tutto quel che le era successo. La vecchietta ascoltò e dice:
"Oh, disgraziata mia! Va' subito dal pope, e chiedigli questo: non appena sarò morta, digli, che scavino una fossa sotto la soglia di casa, e che non mi portino fuori dall'izba passando attraverso la porta, ma che mi trascinino attraverso quell'apertura, quella fossa. E chiedi che ti seppelliscano ad un crocicchio, là dove le strade si incontrano".
Marusja andò dal pope, pianse tutte le sue lacrime, e chiese che facessero come le aveva insegnato la nonnetta. Tornò a casa, comprò una bara, vi si coricò, e morì subito. Lo dissero al prete: egli seppellì dapprima il padre e la madre di Marusja. E poi lei. La trasportarono sotto la soglia, e la seppellirono ad un crocicchio.
Poco tempo dopo, al figlio di un bojaro accadde di passare vicino alla tomba di Marusja, e su quella tomba era nato un meraviglioso fiore, un fiore che nessuno aveva mai visto. Dice il signorino al suo servo:
"Va', prendi quel fiore con la sua radice, lo portiamo a casa, e lo mettiamo in un vaso: che fiorisca in casa nostra!"
Ed ecco che strapparono il fiore, lo portarono a casa, lo misero in un vaso smaltato e lo collocarono alla finestra. Il fiore cominciò a crescere, diventò bello. Accadde che una notte il servo non riusciva a dormire. Guarda il vaso e vede che si sta compiendo un prodigio: a un tratto il fiore si mise a oscillare, dal suo ramo cadde a terra, e si trasformò in una bella ragazza. Il fiore era bello, ma la ragazza ancora più bella! La ragazza camminò in su e in giù per la camera, prese diverse bevande e cibi, bevve e mangiò, poi diede un colpo al pavimento, si trasformò di nuovo in fiore, salì sulla finestra, e si posò sul suo ramicello.

Sam Weber

Il giorno dopo, il servo raccontò al padrone il prodigio a cui aveva assistito.
"Ah, fratello, perché non mi hai svegliato? Questa notte faremo la guardia tutti e due".
Scese la notte, essi non dormono, aspettano. Proprio a mezzanotte il fiore comincia a muoversi, a volare da una parte all'altra, poi cadde in terra, e comparve la bella ragazza la quale si procurò cibo e bevande, e si sedette a cenare. Il signorino corse fuori, la prese per le bianche mani e la trascinò nella propria stanza. Non riusciva neanche a guardarla troppo: era troppo bella, una bellezza abbacinante. Il mattino dice al padre e alla madre:
"Permettete che io mi sposi: mi sono trovato una fidanzata".
I genitori lo permisero. Marusja gli dice:
"Io ti sposo soltanto a patto che per quattro anni non si vada in chiesa".
"D'accordo!".



Così si sposarono, vivono insieme un anno, due anni, misero al mondo un figlio. Una volta vennero da loro degli ospiti; giocarono, scherzarono, bevvero, si misero a vantare le proprie mogli. Una era brava e bella, l'altra ancora più brava e più bella.
"Beh, come volete - dice il padrone - ma meglio della mia sposa al mondo non c'è nessuna"
"Sì, ma non è battezzata!", rispondono gli ospiti.
"Come?"
"Non va mai in chiesa."
Queste parole sembrarono al marito offensive. Aspettò la domenica e ordinò alla moglie di prepararsi per andare a messa.
"Non voglio sapere niente! Preparati subito!"
Si prepararono dunque, e si recarono in chiesa. Entra il marito, non vede nessuno. Ma lei guarda, presso la finestra è seduto l'impuro:
"Ah, eccoti dunque! E allora sei stata in chiesa quella notte?"
"No!"
"Allora domani moriranno tuo marito e tuo figlio!"
Marusja andò direttamente dalla chiesa alla sua vecchia nonna. Questa le dette un flaconcino di acqua santa, e un altro flaconcino di acqua viva, e le disse quello che doveva fare.
Il giorno dopo morirono il marito e il figlio di Marusja. E l'impuro volò da lei e le chiese:
"Dimmi, sei stata in chiesa?"
"Sì."
"E hai visto ciò che facevo?"
"Divoravi un cadavere!" Nel dire questo spruzzò l'impuro di acqua santa e quello si disperse in polvere. Dopo di che spruzzò il marito e il figlio di acqua viva, ed essi subito rivissero, e da quel momento non conobbero né dolore, né abbandono, ma vissero inseme a lungo felicemente.

Remnev A.

Traduzione: Bazzarelli, Guercetti, Klein.