Cicella, maltrattata dalla matrigna, riceve doni da tre fate; e quella, invidiosa,
fa andare alle fate la figlia sua, che ne riporta, invece,
scorno. Manda allora Cicella a guardare porci, e un gran signore
s'innamora della giovane e vuole sposarla; ma, per malizia della
matrigna, gli è data in cambio la figlia brutta, e la figliastra è messa
in una botte per farla cuocere con l'acqua bollente. Il signore scopre
il tradimento e mette nella botte l'altra; sopravviene la madre, che
la spolpa versandole sopra l'acqua calda, e poi, scoperto l'errore,
si ammazza.
'era una volta nel casale di Marcianise una vedova chiamata Caradonia, che era la mamma dell'invidia, e non
poteva mai veder capitar bene a qualche vicina che non le
si facesse un nodo alla gola; non udiva mai la buona sorte
di qualche persona di sua conoscenza, che non la prendesse
di traverso; né mirava mai femmina o uomo contento, che
non le venisse l'angina.
Aveva essa una figliuola chiamata Grannizia, che era la
quintessenza dei cancheri, il primo taglio delle orche marine,
il fior fiore delle botti crepate, con la testa pidocchiosa, i capelli
scarmigliati, le tempie pelate, la fronte di mazzuolo, gli
occhi gonfi, il naso a bernoccoli, i denti incalcinati, la bocca
di cernia, il mento a forma di zoccolo, la gola di pica, le
poppe a bisacce, le spalle a vòlta, le braccia ad aspo e le
gambe a uncino; e, insomma, da capo a piede era una
degna versiera, una squisita peste, un vero accidente, e, soprattutto,
nanerottola, anitroccola, mostricciattolo; e, con tutto
ciò, scarafaggino a mamma sua pareva bellino.
Ora accadde che questa buona vedova si rimaritò con un
certo Micco Antuono, ricco massaro di Panicocoli che era
stato due volte baglivo e sindaco di quel casale, stimato assai
da tutti i panicocolesi, che ne facevano gran conto. Aveva
Micco Antuono dal suo canto una figlia, chiamata Cicella, che
non si poteva vedere cosa più bella e mirabile al mondo.
Possedeva un occhio amoroso che ti affatturava, una boccuccia
baciarella da mandare in estasi, una gola di fior di latte che
faceva sdilinquire la gente; ed era, insomma, cosi succosa, saporita,
giocherella e leccherella, e aveva tanti vezzi, carezze,
moine e tenerezze, che svelleva i cuori dai petti. Ma a che
tante parole? basta dire che pareva fatta col pennello, che, a
esaminarla, non vi trovavi una pecca.
Maxence E.
Caradonia, vedendo che Cicella, al paragone della figlia,
si mostrava come un cuscino di velluto in quaranta accanto
a uno strofinacciolo di cucina, uno specchio di Venezia accanto
a un culo dì pentola unta, una fata Morgana di fronte
a un'Arpia, cominciò a guardarla con cipiglio e a tenerla in
gola. Né la cosa fini qui, perché rompendosi fuori la postema
formatasi nel cuore, e non potendo essa stare più sospesa
alla corda, prese a tormentare a carta scoperta la mal capitata
giovane. Alla figlia faceva vestire gonna di saia frappata
e corpetto di seta, alla misera figliastra i peggiori
cenci e stracci della casa; alla figlia dava pane bianco di semolino,
alla figliastra croste di pane duro e muffito; la figlia
faceva stare come l'ampolla del Salvatore, la figliastra faceva
andare su e giù a scopare la casa, a stropicciare i
piatti, a rifare i letti, a lavare i panni sudici, a dare il cibo
al porco, a governare l'asino e a gettare il buon prò vi faccia. E a tutte queste cose la buona giovane, sollecita e diligente,
accudiva con gran premura, non risparmiando fatica
per dar nell'umore alla malvagia matrigna.
Volle la buona sorte che, andando la poveretta un giorno
a gettare l'immondizia fuori di casa a un luogo dov'era un
gran dirupo, le cadde giù il corbello; e, mentre essa ricercava
con l'occhio come potesse azzeccarlo da quel fondo, che
è, che non è? vide un coso scontraffatto, che non sapeva se
era l'originale di Esopo o la copia del brutto pezzente [
Il Diavolo]. Era
un orco che aveva i capelli come setole di porco, neri neri,
che gli ricadevano fino ai malleoli; la fronte grinzosa, in cui
ogni piega pareva un solco fatto dal vomere; le sopracciglia arruffate
e pelose, gli occhi infossati e pieni di quella tal cosa
che parevano botteghe sudice sotto due grandi sporgenti di
palpebre; la bocca stona e bavosa, dalla quale spuntavano
due zanne come di cignale; il petto tutto bernoccoli in un
bosco di pelame da poterne riempire un materasso; e, soprattutto,
alto di gobba, grande di pancia, sottile di gamba,
storto di piede; sicché vi faceva scontorcere la bocca per lo
spavento,
Cicella, tuttoché vedesse una mala ombra da spiritare, facendo
buon animo, gli disse:
"Uomo dabbene mio, porgimi
quel cestello che m'è caduto: ch'io ti possa veder prendere
una moglie ricca ricca!".
L'orco rispose: "Vien qua, giovane
mia, e prenditelo".
E la buona ragazza, afferrandosi
alle radici, aggrappandosi ai sassi, tanto s'industriò che discese. E, in fondo al precipizio, che cosa mai trovò? Tre fate:
una più bella dell'altra. Avevano i capelli d'oro filato, le facce
di luna in quintadecima, gli occhi che parlavano, le bocche
che facevano citazioni, a tenore di contratto, per essere soddisfatte
di baci inzuccherati. Che più? una gola delicata, uu
petto morbido, una mano pastosa, un piede tenerino, e tale
una grazia, insomma, che era onorata cornice a tante bellezze.
Le fate fecero a Cicella tante carezze e gentilezze che non
si potrebbero immaginare; e, presala per mano, la condussero
a casa loro, in quella grotta dove avrebbe potuto abitare un
re di corona, e la fecero sedere su tappeti turcheschi e cuscini
di velluto piano con fiocchi di canapa. Posero poi
l'una dopo l'altra le loro teste in grembo a Cicella e vollero
che le ravviasse; e mentre essa, con un pettine di corno di
bufalo lucente, faceva l'opera sua, le domandarono:"Bella
giovane mia, che trovi in questa testolina?". Ed essa, con un
bel garbo, rispondeva:"Vi trovo lendinelli e pidocchini,
perle e granatini".
Duncan J.
Piacque alle fate la buona creanza di Cicella, e queste
magne femmine, intrecciatesi i capelli che s'erano disciolte, la
condussero in giro con loro, mostrandole a mano a mano
tutte le meraviglie che erano in quel palazzo fatato: scrigni
con bellissimi intarsi di castagno e di carpino, col coperchio
di pelle di cavallo e le piastre di stagno; tavole di noce, lucide da specchìarvisi; riposti con castelletti di scodelle che ti abbagliavano; tende di panno verde infiorato; sedie di
cuoio con le spalliere; e tanti e tanti altri sfoggi che ogni altro,
al vederli, sarebbe rimasto incantato. Ma Cicella, come non
fosse il fatto suo, mirava le grandezze di quella casa senza
gridare al miracolo, e senza ah! e uh! da villano.
In ultimo, la fecero entrare in una guardaroba, piena zeppa
di vestiti lussuosi, e le fecero vedere gamurre di teletta dello
spagnuolo, robe con maniche a prosciutto di velluto a fondo
d'oro, coperte di cataluffo guarnite con puntini di smalto,
moncili di taffettà in tralice, frontali di fioretti naturali, e
gingilli a foglie di quercia, a conchiglia, a mezzaluna, a lingua
di serpente, grandiglie con puntali di vetri turchini e
bianchi, spighe di grano, gigli e pennacchiere da portare sul
capo, granatene di smalto con incastri d'argento, e mille altre
figurette e cianciafruscole da portare appese alla gola; e
le dissero di scegliere a voglia sua e prendere a piene mani
di quelle cose.
Ma Cicella, che era umile com'olio, lasciando stare le cose
di maggior valore, tolse una gonnella sfilacciata, che non valeva
tre calli. E le fate, a veder ciò, le domandarono: "Per
quale porta vuoi uscire, grazietta cara?".
Ed essa abbassandosi
a terra e quasi stropicciandovisi tutta, disse:
"Mi basta
uscire per la stalla".
Allora le fate, abbracciandola e mille
volte baciandola, le misero un vestito magnifico, tutto ricamato
d'oro; le acconciarono la testa alla scozzese, a canestretta e
con tanti nastri e fettucce, che vedevi un prato di fiori, il tuppo a perichitto con l'imbottitura e le treccette pendenti;
e l'accompagnarono fino alla porta, ch'era d'oro massiccio
con la cornice incrostata di carbonchi. Qui le dissero: "Va', Cicella cara, che ti possiamo vedere ben maritata; e,
quando sei sotto quella porta, alza gli occhi, e vedi che cosa
vi è sopra".
La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come
fu sotto l'arco della porta, levò la testa e le cadde una stella
d'oro sulla fronte, ch'era una cosa bellissima.
La giovinetta, fatta una bella riverenza, si parti; e, come
fu sotto l'arco della porta, levò la testa e le cadde una stella
d'oro sulla fronte, ch'era una cosa bellissima.
Stellata, dunque, come un cavallo, e linda e pinta, andò innanzi alla matrigna, raccontandole da cima a fondo quanto le era accaduto.
Ma il racconto fu una botta alla testa per quella femmina invidiosa, la quale non ebbe requie, e presto presto, fattosi indicare il luogo delle fate, vi avviò quella cernia di sua figlia. La quale, giunta al palazzo incantato e trovate quelle tre gioie di fate, quando le dettero a ravviare i capelli, e le domandarono cosa vi trovasse, rispose:"Pidocchi che ognuno è quanto un cece, e lendini, che ognuno è grosso quanto una cucchiara".
Ebbero le fate stizza e dispetto pel modo zotico della brutta villana, e, conoscendo dal mattino la mala giornata, pure dissimularono e la condussero nella stanza delle cose di lusso dicendole di scegliere il meglio.
Grannizia, vedendosi offrire il dito, si prese tutta la mano, e
afferrò la più bella guarnacca che fosse in quegli armadi.dicendole di scegliere il meglio.
Grannizia, vedendosi offrire il dito, si prese tutta la mano, e
afferrò la più bella guarnacca che fosse in quegli armadi.
Le
fate, a queste villanie l'una sull'altra, restarono interdette; ma tuttavia vollero vedere fino a qual segno sapesse giungere, e
le fecero la domanda: "Per quale porta hai piacere di uscire,
o bella ragazza? per la porta d'oro o per quella dell'orto?";
ed essa, con una faccia da punteruolo, rispose:"Per la migliore
che c'è".
Le fate, vista la presunzione della donnicciuola,
non le dettero nemmeno un pizzico di sale, e la
rimandarono con l'istruzione: "Quando sarai sotto la porta
della stalla, leva la faccia al cielo e vedi che ti viene ". E
quella usci tra il letame, e, alzata la testa passando sotto la
porta, le cadde sulla fronte un testicolo d'asino, che si apprese
alla pelle e pareva una voglia venuta alla madre quando
era incinta di lei.
Con questo bel guadagno, mogia mogia, tornò a Caradonia,
la quale, al vederla e all'udire il racconto, gettò schiuma
dalla bocca, e, rabbiosa come una cagna che ha partorito, fece
subito spogliare Cicella, l'avvolse in un sozzo panno e la
mandò a guardare i porci, mentre con gli abbigliamenti di
lei infronzolì la figliuola. Cicella, con flemma grande e con
una pazienza da Orlando, sopportò la trista vita a cui era
stata assegnata. O crudeltà da muovere le pietre della strada,
che quella bocca, degna di proferire concetti d'amore, fosse
sforzata a suonare un corno e a gridare: "Cicco- cicco, enzeenze!"; che quella bellezza, degna di stare tra proci, fosse
posta tra porci; che quella mano, degna di tirare per la cavezza
cento anime, si cacciasse avanti con una bacchetta cento
scrofe: malannaggia ai vizi di chi la comandò a questi boschi,
dove, sotto la tettoia delle ombre, la Paura e il Silenzio stavano
a ripararsi dal Sole!
Ma il Cielo, che calpesta i presuntuosi e solleva gli umili,
fece che capitasse colà un signore di alto grado, chiamato
Cuosemo; il quale, a vedere tra il fango un gioiello, tra i porci una fenice, e tra le nuvole rotte di quei cenci il Sole
splendente, ne rimase preso cosi forte che mandò a domandare
chi essa fosse e dove abitasse. E, appena avute queste
notizie, si presentò alla matrigna e gliela richiese per moglie,
promettendo di controdotarla di millanta ducati.
Caradonia mise subito l'occhio sul partito che si offriva,
pensando a sua figlia; e perciò rispose a Cuosemo che tornasse
sul far della notte, perché, intanto, voleva invitare i parenti.
Quegli andò via tutto giubilante, e gli parve ogni ora
mille anni che il Sole si coricasse al letto d'argento, preparatogli
dal fiume dell'India, per coricarsi a sua volta con quel
Sole che gli ardeva il cuore. E l'altra, in quel mezzo, ficcò
Cicella in una botte e ve la chiuse con disegno di darle una
bollitura; e, giacché essa aveva abbandonato i porci, con l'acqua
calda lessarla come si fa del porco.
L'aria era imbrunita e il cielo era diventato simile a
bocca di lupo, quando Cuosemo, che aveva il parossismo e
moriva dalla brama, per dare con una stretta alle amate bellezze
un po' di largo all'appassionato cuore, avviandosi con
grande esultanza verso la casa di lei, diceva: "Questa è l'ora
appunto di andare a incidere l'albero, che Amore ha piantato
in questo petto, per farne sgorgare manna di dolcezze amorose!
Questa è l'ora appunto di scavare il tesoro, che la Fortuna
mi ha promesso! Perciò, non perder tempo, o Cuosemo:
quando ti è offerto il porcello, corri con la cordicella! O notte,
o felice notte, o amica degli amanti, o anima e corpo, o pentola
e mestolo d'Amore, corri corri a precipizio, perché
sotto la tenda delle ombre tue io possa ripararmi dal calore
che mi consuma !".
Giunse, con questi pensieri, alla casa di Caradonia, e, in
luogo di Cicella, trovò Grannizia, un barbagianni in cambio
di un cardellino, un'erba porcacchia in luogo di una rosa
sbocciata: la quale, sebbene si fosse messa le vesti di Cicella,
e sebbene si dica:
Vesti Ceppone, che pare barone, con
tutto ciò pareva uno scarafaggio in una tela d'oro; né i conci,
gli empiastri e gli stiramenti e lisciamenti, fattile dalla madre,
avevano potuto toglierle la forfora dalla testa, le cispe
dagli occhi, le lentiggini dalla faccia, il calcinaccio dai denti,
i porri dalla gola, le pustole dal petto e la sozzura dai talloni;
e l'afa putida della sentina si sentiva lontano un miglio.
Lo sposo, vedendo questa sembianza, non sapeva che
cosa gli fosse accaduto; e, dato indietro come all'apparir
del diavolo, disse fra sé e sé: 'Sono svegliato o mi sono
calzato gli occhi alla rovescia? Son io o non son io? Che
cosa vedo? Sciagurato Cuosemo, ti è stata rovinata la barca!
Questa non è la faccia che stamattina mi ha afferrato per
la gola; questa non è l'immagine che mi è rimasta dipinta
nel cuore. Che vuol dir ciò, o Fortuna? Dove, dov'è la bellezza,
l'uncino che mi aggranfiò, l'argano che mi tirò, la
freccia che mi trapassò? Sapevo bene che né femmina né tela
a lume di candela; ma questa io me l'accaparrai a lume di
sole. Oimè, che l'oro di stamattina mi si è, stasera, mutato
in rame e il diamante in vetro!'.
Queste e altre parole mormorava e borbottava tra i denti;
pure, alla fine, costretto dalla necessità, die un bacio a Grannizia,
ma come se baciasse un vaso antico, che avvicinò e
scostò più di tre volte le labbra prima di toccare il muso della sposa; alla quale accostatosi, gli parve di trovarsi alla marina
di Ghiaia, la sera, quando quelle magne femmine portano tributo
al mare d'altro che di odori d'Arabia [
vedi nota]. E, poiché intanto
il Cielo, per parer giovane, si era fatta la tinta nera
alla barba bianca, e la terra di questo signore era molto distante,
egli fu costretto a portarsi la sposa a una casa poco
lontana dai confini di Panicocoli, dove, acconciato un saccone
sopra due casse, si coricò con lei.
Ma chi può dire la mala notte che passarono l'uno e l'altra?
che, quantunque fosse di estate e non giungesse a otto
ore, pure parve loro più lunga della più lunga notte dell'inverno.
Dalla sua parte, la sposa, irrequieta, tossiva, si spurgava,
tirava qualche calcio, sospirava e, con parole mute, chiedeva
il censo della casa affittata; ma Cuosemo faceva finta di
russare e tanto si ritirò sulla sponda del letto per non toccare
Grannizia, che, mancatogli il saccone, cadde sopra un orinale,
e la cosa riusci a puzzo e vergogna. Oh quante volte
lo sposo bestemmiò i morti del Sole, che indugiava tanto per tenerlo più lungo tempo sotto quel pressoio! Quanto pregò
che la Notte corresse a precipizio, rompendosi il collo, e le
stelle sprofondassero, per togliersi da canto, con la venuta
del giorno, quel brutto giorno !
Ma non cosi presto l'Alba usci a cacciare le gallinelle [
le Pleiadi]e
svegliare i galli, egli saltò dal letto, a stento si appuntò le
brache e andò di corsa alla casa di Caradonia per rinunziarle
la figlia e pagamele l'assaggio con un manico di scopa. Non
la trovò nell'entrare, che era andata al bosco per un fascio
di legna con l'intento di mettere al fuoco l'acqua per bollire
la figliastra; la quale stava tappata dentro la tomba di Bacco,
laddove meritava di essere esposta nella culla d'Amore.
Cuosemo, cercando invano Caradonia per la casa, e vedendo
che era sparita, cominciò a gridare:
"Olà, dove state?".
Ed ecco che un gatto soriano, che covava la cenere, all'improvviso
mandò una voce:"Gnao gnao! tua moglie è dentro
la botte, chiusa e inchiodata: gnao-gnao !".
Cuosemo si accostò
alla botte e senti un certo lamentio cupo e fioco; onde,
presa subito un'accetta che era appesa presso il focolare, sfasciò
la botte, e il cader giù delle doghe parve il cader della
tela di una scena sulla quale una Dea si avanzi a recitare
il prologo.
Non saprei dir come, a tanto splendore, Cuosemo non
cascasse morto di colpo; ma stette per un certo tempo come chi ha visto il monachetto, e poi, tornato in sé, corse ad abbracciare
Cicella, interrogandola affannosamente:"Chi ti aveva
posto in questo triste luogo, o gioiello del mio cuore? Chi
mi ti aveva nascosta, o speranza della mia vita? Che cosa è
questa? La leggiadra colombella in una gabbia di cerchi? e
venire, invece di lei, al fianco mio, l'uccello grifone? Come
va questo fatto? Parla, boccuccia mia bella; consola questo
spirito, lascia sfogare questo petto!".
Cicella gli raccontò tutto l'accaduto, senza lasciarne un
iota, quanto aveva in passato sofferto in casa dal giorno che
la matrigna vi mise piede, via via fino al momento che,
per toglierle la vita, l'aveva sotterrata in una botte.
Udito
ciò, Cuosemo la fece rimpiattare dietro la porta; e, rimessa
insieme la botte, andò a chiamare Grannizia e ve la ficcò
dentro, dicendole:"Sta' qui un po', tanto ch'io faccia eseguire
un incantamento, affinché i mali occhi non ti possano nuocere".
Poi, abbracciata Cicella, la levò su un cavallo e se là
portò a Pascarola, che era la terra sua.
Tornata Caradonia con una gran fascina, accese un gran
fuoco e vi pose sopra una grande caldaia d'acqua; e, quando
l'acqua cominciò a bollire, la versò attraverso il buco nella
botte e spolpò tutta la figlia, che digrignò i denti come se
avesse mangiato l'erba sardonica, e le si staccò la pelle come
al serpente, allorché getta la scoglia. E, quando giudicò che
Cicella avesse steso i piedi, ruppe la botte. Ma, trovando
invece (ahi, vista! ahi, conoscenza!) la propria figlia cotta da
una cruda madre, si strappò le ciocche, si graffiò la faccia,si picchiò il petto, batté le mani, cozzò con la testa contro
i muri, pestò i piedi a terra, e fece tanto lutto e piagnisteo
che vi accorse tutto il casale. E, poi ch'ebbe fatto e detto
cose dell'altro mondo, che non bastarono conforti a consolarla
né consigli a mitigarla, andò di corsa a un pozzo, e colà
zìiffete, con la testa in giù, si ruppe il collo, mostrando quanto
sìa vera quella sentenza:
Chi sputa in cielo, gli ritorna in faccia.
Maxence E.
Traduzione e Note di Benedetto Croce.
Il testo originale è nella pagina G.B. Basile.
Dalle Note al Testo:
...
alla quale accostatosi, gli parve di trovarsi alla marina
di Ghiaia, la sera, quando quelle magne femmine portano tributo
al mare d'altro che di odori d'Arabia
"La nostra sconcissima architettura e cattiva distribuzione degli
appartamenti -scrive il Galiam {Voc. nap., I, 280-2) - e la strettezza
con cui si abita in una popolatissima capitale, rendono sensibile in tutte
le case questo necessario servizio. Nel borgo di Chiaia non solo è sensibile
ma importuno, giacché, essendo quelle case edificate tutte a livello
del mare, e, per non esservi caduta bastante, non essendosi potuto nelle
case costruir le chiaviche e condotti sotterranei, conviene che lo schifoso
votamento si faccia alla marina, attraversando la nobilissima strada del
pubblico passeggio ". Le ore della sera si dicevano perciò
ore iettatone e
ore fetorie; e la prima ora di notte prese anche il nome di
mal'ora
di Chiaia, e a questo modo è designata perfino in atti legislativi.